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Le malattie infettive attraverso le opere degli artisti

Diversi autori e artisti hanno rappresentato la malattia nelle loro opere d'arte e letterarie, tra cui Kafka, Munch e Tondelli.

Di Sonia Sofia

Pubblicato il 16 Gen. 2018

Fin dall’antichità, la Malattia Infettiva è stata interpretata come un segno divino, una punizione inflitta all’uomo come castigo per le colpe commesse.
I richiami al tema si moltiplicano in campo letterario, dove gli autori lo interpretano in rapporto alla società e alla vita.

 

La malattia infettiva rappresentata nelle opere letterarie

Uno scorcio interessante della peste che colpì Milano nel 1600 lo ritroviamo, ad esempio, in tre capitoli dei Promessi sposi da Alessandro Manzoni. Nelle pagine del grande romanziere lombardo il morbo è qualcosa di ancestrale, di irreversibile, che giunge a punire e condannare un’intera comunità.

Ne La Peste, Albert Camus utilizza invece lo spunto del male per analizzare la condizione di solitudine, di abbandono, di morte interiore dell’individuo nel vivere sociale. Se andiamo indietro di qualche secolo, ci tocca la rappresentazione poetica e straziante della tubercolosi compiuta da Alexandre Dumas figlio, nel dipingere il personaggio di Marguerite Gautier de La dama delle camelie.
Ma torniamo al Novecento con Franz Kafka, con l’angoscia della sue Metamorfosi, un fenomeno che modifica il corpo, stravolgendolo, piagandolo con le sue stimmate; o ancora con La Montagna incantata di Thomas Mann, altro capolavoro inarrivabile nel descrivere la condizione dei toccati dal morbo, all’interno della produttività del tempo.
Soffermiamoci su alcuni artisti che in epoca contemporanea hanno raccontato la malattia, mettendola al centro delle proprie opere.

La malattia infettiva rappresentata da Kafka

Franz Kafka nasce a Praga da ebrei tedeschi. La famiglia è di cultura germanica, ma l’appartenenza al ghetto la esclude dal rapporto con la minoranza tedesca di Praga. Il padre è un uomo tirannico ed autoritario: “di fronte all’intolleranza e alla tirannia dei miei genitori, vivo nella mia famiglia più estraneo di uno straniero”.

Kafka si sentirà sempre doppiamente straniero: nella sua famiglia e nella sua città. Quando si laurea in Giurisprudenza, si manifestano i primi segni della tubercolosi polmonare che sarà causa della morte prematura all’età di quarantuno anni.
Assunto da un istituto locale, si occupa di Assicurazioni per Infortuni sul Lavoro, impiego che gli consentirà di avere spazi da dedicare alla scrittura.

I sintomi che gli avvelenano la vita sono: insonnia, acufeni, astenia e disturbi neurovegetativi. Dopo pochi anni è costretto al ricovero presso una casa di cura specializzata in malattie del sistema nervoso e patologie polmonari.
E’ tormentato da cefalee e profonda depressione, al punto da sfiorare il suicidio. Descrive la prima volta che la malattia tubercolare gli procura un’emottisi:
Le 4 del mattino. Mi sveglio, mi meraviglio della strana quantità di saliva in bocca, la sputo ma poi decido di accendere la luce. E così comincia. E pensai che non dovesse smettere più. Come facevo a tappare la sorgente se non l’avevo aperta. Ecco, dunque la situazione di questa malattia spirituale, la tubercolosi.

Lo scrittore definisce la sua condizione una “malattia spirituale“, giacché è qualcosa che tocca in profondità la sua dimensione esistenziale, e probabilmente anche il nodo nevralgico del rapporto stesso con la scrittura e l’arte.

Cinque anni prima aveva conosciuto Felice Baver con la quale aveva intrattenuto una fitta corrispondenza. Ma presto incontrerà Julia Wolryeck, lasciata dopo qualche mese per Milena Lesenka. I suoi amori sono il riflesso di una grande vulnerabilità.
Kafka ha paura di perdere la libertà ma nello stesso tempo di rimanere solo e soccombere alla morte. Intanto, la tubercolosi si aggrava, con la comparsa di febbre elevata e tosse. Viene ricoverato a Vienna ma il processo tubercolare ha ormai invaso anche la laringe. Le condizioni generali sono talmente compromesse che Kafka muore dopo pochi mesi.

