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Batterer intervention programs: davvero efficaci nella lotta alla violenza domestica?

Dalla letteratura emergono informazioni controverse rispetto all'efficacia di interventi rivolti a uomini autori di violenza domestica.

Di Giulia Perasso

Pubblicato il 02 Nov. 2017

Da uno screening della letteratura recente (2010-2017), emergono evidenze empiriche controverse rispetto all’efficacia di interventi di natura psicoterapeutica, o psicoeducativa, o di gestione del rischio su uomini maltrattanti. Sebbene siano state riscontrate evidenze rispetto alla riduzione della recidiva, stimata in termini di percentuali di riarresto, grazie all’intervento psicoterapeutico su uomini autori di violenza domestica, non ci sono risultati significativi a sostegno dei programmi sui maltrattanti nel ridurre la successiva vittimizzazione delle partner.

 

La violenza domestica e i quesiti sui programmi di intervento

La violenza all’interno della coppia (intimate partner violence, IPV) mina il benessere della vittima a livello mentale, fisico e sociale (Gracia, 2014). Secondo stime mondiali ad opera della World Health Organization, il 30% della popolazione femminile, su scala mondiale, è stata vittima di violenza domestica. Inoltre, 3/4 delle donne interessate ritengono che la violenza subita sia un fatto comune nel loro paese d’origine. Il dato corrobora l’ipotesi che le variabili contestuali portino le comunità locali a giustificare la violenza di genere, identificando la donna come colpevole ed istigatrice degli abusi e trattenendola dal cercare aiuto professionale o sporgere denuncia (Gracia, 2014). Secondo lo studio di Richards (2014), il 50% dei partner abusanti viene arrestato per violenza domestica entro 10 anni dalla prima incarcerazione.

La disinformazione, il disimpegno sociale e background culturali sfavorevoli, contribuiscono al radicamento sociale dell’IPV. Tuttavia, alcuni psicologi e sociologi considerano l’intervento incentrato sui maltrattanti stessi – Batterer Intervention Programs (BIPs)-, a confronto in una situazione gruppale, la chiave di volta al fine di contrastare la violenza domestica.

L’efficacia degli interventi rivolti ai maltrattanti

In tale ambito di ricerca e di intervento, tuttavia, è fondamentale porsi la seguente domanda: gli uomini abusanti all’interno della relazione di coppia possono davvero cambiare? E in tal caso, come? Quali sono i programmi di intervento, sui partner maltrattanti, più efficaci per contrastare la violenza domestica?

Il quesito è complesso e richiede di considerare il fenomeno multidimensionalmente, esaminando le principali evidenze statistiche presenti in letteratura ed esponendo le criticità ad oggi individuate all’interno della comunità scientifiche di riferimento.

Da uno screening della letteratura recente (2010-2017), emergono evidenze empiriche controverse rispetto all’efficacia di interventi di natura psicoterapeutica, o psicoeducativa, o di gestione del rischio su uomini maltrattanti. Sebbene siano state riscontrate evidenze rispetto alla riduzione della recidiva, stimata in termini di percentuali di riarresto, grazie all’intervento psicoterapeutico su uomini violenti (Hasisi, Shoham, Weisburd, Haviv, & Zelig, 2016), non ci sono risultati significativi a sostegno dei programmi sui maltrattanti nel ridurre la successiva vittimizzazione delle partner (Ellsberg, Arango, Morton, Gennari, Kiplesund, Contreras, & Watts, 2014). Tali interventi, secondo Ellsberg e collaboratori (2014), risultano infatti meno efficaci delle pratiche incentrate sulle donne vittime di violenza domestica.

Un altro problema rispetto alla stima dell’efficacia di programmi incentrati sui maltrattanti, è di tipo metodologico: nell’ambito della violenza domestica non esistono ancora linee guida internazionali e metodologie standardizzate per il monitoraggio e la valutazione dell’efficacia di interventi incentrati sugli uomini abusanti come destinatari diretti (Wojnicka, Scambor & Kraus, 2016; Lilley-Walker, Hester & Turner, 2016).

Inoltre, quantificare la riuscita di interventi psicoeducativi e psicoterapeutici, in termini unicamente di decrescita delle percentuali dei nuovi arresti, potrebbe essere fuorviante dal momento che reincarcerazione e recidiva non sono concettualmente e operazionalmente sovrapponibili. L’utilizzo di batterie di strumenti dedicati, è perciò essenziale per un assessment dei cambiamenti a livello comportamentale, emotivo e cognitivo al fine di comprendere l’effettivo cambiamento del maltrattante.

