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Il terapeuta e la domanda raggelante

Una domanda raggelante piomba sulle spalle del giovane terapeuta, un brivido freddo percorre la spina dorsale in su e giù e il paziente continua a fissarlo

Di Giancarlo Dimaggio

Pubblicato il 23 Nov. 2017

La domanda che fa tremare i terapeuti. La domanda che fa tremare i giovani terapeuti. La domanda che terrorizza i terapeuti. I pazienti te la pongono proprio in quel momento lì.

 

Quando hai spremuto tutte le tue residue capacità intellettive per inquadrare il problema. Sei riuscito a formulare il caso e a condividere la lettura col paziente. E il paziente è anche d’accordo. Non ti sembra vero. Perché in quel momento sei anche allo stremo delle tue capacità emotive. Il paziente ti ha testato, sfidato, svalutato, messo alla prova. E tu hai fatto tutto quello che potevi per non reagire. Masticando amaro, sentendo l’autostima che crolla a picco, sprofonda in una voragine, la rabbia che monta, la frustrazione, il senso di fallimento, incapacità, colpa. Li hai regolati, in qualche modo miracoloso non ti hanno travolto. Ma sei sfinito.

Il paziente smontava tutto quello che dicevi ma ce l’hai fatta, in qualche modo. Sei riuscito a tenere a bada ogni sorta di fantasma personale: padri critici e sprezzanti, assenti. Madri colpevolizzanti, angosciate, territori geografici ostili alla psicoterapia. Il gruppo dei pari che non ti capiva. Il paziente ti ha evocato tutto questo, ma tu ce l’hai fatta. Hai detto delle cose sensate e il paziente, miracolo, ha detto che è d’accordo.

La domanda raggelante il paziente te la fa in quel momento lì. Quando sei cognitivamente esaurito ed emotivamente sfiancato. La domanda suona così:

“Sì, vabbe’, ho capito. E adesso?”. La domanda raggelante è: “E adesso?”.

È il momento in cui scappereste dalla stanza alla velocità di un cartone animato, cambiereste lavoro, vi ritirereste tremanti in una selva incantata protetti da un muro di druidi incazzati: “La dottoressa non c’è. Che vuoi? Chi sei?”.

Ma non potete. La domanda raggelante piomba sulle vostre spalle, il brivido di freddo percorre la spina dorsale in su e giù. Il paziente continua a fissarvi. Come avere gli occhi di tutto lo stadio addosso prima del calcio di rigore.

La domanda raggelante ha una risposta.

Sentite già un po’ di sollievo, vero?

La risposta è che, non siete voi a dovere rispondere. Ora, detto più tecnicamente, quando il paziente vi pone la domanda raggelante, vuol dire che in qualche modo è arrivato al livello di avere un minimo di distanza critica dalle proprie idee disfunzionali sulle relazioni o sui sintomi. Sa che teme di morire, ma questo non accadrà necessariamente domani, sa che è convinto che il partner lo trascuri, che i capi lo umilino con intenzione, ma non è necessariamente vero, sa di credersi una schifezza ma alla fine è un’idea che ha appreso nel corso dello sviluppo. Ma di tutta questa splendida e profonda consapevolezza cognitiva non ci fa niente. Perché: “Dottoressa, quando sono a casa non so come uscire da queste spirali. Quando mio padre mi tratta così poi mi sento in colpa e mi dispiace per lui. Quando la mia amante non mi risponde al telefono vado in panico e la tempesto di messaggi. Lo so che è sbagliato, ma non riesco a controllarmi”.

Se il paziente è arrivato fin lì, e vi fa la domanda raggelante, è tempo di riformulare il contratto terapeutico. La vera risposta alla domanda raggelante è che da quel momento in poi il lavoro in seduta è meno importante del lavoro a casa. Si tratta di condividere con il paziente il tipo di lavoro che sarà necessario per interrompere comportamenti disfunzionali, circuiti rimuginatori, per uscire da stati mentali dolorosi che ora si sa cosa sono: stati mentali dolorosi, non più lo specchio della realtà.

A quel punto direte: “Guardi, la sua domanda è importante. Ora è il momento di pensare insieme a cosa fare per uscire dalla sofferenza quando ci entra in quel momento lì”. E così si concordano esercizi comportamentali: “Può provare a non andare a cena da suo padre quando lui glielo chiede dopo averle detto che è una cretina? Può provare a resistere all’impulso di mandare un messaggio alla sua amante e dirmi come si sente?”. Gli esercizi non devono essere eseguiti. È sufficiente che il paziente ci provi e riporti l’esperienza, poi in seduta si ragionerà insieme su come è stato provarci, e si concorderanno esercizi ulteriori.

In seduta si potranno tentare esercizi di guided imagery e rescripting per provare a tornare su scene dolorose e cercare nuove risposte che evochino stati del sé positivi. In seduta si eseguiranno lavori somato-sensoriali per regolare emozioni dolorose, o si impegnerà il paziente nel training attentivo, o in esercizi di mindfulness, per uscire da circuiti rimuginatori. E poi si negozierà su cosa è necessario fare da qui alla prossima seduta per sostenere i risultati e fare ulteriori progressi. Da questo momento in poi la responsabilità del progresso non è più del terapeuta. È nel contratto terapeutico. Si decide insieme di andare verso la salute. Se il paziente non se la sente di fare un passo va rispettato, e il terapeuta può tranquillamente accettare la propria imperfezione e il limite del paziente. Basta solo mantenere l’atteggiamento interno di fiducia e speranza anche quando il paziente sceglie di non fare il prossimo passo, perché lo sta scegliendo. Voi restate vicini, con fiducia, con pazienza, ma la domanda raggelante ha smesso di preoccuparvi.

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Giancarlo Dimaggio
Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta - Socio Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva-Interpersonale

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