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Riconciliare causazione cognitiva e causazione ambientale: un approccio funzionale alla cognizione

L’ adozione di un approccio funzionale-cognitivo, permetterebbe agli esperti di psicologia cognitiva e a quelli esperti di analisi del comportamento di perseguire obiettivi diversi, ma che convergano nel promuovere la conoscenza circa il funzionamento psicologico degli esseri umani.

Di Guest

Pubblicato il 05 Mar. 2018

Aggiornato il 22 Mar. 2018 15:09

È opinione diffusa che l’ analisi del comportamento e la psicologia cognitiva siano in competizione tra loro e mutualmente esclusive. In questo articolo proveremo a sfatare questa convinzione.

Davide Carnevali

 

È opinione diffusa che l’ analisi del comportamento e la psicologia cognitiva siano in competizione tra loro e mutualmente esclusive. In questo articolo proveremo a sfatare questa convinzione, dimostrando come l’ approccio funzionale alla cognizione, fortemente enfatizzato dal programma di ricerca comportamentale sulle risposte relazionali derivate, il cui prodotto ultimo è la Relational Frame Theory, (Sidman & Tailby, 1982; Hayes, Barnes-Holmes & Roche, 2001; Törneke, 2010; Cassidy, Roche & O’Hora, 2010), abbia gettato le basi per una fruttuosa collaborazione tra entrambi gli orientamenti.

Analisi del comportamento e psicologia cognitiva: due isole dello stesso arcipelago

Fino ad aggi, la relazione tra analisi del comportamento e psicologia cognitiva può essere paragonata alla relazione esistente fra tribù che vivono su isole remote appartenenti allo stesso arcipelago (Hughes, De Houwer, & Perugini, 2016). Questa mancanza di interazione non è sorprendente alla luce di ciò che è stato detto e scritto da entrambe le parti sulla relazione tra analisi comportamentale (o comportamentismo in senso più ampio) e psicologia cognitiva.

Gli psicologi cognitivi hanno creato il mito della “rivoluzione cognitiva” (vedi Watrin e Darwich, 2012, per un’eccellente revisione) che avrebbe comportato la fine del comportamentismo, in modo simile a quello in cui una specie animale viene soppiantata dall’avvento di un’altra nel corso dell’evoluzione naturale. Questo mito pretende di affermare la superiorità esplicativa della psicologia cognitiva rispetto all’ analisi del comportamento, considerando quest’ultima definitivamente estinta o comunque in via di estinzione. Le varianti di questo mito sono così diffuse nei libri di testo universitari introduttivi alla psicologia che, con ogni probabilità, la grande maggioranza degli psicologi laureati negli ultimi 20 anni sono beatamente inconsapevoli dei risultati o persino dell’esistenza dell’ analisi del comportamento (Hobbs & Chiesa, 2011).

Skinner, padre dell’ analisi del comportamento, da parte sua, ha fatto ben poco per favorire il riavvicinamento con la psicologia cognitiva, che considerava una psicologia descrittiva, infarcita di mentalismo (costrutti e rappresentazioni della realtà comportamentale) e priva di qualsiasi valore esplicativo (Skinner, 1990). Altri autorevoli analisti del comportamento (ad es. MacCorquodale, 1970; Anderson, Hawkins & Scotti, 2000; Gifford & Hayes, 1999; Palmer, 2006; Watrin & Darwich, 2012) hanno invece risposto alle critiche degli psicologi cognitivi, fornendo chiare ragioni a sostegno delle proprie posizioni o mettendo in rilievo le problematicità intrinseche a tali critiche. Per esempio, un problema spesso trascurato nelle critiche formulate dagli studiosi cognitivi, riguarda la relativa conoscenza del comportamentismo, il quale non è riducibile a un’unica e vera scuola psicologica in senso stretto, ma piuttosto fa riferimento a una famiglia di posizioni concettuali, all’interno della quale convivono posizioni profondamente diverse caratterizzate da opzioni metateoriche e teoriche talvolta contrastanti (Moderato & Ziino, 1994). Per queste ragioni è difficile capire quale rappresentazione ogni ricercatore abbia in mente quando si riferisce al comportamentismo per criticarlo (Moderato & Ziino, 1994). Sfortunatamente, queste repliche e argomentazioni sono state per lo più ignorate dagli psicologi cognitivi, forse in parte perché sono state pubblicate quasi esclusivamente su riviste specialistiche di analisi del comportamento che gli psicologi cognitivi semplicemente non leggono (Palmer, 2006). Alla fine, la mancanza di risposta nel merito d elle riflessioni esposte ha contribuito a rafforzare la percezione circa l’impossibilità di stabilire relazioni costruttive tra i sostenitori dei due orientamenti.