I test più comunemente usati, inclusi nel Toolkit dell’Unione Europea per la valutazione del cambiamento positivo negli interventi su maltrattanti sono self-report e interviste semistrutturate, come la Spousal Assoult Risk Assassment (Kropp et al., 2000), la Baratt Impulsiveness Scale ( Patton et al., 1995), la Toronto Alexityhmia Scale (Bagby et al., 1986), la Symptom Checklist-90-R (Derogatis, 1994). Questi strumenti possono essere sensibili a variabili culturali e di somministrazione dovute all’adattamento degli strumenti dalla lingua originale, o dare adito a bias di desiderabilità sociale e/o di abituazione dei soggetti agli item (qualora il programma preveda che la somministrazione sia ripetuta pre e post intervento). Alcuni test utilizzati internazionalmente per la valutazione del rischio di recidiva e comportamenti violenti, inoltre, come l’HKT-30, elaborato presso Università di Tilburg, non sono ancora stati validati su panorama italiano.

Un ulteriore fattore da considerare, per rispondere al quesito sull’efficacia di interventi incentrati sui maltrattanti, è legato al framework teorico da cui si osserva il fenomeno della violenza domestica: secondo Westmarland e Kelly (2016), l’operazionalizzazione eterogenea del costrutto influenza la concettualizzazione dell’efficacia stessa dell’intervento attuato. La prospettiva di orientamento femminista o modello Duluth (Pence & Paymar, 1993) spiega, ad esempio, la violenza domestica come derivato di modelli sociali patriarcali, suggerendo focus di intervento incentrati su variabili culturali, onde contrastare stereotipi di genere funzionali al radicamento della violenza domestica. Le prospettive neuropsicologica e delle tossicodipendenze, mirano invece a comprendere le cause soggettive alla base del fenomeno. Secondo lo studio di Carbajosa e collaboratori (2017), le differenze individuali predicono infatti la riuscita o meno del cambiamento del singolo maltrattante, che può essere classificato come responsivo o resistente all’intervento.

Per quanto riguarda le strategie di gestione del rischio di recidiva, Canada e Regno Unito hanno adattato la pratica dei Circles of Support And Accountability (COSA) non ancora praticata sul panorama italiano. Questa tipologia di intervento, basata sugli assunti della Social Club Theory (Sandri et al., 2016), implica l’inserimento dell’individuo in una rete sociale di volontari appositamente formati per affiancarlo in varie attività, favorendo il monitoraggio continuativo dei suoi comportamenti.

Gli uomini maltrattanti possono cambiare?

Conclusivamente, non esistono ad oggi dati sufficienti per asserire se gli individui maltrattanti possano cambiare e come si possa operazionalizzare e misurare tale cambiamento.

Da uno studio di Morrison (2017), consistente in una serie di interviste semi-strutturate a professionisti che lavorano nei BPS, Batterer Intervention Programs, sono emerse alcune aree tematiche utili a modellizzare interventi qualitativamente adeguati. In primo luogo, il gruppo di maltrattanti costituisce un catalizzatore di cambiamento in termini di confronto e condivisione. A livello di ampiezza, dallo studio di Morrison emerge che si riscontrano più facilmente gli esiti sperati, con gruppi piccoli, che non eccedano i quindici destinatari. La co-conduzione del gruppo, da parte di due facilitatori di sesso opposto, è descritta come un ulteriore elemento che favorisce l’efficacia dell’intervento, al fine di trasmettere ai maltrattanti la rappresentazione di interazioni uomo-donna non connotate da aggressività e violenza. I facilitatori, non possono improvvisare nella conduzione del gruppo di maltrattanti: sempre secondo i dati qualitativi di Morrison (2017), il personale deve essere qualificato tramite opportuni training di formazione dedicati al trattamento di individui maltrattanti dei quali poter fornire qualifiche in merito.

Infine, secondo Babcock e collaboratori (2016), un ulteriore problema inerente l’implementazione di interventi a contrasto della violenza domestica, in senso lato, è che una prospettiva eterocentrata, a livello di ricerca e intervento, rende difficile lo studio di interventi a favore del cambiamento con destinatari maltrattanti LGBT. L’eventualità di applicare tali interventi su maltrattanti omosessuali comporterebbe infatti una rinegoziazione del background teorico e culturale di partenza, di ridisegnare cioè il sedimentato concetto di violenza di coppia al di là di ruoli e stereotipi di genere.

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