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Il trattamento della fobia specifica attraverso lo studio dell’attività cerebrale altrui 

Un nuovo studio intende rendere meno paurosi gli oggetti fobici manipolando direttamente l’attività cerebrale dei soggetti con fobie specifiche.

Di Martina Bandera

Pubblicato il 23 Mar. 2018

Aggiornato il 16 Ott. 2018 13:04

Un team di ricercatori internazionali ha compiuto una nuova ricerca che potrebbe portare allo sviluppo di una nuova forma di trattamento per le fobie specifiche, presto applicabile sui pazienti. 

Trattare la fobia specifica manipolando l’attività cerebrale

Lo studio si basa su recenti esperimenti condotti presso l’Advanced Telecommunications Research Institute International in Giappone. Utilizzando i metodi all’avanguardia presi in prestito dall’intelligenza artificiale, simili agli algoritmi informatici utilizzati per riconoscere i volti dalle immagini, il team è stato in grado di “leggere”, grazie all’utilizzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI), le immagini mentali spontanee all’interno del cervello dei partecipanti.

Lo scopo dello studio era quello di rendere meno paurosi gli oggetti fobici manipolando direttamente l’attività cerebrale: una piccola ricompensa monetaria era assegnata ogni qual volta il soggetto ricordava inconsciamente l’oggetto pauroso. In questo modo secondo i ricercatori, l’immagine di un serpente, ad esempio, veniva associato a un sentimento positivo, diventando a lungo andare meno spaventoso e sgradevole.

L’autore principale dello studio Vincent Taschereau-Dumouchel afferma “Sapevamo che l’idea avrebbe funzionato sui soggetti non fobici, la sfida era capire come leggere i pensieri legati agli oggetti spaventosi dalle immagini cerebrali dei pazienti”.

La partecipazione allo studio di soggetti normali (senza alcuna fobia specifica) appare estremamente importante in quanto ai partecipanti non fobici è possibile mostrare molte immagini, potenzialmente spaventose, senza conseguenze particolari e lasciare che l’algoritmo apprenda il modello cerebrale che si attiva. L’applicazione di questa stessa procedura in pazienti fobici però diventa problematica poiché essi provano un estremo disagio nell’osservare le immagini di oggetti temuti.

Il team ha ideato una soluzione innovativa al problema, ovvero quella di inferire gli schemi dell’attività cerebrale dai partecipanti non fobici. Le parole del Professor Hakwan Lau chiariscono meglio il concetto “Se un soggetto ha paura dei serpenti, per decodificare gli schemi della sua attività cerebrale, egli non deve necessariamente osservare l’immagine di un serpente; un altro individuo può, come suo “surrogato”, osservare le immagini fobiche che non suscitano in lui nessuna reazione e sulla base di questa normale attivazione cerebrale, si potrebbe dedurre a livello computazionale quale dovrebbe essere l’attivazione all’interno del cervello fobico alla vista del serpente. Questo è possibile grazie ad un metodo ingegnoso chiamato iperallineamento”.

Sebbene i modelli di attività cerebrale di individui diversi abbiano organizzazioni spaziali diverse, il metodo di iperallineamento può correggere questa discrepanza. I ricercatori hanno dimostrato che, con una grande quantità di dati provenienti da molti “surrogati”, la fobia del paziente può essere ridotta.

I soggetti venivano sottoposti a sessioni di rinforzo neurale precedute e seguite da sessioni di controllo per valutare l’efficienza del trattamento. In particolar modo durante la procedura di rinforzo neurale, utilizzando dei compiti specifici, i ricercatori erano in grado di attivare nel soggetto specifici pattern cerebrali che si era visto essere associati allo stimolo temuto, elicitando così la stessa risposta neurale che si sarebbe attivata alla vista dell’animale pauroso. Lo scopo della sessione era di consentire ai partecipanti di associare la ricompensa monetaria all’attivazione di queste rappresentazioni neurali giungendo così ad un ridimensionamento inconscio della risposta fobica.

Dopo aver partecipato all’intervento i pazienti mostravano una diminuzione della conduttanza cutanea e dell’attività emodinamica dell’amigdala in risposta alle immagini temute suggerendo un’influenza del trial clinico sulle risposte fisiologiche e cerebrali dei soggetti.

Gli scienziati pensano che il metodo possa rappresentare un’innovazione soprattutto per il fatto che questo tipo di procedura appare libera dalle difficoltà che il soggetto riscontra invece nei tradizionali trattamenti psicoterapeutici quali ad esempio, l’esposizione in vivo.

Il team spera che questo protocollo possa ispirare nuovi tipi di trattamento, non solo per la fobia specifica ma anche per altri tipi di disturbi come il disturbo da stress post-traumatico.

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