Una via di riconciliazione tra posizioni così distanti è stata tracciata recentemente da alcuni studiosi (De Houwer, 2011; Hughes & Barnes‐Holmes, 2016)., 2016) appartenenti a posizioni contestualiste ed empiriste (Morris,1988; Biglan & Hayes, 1996), in linea con una moderna visione dell’ analisi del comportamento. Tali autori sostengono che la psicologia funzionale (che include anche l’ analisi del comportamento) e la psicologia cognitiva sono allo stesso tempo fondamentalmente diverse e si sostengono a vicenda.

Analisi comportamentale e psicologia cognitiva tra explanandum e explanans

In sostanza, è stato proposto un quadro cognitivo-funzionale che colloca l’ analisi del comportamento e la psicologia cognitiva su diversi livelli di spiegazione. Ognuno di essi richiede di essere definito in termini di explanandum (ossia il fenomeno che deve essere spiegato) e dei rispettivi explanans (ossia l’insieme delle conoscenze utilizzate per spiegare un fenomeno). Da questo punto di vista, la psicologia funzionale e cognitiva si situano a diversi livelli di spiegazione proprio perché si concentrano su diversi explanandum ed explanans (Bechtel, 2008; De Houwer, 2011). Più precisamente, mentre la psicologia funzionale (analisi funzionale) mira a comprendere il comportamento in termini di relazioni di controllo (dette relazioni funzionali), rintracciando le variabili ambientali ritenute responsabili della sua emissione (Chiesa, 1994), la psicologia cognitiva (analisi cognitiva) mira invece a comprendere i processi mentali che mediano gli effetti comportamentali di un fenomeno psicologico, facendo appello a meccanismi mentali e/o a peculiari processi di elaborazione cognitiva (Gardner, 1985).

Consideriamo per esempio il paradigma del condizionamento classico di Pavlov e, nello specifico, l’impatto che la co-occorrenza di eventi stimolo (es. suono neutrale e shock elettrico) esercita sul comportamento osservato: la risposta di incremento della conduttanza cutanea elicitata dalla semplice presentazione del suono divenuto stimolo condizionale (Pavlov, 1927).

Da un punto di vista funzionale, è proprio il processo di interazione che coinvolge l’organismo durante la co-occorenza tra stimoli (il tono acustico neutrale e lo shock elettrico o stimolo incondizionale) che di per sé fornisce la spiegazione del cambiamento comportamentale riscontrato (ovvero l’aumento della conduttanza della pelle alla sola presenza del suono, in assenza dello shock elettrico). La spiegazione del comportamento (la risposta di conduttanza cutanea misurata) ha pertanto una genesi esternalistica intercettabile nella relazione di incessante interdipendenza che l’organismo stabilisce con il contesto e che fa da scenario alla manifestazione comportamentale osservata.

