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Virtuale e familiare: come gestire l’utilizzo dei dispositivi tecnologici da parte dei bambini

Il tempo che i bambini passano davanti agli schermi non è tempo perso, ma in esso non vengono utilizzate le capacità innate per il gioco e adeguate all'età

Di Gessica Iannone

Pubblicato il 21 Feb. 2018

Sempre più spesso mi capita di essere interpellata sull’utilizzo degli schermi da parte di bambine e bambini. Ecco perchè ho iniziato ad occuparmi della questione e a cercare di capire, andando dietro al nostro tempo e cercando insieme di anticiparlo, come aiutare i genitori che si trovano a dover gestire una delle forze apparentemente più ingestibile di questa epoca: il virtuale.

 

Come posizionarsi di fronte all’utilizzo di telefoni, computer e tablet?

In un convegno dello scorso settembre (Waimhbl,2017)  i colleghi psicologi presenti hanno dimostrato come adottare una posizione clinica vuol dire non giudicare gli adulti che si occupano di educazione (genitori, nonni, baby sitter, maestri, etc.) ma sostenerli, spiegando loro in quale fase della crescita si trova il bambino per capire i suoi bisogni specifici.

Se si pensa ai primi mesi di vita, è evidente che per crescere si ha bisogno di toccare gli oggetti, metterli in bocca, odorarli, manipolarli, poi lanciarli, riprenderli, in pratica farli propri. La visione passiva impedirebbe dunque di sperimentare il mondo in modo attivo, di vivere la sensazione concreta di poter agire su di esso. Si può allora riflettere insieme sul fatto che il tempo passato davanti ad uno schermo permette di utilizzare solo due sensi: vista e udito. Che cosa succede allora se non si usano tutti e cinque i sensi? Come professionisti dell’infanzia, non si puo ignorare che numerose ricerche dimostrano e confermano i pericoli della televisione e dell’uso dello schermo in particolare prima dei tre anni (Ripamonti, 2016).

Tutto il tempo passato davanti agli schermi non è “perso” ma è di certo un tempo in cui non vengono utilizzate le capacità primordiali che sono innate per il gioco e adeguate all’età.

Secondo il report tecnico dell’AAP (American Academy of Pediatrics (Reid Chassiakos et al., 2016) bisogna considerare che per un bebé di pochi mesi, il ritmo rapido delle immagini, dei colori e dei suoni sono di una intensità largamente superiore alle stimolazioni abituali della sua vita quotidiana. Uno schermo acceso cattura l’attenzione ma rischia di renderlo eccitato, agitato e di nuocere alla sua concentrazione. Ci tengo a sottolineare che rischia: ciò significa che utilizzare un tablet per giocare non equivale necessariamente a compromettere il suo apprendimento, ma certamente a disinvestire nella relazione, con gli altri e con se stessi.

Relazione con se stessa e con se stesso

Il gioco è fondamentale per sviluppare creatività e capacità creative, intellettuali ma anche emotive; giocare permette di confrontarsi con l’apprendimento e il divertimento ma anche con due punti essenziali, purtroppo spesso dimenticati, se non rimossi: la noia e la solitudine. La bambina e il bambino devono poco a poco imparare a sostenere l’assenza, il vuoto e la monotonia; nel caso di un tablet, ecco un oggetto esterno che riempie, in modo facile e immediato, il vuoto interno, impedendo di poter restare all’ascolto delle proprie emozioni e di gestire ogni piccola e grande frustrazione.

L’uso frequente delle nuove tecnologie non sembra aiutare lo sviluppo della capacità sociali del bambino. Il tablet rischia di scoraggiare l’interazione sociale in anni nei quali nel cervello avvengono importanti sviluppi neuronali e neurogenerativi. Una prima conseguenza, derivante dall’isolamento nel quale si immergono bambini rapiti dal loro gadget tecnologico, è una minore capacità nella comunicazione (Solo Tablet, 2013).

Dunque, meno gioco reale in solitudine, meno gioco reale in compagnia.

Relazione con gli altri

Le esperienze intersoggettive tra madre, padre e figlio ma anche tra fratelli e sorelle contengono emozioni condivise che permettono al bambino e alla bambina la sintonizzazione con l’altro,  in modo tale che le esperienze piacevoli siano amplificate e che quelle negative siano ridotte e contenute, con una intenzione congruente per capirsi e stare bene.

E’ possibile osservare nelle nostre stesse famiglie come la comunicazione quotidiana si intrecci ormai sempre più frequentemente con il tempo dello schermo: le conversazioni telefoniche dirette e vocali si sommano alle interazioni che avvengono tramite le applicazioni. Il risultato è che figli non solo passano sempre più tempo davanti ad uno schermo, ma vedono i propri genitori farlo, negli orari e nei momenti in cui prima si era “irraggiungibili”.

I momenti adatti e consacrati alla relazione diventano sacri allora per ogni membro della famiglia!

Nessun programma televisivo può avere lo stesso valore di una parola veramente indirizzata ad un figlio, ad una figlia e aggiungerei che i piccoli hanno tanto bisogno che si racconti loro delle storie, quanto i grandi hanno piacere nel farlo.

Secondo i colleghi che si occupano di studiare l’argomento (Waimhbl, 2017) non esiste ancora sufficiente letteratura scientifica per poter arrivare a confermare le ipotesi sulla tossicità degli schermi ma è evidente, ad ogni livello, il rischio del tempo sottratto alle interazioni sociali.

Insomma, fra familiare e virtuale non si dovrebbe compiere una scelta: il virtuale può e deve essere utile a costruire il familiare. Come ci ha insegnato Donald Winnicott, non esiste un bambino: esiste una relazione.

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