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ACT per il dolore cronico – Report dal workshop esperienziale di Verona, 10 novembre 2017

Il 10 novembre 2017 a Verona si è tenuto un workshop esperienziale sull'approccio dell' ACT per il trattamento del dolore cronico.

Di Eleonora Geccherle

Pubblicato il 06 Dic. 2017

Aggiornato il 01 Lug. 2019 14:08

Si è svolto a Verona nella giornata di venerdì 10 novembre il workshop esperienziale sull’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) per il trattamento del dolore cronico e l’ottavo incontro nazionale dell’ormai collaudato GIS “ACT-for Health”.

 

L’analisi funzionale e l’assessment del paziente con dolore cronico

L’iniziativa è stata promossa dal Servizio di Psicologia clinica dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, coordinato dal dottor Giuseppe Deledda, referente del SIG “ACT for Health”. Ospite del workshop il professor Giambattista Presti, professore associato di Psicologia generale dell’Università Kore di Enna e presidente eletto dell’associazione internazionale ACBS (Association for Contextual Behavioral Science).

Le aree principali trattate nel corso del workshop sono state quella della definizione della componente dolore, dell’importanza dell’analisi funzionale nell’assessment dei pazienti affetti da dolore cronico e come questa possa essere una componente utile ed essenziale nel trattamento con il paziente. L’obiettivo finale di tale approccio è proprio quello di aumentare la flessibilità psicologica dei pazienti, vale a dire la loro capacità di essere pienamente consapevoli e aperti alle proprie esperienze, e contemporaneamente, agire in linea coi propri valori, verso le cose che sono importanti per loro.

Proprio su questa tematica si è incentrato l’intervento del professor Nanni, presidente eletto dell’ACBS e co-autore del volume “Oltre il dolore cronico”, considerato un testo fondamentale nella pratica di tale approccio. Il convegno ha accolto numerosi professionisti, tra medici e psicologi, con l’intento di estendere il prezioso contributo dato dall’approccio Acceptance and Commitment Therapy (ACT) a tutti coloro che si occupano di dolore, un campo che tuttora lascia aperte numerose riflessioni umane, cliniche e di ricerca.

Il dolore è un’esperienza soggettiva, universale, immediata, e molto spesso invalidante. Quello del dolore è un tema molto attuale essendo un problema la cui entità è destinata ad aumentare, in relazione sia alla maggior incidenza di numerose patologie a sintomatologia dolorosa, sia all’invecchiamento della popolazione. Da uno studio europeo, Pain in Europe 2005, emerge che il 19% è la percentuale di persone che soffrono di dolore cronico in Europa, l’Italia, con una percentuale del 26%, è al terzo posto. Dalla letteratura scientifica si evince che in Italia una persona ogni quattro soffre di dolore cronico (Breivik et al. 2006, Melotti et al. 2009 e Apolone et al.2009).

Dalla definizione nell’Associazione Internazionale per lo studio del Dolore (IASP): “(il dolore) è un’esperienza sensitiva ed emotiva spiacevole, è quello che esprime il paziente ed esiste ogni volta che il paziente lo esprime”. Tale definizione pone l’accento su due caratteristiche fondamentali dell’esperienza dolorifica: la percezione soggettiva del dolore e la sua duplice componente, sensoriale e affettiva. Infatti il dolore, definito sempre dall’ Associazione Internazionale per lo studio del Dolore, in quanto “esperienza spiacevole”, implica sempre un’esperienza emotiva, generalmente negativa.

Un’ulteriore componente del dolore fa riferimento alla sfera cognitiva, con meccanismi come l’attenzione, l’aspettativa, il significato attribuito all’esperienza dolorifica. Proprio per tali motivi la comunità scientifica ha raggiunto un consenso nell’interpretare il dolore come un’esperienza multidimensionale in cui una componente prettamente sensoriale comunica in modo bidirezionale con una componente emotivo-cognitiva.

Il dolore cronico secondo il modello biopsicosociale

Da qui si evince la necessità di inquadrare l’esperienza dolorifica all’interno del modello biopsicosociale, teorizzato da Engel negli anni ’80 sulla base della concezione della salute descritta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Tale modello considera per ogni tipologia di disturbo, le interazioni tra i fattori biologici, psicologici e sociali.
 Il dolore può esistere in duplice natura: acuto o cronico. Il dolore acuto è normalmente caratterizzato da una durata breve e limitata nel tempo, generalmente tende a regredire con la guarigione/la cessione dello stimolo nocivo, purché non incorra nella cronicizzazione. Esempi di dolore acuto possono essere il dolore da parto o il dolore post-chirurgico. Un dolore acuto diviene cronico se per lungo tempo rimane invariato. Un’ulteriore distinzione può essere fatta tra dolore cronico benigno e maligno. Si parla di dolore benigno quando il dolore cronico è provocato da diversi tipi di lesioni o patologie, come ad esempio nella fibromialgia. Si parla invece di dolore maligno solitamente in rapporto al dolore oncologico.