Il rapporto tra la vita di Kafka e l’opera è strettissimo.
Lo scrittore è figlio di ebrei inseriti in ambiente germanico, quindi in parte staccati dalle tradizioni originarie e sostanzialmente non accettati.
In secondo luogo, pesa nello sviluppo caratteriale del giovane il rapporto con la famiglia, specialmente con il padre raccontato mirabilmente in Lettera al padre.

Si è detto che nella sua opera la malattia mentale è ben rappresentata, a discapito del risvolto fisico. Niente di più sbagliato. L’approccio ai romanzi di Kafka non può prescindere da un’indagine accurata dei suoi mali fisici. L’autore non chiama mai per nome il suo male, quasi volesse staccarlo da una contingenza reale, concreta, per farlo diventare qualcosa di metafisico.

E anche se non si parla mai di tubercolosi, l’intera opera è la traduzione del senso di estraneità rispetto al mondo esterno, del desiderio e al tempo stesso dell’impossibilità di vivere la vita quotidiana come chiunque e di partecipare al godimento delle relazioni.
Emerge il problema del corpo come elemento estraneo da sé, una condizione che nel racconto Metamorfosi condanna il protagonista a mutarsi in un orribile insetto.

Gregor, il protagonista del racconto, è un malato cronico, e la sorella che si prende cura di lui viene designata col termine di “schwester” che indica anche “infermiera”.

Il parallelismo con l’autore è quasi immediato; nel racconto è possibile, infatti, notare i mutamenti che una grave malattia induce nel corpo, con le conseguenti difficoltà nell’espletare le attività quotidiane, le paure nel rapporto con gli altri, nella vita sociale ed affettiva, la consapevolezza di essere divenuto “un parassita” agli occhi degli altri. Alla condizione fisica avvertita come ripugnante si sommano sensi di colpa e vergogna per il proprio stato, per l’intensa astenia e l’impossibilità di mantenere la famiglia.
Spezzati i rapporti familiari, perduto il lavoro e costretto a vivere rinchiuso e nascosto, il protagonista è votato alla morte.

L’angoscia e la sofferenza nelle opere di Munch

Gli spettri della parola e dell’angoscia di questo autore diventano, invece, nell’arte di Edvard Munch figure terrificanti, simili a sonnambuli dai tratti di cadavere.
Munch ha saputo estrarre dal suo tormentato flusso interiore forme e fantasmi di foggia precisa: persone e ambienti che come ombre o aloni si dileguano dall’orizzonte, e che sebbene esistenti versano in condizioni di evidente agonia.
Il pittore nasce in Norvegia, è il secondogenito di 5 figli. La madre muore precocemente di tubercolosi, il padre vive da recluso per il precipitare di un disturbo depressivo con ossessioni religiose.

Nel 1885 ha ventidue anni e per la prima volta, sfruttando una borsa di studio, si allontana dalla Norvegia per visitare Anversa e Parigi. Nasce in quel modo un’erranza senza fine che lo condurrà a viaggiare da una nazione all’altra ma anche a dividersi in patria tra più residenze pur di allontanarsi dalla capitale Oslo. Lì lo incalza la sensazione intollerabile di essere perseguitato dagli altri. La stessa inquietudine caratterizzerà le sue vicende amorose, caratterizzate da un’alternanza di legami e rotture, fiducia e disperazione (da “La mente spiegata da Edvard Munch” di M. Alessandrini).
Scrive a 77 anni: «Ho vissuto perlopiù senza dimora, sentendomi braccato, a causa dell’atteggiamento aggressivo ed irresponsabile di molti. Ho dovuto spostarmi da un luogo all’altro per trovare un po’ di pace […] l’ho già detto in precedenza – io vivo in carrozze ferroviarie e nella mia automobile».