Gli psicologi cognitivi d’altro canto, vogliono spiegare l’ effetto comportamentale (il condizionamento classico e quindi l’impatto che la co-occorenza di stimoli esercita sul comportamento) e non il comportamento direttamente osservabile (l’aumento della conduttanza della pelle) e per far ciò chiamano in causa specifici meccanismi mentali. Ad esempio, per spiegare il condizionamento classico, gli psicologi cognitivi hanno proposto che gli accoppiamenti tono-shock producono un’associazione in memoria tra la rappresentazione del tono acustico e la rappresentazione dello shock elettrico. In questo modo, una volta che questa associazione si è formata, la sola presentazione del tono acustico sarà in grado di attivare non solo la propria rappresentazione, ma anche la rappresentazione dello shock elettrico, che a sua volta provocherà un aumento della conduttanza della pelle (Bouton, 1993). Ancora una volta, dunque, appare netta e mercata la distanza tra le due posizioni esplicative appena descritte.

Da un lato i ricercatori cognitivi non potranno mai essere soddisfatti da un’analisi funzionale di un fenomeno comportamentale, poiché la considerano una semplice descrizione. Dall’altra parte, i ricercatori funzionali ritengono di non aver bisogno di spiegare come la mente influenzi il comportamento, dal momento che la conoscenza di specifiche relazioni con talune variabili ambientali è ritenuta di per sé esauriente e sufficiente per predire e per influenzare il comportamento stesso. Questa visione dicotomica ha invalidato sul nascere una possibile fruttuosa comunicazione tra analisi del comportamento e psicologia cognitiva.

Certamente queste prospettive sono profondamente diverse anche perché fondate su punti di vista filosofici marcatamente differenti (Hayes, Hayes e Reese, 1988) e poco senso avrebbe negarle o minimizzarle. Tuttavia, come anticipato, è stata avanzata una via di riconciliazione ai fini di una collaborazione fondamentale per l’avanzamento e la parsimonia scientifici.

Verso un approccio cognitivo-funzionale

La proposta di un approccio cognitivo-funzionale capace di affidare obiettivi diversi alla psicologia cognitiva e all’ analisi del comportamento, permetterebbe infatti di eliminare tensioni, dissonanze e conflittualità tra i due modelli. Per esempio, dato che i meccanismi mentali di cui si occupa la psicologia cognitiva non esistono nel vuoto, ma sono sempre modellati dall’ambiente passato e attivati ​​dall’ambiente attuale, ne consegue che una vera comprensione dei meccanismi mentali (obiettivo della psicologia cognitiva) può realizzarsi solo se si tiene conto dell’ambiente (Fiedler, 2014) e degli effetti che esso esercita sul comportamento (obiettivo della psicologia funzionale e quindi dell’ analisi del comportamento). Sul versante clinico, per esempio, un’integrazione di questo tipo sembra intercettabile nel modello di concettualizzazione tutto italiano della LIBET (Sassaroli, Caselli e Ruggiero, 2015). La tendenza ad occuparsi della ricostruzione del processo di apprendimento nel corso della storia evolutiva e personale del cliente e la svolta centrata sulle disfunzioni di processo mettono in evidenza la necessità di considerare modelli di concettualizzazione funzionalista del caso.

Viceversa, la psicologia cognitiva che genera continue previsioni su relazioni ambiente-comportamento (Zentall, 2001) potrebbe a sua volta contribuire allo sviluppo della psicologia funzionale. La letteratura cognitiva, infatti, è piena di effetti comportamentali che non compaiono nella letteratura corrente della psicologia funzionale e che possono essere collegati a principi funzionali generali. Pensiamo per esempio a tipici effetti di interferenza studiati dalla psicologia cognitiva come l’effetto Stroop, l’effetto Simon, l’effetto Navon, l’effetto Priming, o ad altri effetti come quelli di “tipicità” o di “distanza gerarchica” alla base dei processi di categorizzazione, o ancora ai più noti effetti placebo e nocebo a cui i ricercatori cognitivi fanno appello per comprendere la modulazione cognitiva ed emotiva dei sintomi. Gli psicologi che adottano un approccio funzionale, come gli analisti del comportamento, sono fortemente interessati a spiegare tali fenomeni identificando tipiche relazioni tra ambiente e comportamento, traducibili in termini di principi generali di funzionamento precisi e di ampia portata (Barnes-Holmes & Hussey, 2016) e scientificamente fondati su paradigmi sperimentali di laboratorio.