La definizione di dolore secondo il modello ACT

Durante la prima parte dell’incontro il professor Nanni ha illustrato la definizione di dolore, ridefinendola in chiave ACT. Secondo tale approccio, esistono due componenti del dolore, il dolore pulito e quello sporco. Per dolore pulito si intende quello che è naturalmente connesso alla vita di tutte le persone. A volte può essere forte, a volte tenue, ma di questa componente di dolore non ci si può liberare facilmente in quanto non sarà mai sotto controllo (ad esempio il dolore che deriva da un lutto, o da una malattia fisica). Si fa riferimento al dolore sporco quando parliamo di sofferenza emotiva, che deriva dai nostri sforzi per controllare i nostri sentimenti, nel tentativo di non provare dolore. Come conseguenza della fuga dagli eventi interni spiacevoli, viene a crearsi un nuovo set di sentimenti dolorosi. Questo “dolore sul dolore” è chiamato “dolore sporco”. Questa componente di dolore è quella su cui il farmaco non può agire, e su cui si innesca spesso una disabilità, in un circuito vizioso che implica dolore, paura del dolore, evitamento delle attività e infine appunto disabilità e naturale sofferenza che ne consegue.

Tale modello si propone di aiutare i pazienti ad essere maggiormente in contatto con il momento presente e a sviluppare una consapevolezza dei propri pensieri e delle proprie emozioni. Proprio coltivando la nostra consapevolezza di fronte a tali temi riusciamo a ridurre tutti quei comportamenti di evitamento che frequentemente insorgono quando entriamo in contatto con l’esperienza di dolore. Mettendo in atto azioni volte a ridurre o cambiare gli eventi interni che non vorremmo, causiamo un’amplificazione della sofferenza, dove pensieri e sensazioni sono incrementati.

In questo modo il paziente lascia la sua vita “in attesa”, la pone al secondo posto rispetto all’esigenza di controllo delle emozioni e dei pensieri (ex. “Quando starò meglio, allora accompagnerò mia figlia a teatro..”). Il ruolo del terapeuta ACT e quello di aiutare il paziente a considerare il controllo e l’evitamento esperenziale per quello che sono e a porre la persona in contatto esperienziale con i costi che derivano dall’uso di tali strategie.

L’accettazione è la risposta speculare e alternativa all’evitamento esperenziale. L’ACT impiega i processi di mindfulness e accettazione, insieme a quelli di modificazione comportamentale e azione impegnata, per aumentare la flessibilità psicologica, fornendo ai pazienti affetti da dolore cronico una serie di risorse importanti e necessarie per gestire la loro esperienza dolorifica.

L’ACT prende il suo nome da uno dei suoi messaggi centrali: accettare quello che è al di fuori del nostro controllo personale, come può appunto essere il dolore, mentre ci impegniamo nel fare qualunque cosa possa permetterci di migliorare la qualità della nostra vita. Lo scopo dell’ACT in queste patologie, sottolinea il professor Presti, è di aiutare le persone a costruire una vita ricca e significativa, mentre gestiscono in modo efficace il dolore e lo stress che la vita inevitabilmente porta.

L’ACT pone le sue radici epistemologiche nel comportamentismo, delineandosi come un approccio funzionale e contestuale basato sulla Relational Frame Theory. Ancora una volta, Presti sottolinea l’importanza di un’adeguata analisi del comportamento e rivolge a chiunque voglia approcciarsi a tale tipo di intervento un ottimo consiglio: “Prima di iniziare un trattamento ACT, una solida analisi funzionale risulta necessaria”. Un’ulteriore esaltazione quindi della behavior analysis, su cui si basa appunto l’approccio ACT, inserito per questo ed altri motivi tra le terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione.

Inoltre, il terapeuta ACT fa ampio uso di esercizi esperienziali costruiti per aiutare il paziente a entrare in contatto con: pensieri, sentimenti e sensazioni fisiche. Tali esercizi permettono di fare esperienza di particolari sensazioni in un contesto diverso e più sicuro. Elicitare esperienze difficoltose permette che queste siano osservate con l’esperienza.

Concludendo l’esperienza di dolore cronico comporta un elevato distress e un considerevole impegno da parte dell’individuo per raggiungere un valido adjustment alla nuova condizione. Gli studi condotti in ambito ACT, così come l’esperienza clinica, rafforzano la necessità di rendere sempre più fruibili per questi pazienti percorsi di supporto che mirino a rafforzare la loro flessibilità psicologica.

Quando la sofferenza bussa alla tua porta e tu la informi che non c’è posto per lei,
questa ti risponde di non preoccuparti, perché ha portato uno sgabello.
Chinua Achebe, da Arrow of God (1967, p. 84)

Per chiunque volesse approfondire tali tematiche, l’invito è quello di partecipare al prossimo incontro internazionale che si terrà a Roma a fine marzo del GIS “Act for Health”, gruppo questo che nasce con l’obiettivo di riunire tutti i clinici interessati all’applicazione dei processi ACT nell’ambito della psicologia della salute, del benessere e non solo.

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