L’intera vicenda di questo artista è pervasa di paura e rabbia. Con la sua arte ha reso evidenti schemi mentali e meccanismi patologici esponendoli a nudo, e consegnando le sue confessioni al Diario ci ha mostrato le dinamiche di sviluppi traumatici:
«Malattia, pazzia e morte sono gli angeli neri che hanno attorniato la mia culla. Mia madre è morta prematuramente – da lei ho ereditato i semi della tisi. Mio padre è stato ossessivamente religioso – sfiorando la follia. Per generazioni e generazioni è stato questo il fato della sua famiglia. Gli angeli del terrore – dolore e morte – mi sono rimasti accanto dal giorno della nascita. Mi hanno seguito mentre giocavo – mi hanno seguito ovunque. Mi hanno seguito nel sole di primavera e nello splendore dell’estate».

Più volte il pittore racconta di come sia nata in lui l’idea dell’Urlo, il suo dipinto celebre che rappresenta il manifestarsi di un attacco di panico: «Camminavo lungo la strada con due amici, quando il sole tramontò. I cieli diventarono improvvisamente rosso sangue e percepii un brivido di tristezza. Un dolore lancinante al petto. Mi fermai, mi appoggiai al parapetto, in preda a una stanchezza mortale. Lingue di fiamma come fiamme coprivano il fiordo neroblu e la città. I miei amici continuarono a camminare e io fui lasciato tremante di paura. E sentii un immenso urlo infinito attraversare la natura».

I cieli rosso sangue del dipinto ci ricollegano immediatamente ai traumi del pittore, tra cui quello del sangue è sicuramente il più significativo. Diversi fenomeni emorragici costellano la sua esistenza. Nell’infanzia il suo apparato respiratorio è sede di processi asmatici costringendolo a casa, dove riceve le visite di pochi amici. Subito dopo, agli esordi dell’adolescenza, compaiono emottisi e la sopravvivenza cade sotto la minaccia della tubercolosi: «Ricordo una vigilia di Natale all’età di 13 anni. Giacevo a letto – stillando sangue dalla bocca – la febbre infuriava nel mio corpo – dentro di me ribolliva il terrore. Credevo fosse giunto il momento in cui sarei stato giudicato – e che avrei subito una condanna per l’eternità».

L’artista dipinge esperienze private e personali, facendo della propria vita la sostanza in cui attingere e da tramutare in arte. E’ quanto accade nell’eseguire La Bambina Malata, il dipinto- rievocazione della perdita della sorellina, la piccola Sophie, un anno più grande del pittore e uccisa dalla tubercolosi a soli quindici anni.

Munch lo dipinge in occasione di un viaggio a Parigi nel 1855 e lo espone l’anno seguente ma l’opera costituisce da subito l’innesco di una serie di scandali. All’annuale Salone d’Autunno di Oslo, l’aspetto “non finito” e la “trasfigurazione dell’immagine”, sollevano critiche e derisioni.
Il pittore considera quel quadro uno dei suoi ”dipinti dell’anima” e sulla scorta del filosofo Kierkegaard identifica nella propria vicenda esistenziale, l’unico strumento tramite cui creare arte. Spiega infatti che, intrapreso il lavoro, gli accadde a più riprese di piangere e nell’impossibilità di contenersi, decise di trasfondere in immagine anche il pianto, raffigurando l’effetto prodotto dalle lacrime sul proprio sguardo. «Mi rendevo conto che le mie stesse ciglia contribuivano all’impressione che avevo dell’immagine. Nel dipinto vi ho fatto riferimento sotto forma di ombre».
Lui stesso precisa: «Ho dipinto impressioni dell’infanzia, confusi ricordi di quei tempi».

Munch, quasi fosse un terapeuta esperto, addestrato alla Terapia Metacognitiva Interpersonale, ci fornisce la chiave per comprendere i suoi vissuti traumatici rappresentando episodi narrativi localizzati nel tempo e nello spazio, e riportando i dettagli dell’esperienza soggettiva vissuta. Così accade che nei suoi dipinti le tracce emotive possiedano la stessa natura dei sogni, rivestendo sensazioni a vortice, gorghi sinestetici che danno una parvenza di realtà ma sono riproduzioni di memorie soggettive: «Dipingendo i colori, le linee e le forme che riattingevo da un’epoca mossa dall’emozione, ero in grado come un fonografo di riaccendere quel preciso stato d’animo emotivo».
«Per La bambina malata… sono stato ovviamente condizionato dalle mie esperienze infantili e familiari […] Io credo che nessuno dei pittori contemporanei abbia sperimentato l’agonia del letto di morte cosi da vicino come è accaduto a me da piccolo. […] La mia arte è un’autoconfessione. Per suo tramite io tento di far luce sul mio rapporto con il mondo. Si potrebbe anche considerarlo egoismo. Comunque sia, ho sempre pensato che la mia arte potrebbe aiutare gli altri a far luce nella loro ricerca di verità».