Dunque, in linea di principio, gli analisti del comportamento potrebbero usare le teorie cognitive per aumentare la propria conoscenza funzionale (vedi Barnes-Holmes & Hussey, 2016). Ad esempio, collegando il noto effetto Stroop “colore-parola” con il principio dello Stimulus control (definito in analisi del comportamento come controllo esercitato dallo stimolo sulla risposta comportamentale) i ricercatori funzionali, invece di focalizzarsi su presunte alterazioni nei meccanismi di elaborazione delle informazioni, potrebbero utilizzare questi dati empirici in merito all’effetto stroop come guide per approfondire l’analisi delle sorgenti contestuali che regolano le risposte attentive. In questo modo, i ricercatori funzionali cercheranno di influenzare tali risposte, attraverso una manipolazione sempre più precisa degli stimoli ambientali.

In particolare oggi, che la ricerca su linguaggio e cognizione (Relational Frame Theory; Hayes, Roche e Barnes Holmes, 2001) sta acquisendo interesse all’interno della comunità degli analisti del comportamento, adottare un approccio funzionale-cognitivo potrebbe offrire uno scenario di svolta importante sia sul versante sperimentale che su quello applicato. Infatti, a livello teorico, i ricercatori cognitivi hanno già esplorato le proprietà fondamentali di ciò che essi chiamano “conoscenza relazionale”, generando un’ampia, ricca e complessa letteratura sul tema, di cui gran parte degli analisti del comportamento potrebbe non essere consapevole, perdendo l’opportunità di analizzarla da un punto di vista funzionale.

Purtroppo, nonostante l’ampia sovrapposizione tra la ricerca in analisi del comportamento e in psicologia cognitiva, è quasi impossibile trovare riferimenti incrociato tra le due letterature. Questo, rende altamente probabile il proliferare di terminologie, teorie, ipotesi almeno in parte ridondanti, fatto dannoso in ambito scientifico.

Per tutte queste ragioni, l’adozione di un approccio funzionale-cognitivo, permetterebbe ai ricercatori cognitivi e a quelli provenienti dall’ analisi del comportamento di perseguire obiettivi diversi, ma che convergano nel promuovere la conoscenza circa il funzionamento psicologico degli esseri umani. Tale approccio potrebbe sancire l’esistenza di una relazione reciprocamente vantaggiosa tra il livello di spiegazione funzionale e quello cognitivo e fornire quel contesto meta-teorico ad oggi mancante in cui analisti del comportamento e psicologi cognitivi possono finalmente interagire in modo costruttivo ed edificante (possibilmente anche sulle riviste scientifiche!).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Anderson, C. M., Hawkins, R. P., Freeman, K. A., & Scotti, J. R. (2000). Private events: Do they belong in a science of human behavior?. The Behavior Analyst, 23(1), 1-10.
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  • Bechtel, W. (2008). Mental mechanisms: Philosophical perspectives on cognitive neuroscience. New York: Taylor & Francis.
  • Biglan, A., & Hayes, S. C. (1996). Should the behavioral sciences become more pragmatic? The case for functional contextualism in research on human behavior. Applied and Preventive Psychology, 5(1), 47-57.
  • Bouton, M. (1993). Context, time, and memory retrieval in the interference paradigms of Pavlovian learning. Psychol Bull 114: 80–99.
  • Cassidy, S., Roche, B., & O’Hora, D. (2010). Relational Frame Theory and human intelligence. European Journal of Behavior Analysis, 11(1), 37-51.
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  • Gardner, H. (1985). The mind’s new science: A history of the cognitive revolution. New York: Basic books
  • Gifford, E. V., & Hayes, S. C. (1999). Functional contextualism: A pragmatic philosophy for behavioral science. In Handbook of behaviorism (pp. 285-327).
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  • Hughes, S., & Barnes‐Holmes, D. (2016). Relational frame theory. The Wiley handbook of contextual behavioral science, 129-178
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