Cambiano i secoli e cambiano i volti delle malattie infettive ma non cambia l’impatto che queste hanno sulla vita dei singoli individui e su intere comunità.

La malattia nelle opere di Pier Vittorio Tondelli

Pier Vittorio Tondelli nasce nel 1955 a Correggio.
Proviene da una famiglia della provincia italiana.
Il suo primo libro Altri libertini, pubblicato da Feltrinelli nel gennaio del 1980 è processato da un magistrato per “atti di oscenità”.
Esso viene definito “opera luridamente blasfema” e lo scandalo è enorme, facendo del libro un vero e proprio caso letterario. Tondelli diventa non soltanto un nome della letteratura, ma anche un simbolo della condizione omosessuale, che racconta senza falsi pudori, con un realismo e un’intensità che commuovono.

Il giovane Pier Vittorio incomincia a leggere alla biblioteca di Correggio, frequenta il liceo classico e milita in associazioni cattoliche. Poi si iscrive al Dams di Bologna, negli anni in cui vi insegnava Umberto Eco.
Con l’uscita di “altri libertini”, Tondelli diventa il riferimento di tutta una generazione, colui che ha avuto il coraggio di dar voce alla “fauna” di alternativi da sempre ai margini della cultura e del pensiero: femministe, donne sole, travestiti, tossici. Figure alle quali conferisce forza e dignità, che fin lì non avevano mai avuto accesso al mondo della letteratura.

E’ senza dubbio il primo autore contemporaneo a calare nella scrittura autobiografia, reportage e sociologia, fornendo una fotografia lucida della realtà e nuda da ogni pregiudizio. La costruzione letteraria del giovane Tondelli è fortemente definita, ostenta una gergalità bukowskiana, una fisicità rock tendente alla spettacolarizzazione, e contiene riferimenti a Kerouac.
Dopo qualche anno, ci sembra di assistere ad un paradosso. Lo scrittore, che aveva dimostrato una piena sicurezza in se stesso e nel proprio uso della narrativa, sembra smarrirsi dichiarando il suo desiderio di scrivere solo per dieci, venti persone al massimo, comunicando con chi è davvero in grado di comprenderlo.

Leggendo il suo romanzo successivo, Camere separate, si scopre il suo vero carattere di persona timida, portata all’introspezione, con una forte vena mistico-religiosa, e un gran bisogno di riservatezza e quiete.
Con il senno di poi, capiremo che Camere separate è un romanzo intimo, d’addio, un faccia a faccia con la morte incombente, un puzzle di tessere emotive in cui è Tondelli stesso a parlare.

Il libro contiene pagine di straordinaria bellezza e gioielli di introspezione sulla convivenza con l’Aids e con l’idea della morte, senza che tuttavia esse vengano mai nominate espressamente.
In un passaggio rivelatore di Camere separate, Thomas dice a Leo (l’alter ego di Tondelli): «Tu mi vuoi tenere lontano per potermi scrivere. Se io vivessi con te, non scriveresti le tue lettere. E non mi potresti pensare come un personaggio della tua messinscena».

Le modalità stesse della sua fine, l’insistenza della famiglia nel negare che lo scrittore sia morto a causa della malattia, confermano una volta di più la difficoltà che l’autore ebbe nel render pubblico un “privato” percepito come “scandaloso”.
Ma non si tratta di un caso unico. Intorno all’Aids il tabù fu pressoché universale, e così come già detto dallo scrittore Dall’Orto, ufficialmente Michel Foucault muore di “setticemia del sistema nervoso”, Baldwin di “tumore alla pelle”, Giuseppe Caputo di tumore “alle ossa”. Nel caso di Tondelli, secondo quanto inizialmente dichiarato, lo scrittore sarebbe morto di “polmonite bilaterale”.
La sua scomparsa sembra ancora ricordarci che l’Aids non è una malattia come tante, ma qualcosa di simile a una stimmate, che uccide non soltanto fisicamente, ma con l’isolamento e il silenzio.

 

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