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Trauma e gravidanza: gli effetti neuro-bio-psicologici delle esperienze traumatiche nelle donne in dolce attesa – Report dal Convegno Attaccamento e Trauma

Ammaniti al convegno Attaccamento e Trauma ha spiegato come può essere vissuta la gravidanza da donne che hanno vissuto esperienze traumatiche.

Di Elena Mannelli

Pubblicato il 04 Ott. 2017

La mattina del primo giorno, dopo l’intervento di Louis Cozolino, prosegue con l’intervento di Massimo Ammaniti, psichiatra, psicanalista, professore onorario in psicopatologia dello sviluppo alla Sapienza tra le altre cariche. Gli interessi clinici del Prof. Ammaniti ruotano intorno alle interazioni precoci, alle ricerche nel campo della gravidanza e dei traumi infantili.

 

Cosa accade nella mente della donna durante la gravidanza?

La relazione esposta unisce questi suoi interessi e vengono presentati infatti “gli esiti prossimali e distali dello stress e dei traumi in gravidanza”, mettendo un faro sul periodo delle madri in attesa, sulle conseguenze negative dello stress in gravidanza sullo sviluppo del feto e sulla fisiologia del parto.

Anche questa presentazione parte dal presupposto, ormai difficilmente discutibile, che il legame fra genitore e figlio garantisca la sopravvivenza e che il passo iniziale per l’apprendimento e l’acquisizione della comunicazione parta dal contatto oculare (non appena il bambino nasce). Tuttavia l’inizio dello sviluppo del contesto intersoggettivo si sviluppa ancor prima, fin dai mesi della gravidanza; è già in questo periodo che la mamma comincia ad avere in testa il proprio bambino, “a mentalizzarlo” potremmo dire.

I 9 mesi che precedono la nascita sono un momento molto particolare, denso di trasformazioni da tutti i punti di vista, che coinvolgono entrambi i genitori. Sono mesi in cui riaffiorano le memorie delle proprie esperienze precoci infantili, mesi in cui la coppia comincia una propria trasformazione e in cui avvengono cambiamenti importanti anche a livello ormonale nella madre.

Nella mente della donna emergono dei temi (se non delle vere e proprie domande) circa la sua capacità di poter essere in grado di amare il figlio, di poter essere in grado di garantirgli la sopravvivenza e di riuscire a far meglio dei propri genitori.

Domande, cioè, sul fatto se saranno o meno mamme sufficientemente buone e, sempre in termini winnicottiani, se svilupperanno “la preoccupazione materna primaria”, caratterizzata da una iperattivazione e aumentata sensibilità.

Lo stress materno

Numerosi studi riportano come al termine della gravidanza si possano registrare (più nelle madri ma anche nei padri) alcuni tipi di timori, rispetto alla salute del neonato nella maggioranza dei casi, ma anche quelli (più ossessivi) di poterlo colpire, gettare a terra o far piangere.

Evidentemente tali pensieri possono costituire, sulla base della frequenza e della durata, una fonte di distress.
La definizione di stress materno è tutt’ora un pò confusa e abbraccia fattori di tipo personale, familiare, sociale ed economico.
Tuttavia è piuttosto riconosciuto come questo sia associato e associabile a problemi emotivo comportamentali nei primi due anni di vita del bambino. I dati suggeriscono alcune ipotesi sulla trasmissione dello stress in questo arco di vita. Probabilmente un’alta concentrazione di ormoni derivanti dallo stress materno impatta sullo sviluppo cerebrale del feto.

Alcuni ricercatori hanno riportato che lo stress prenatale ha un impatto nella neurobiologia del neonato come un’attivazione più forte del cervello frontale destro.
Questo ponte tra gravidanza e neonato sottolinea l’importanza dell’interazione tra caratteristiche innate e l’esperienza relazionale con il caregiver.
L’alterazione del sistema di caregiving determina un deficit dell’asse HPA (asse ipotalamo-pituitario-surrenale) inibendo le risposte allo stress.
Studi condotti sullo stress materno in gravidanza hanno rilevato un aumento del cortisolo e dell’ormone di rilascio della corticotropina sia nella madre che nel feto.

Alcuni studi evidenziano come lo stress prenatale sia in grado di spiegare il 10/15% delle difficoltà infantili.
Questi studi suggeriscono interessanti ipotesi in merito ai meccanismi di trasmissione dello stress, presumibilmente associati a elevate concentrazioni di ormoni materni coinvolti nella risposta allo stress che possono impattare sullo sviluppo cerebrale.

Presentazione di un caso clinico

L’intervento di Ammaniti prosegue poi con un interessantissimo caso clinico, ben spiegato ed articolato per mettere insieme scienza e clinica.
È un intervento di sostegno in gravidanza di una donna al settimo mese di gravidanza, che viene chiamata Carla.

Carla ha una relazione con Giovanni, il loro rapporto è piuttosto conflittuale e la donna teme che il compagno non si possa rilevare fonte di supporto nella crescita del figlio. Giovanni è stato allevato dalla nonna e proviene da una famiglia difficile, mentre Carla ha subito abusi e molestie sessuali in infanzia e nell’adolescenza ha avuto esperienze sessuali promiscue.

A circa 20 anni riporta un aborto a seguito del quale sviluppa una depressione che viene trattata in psicoterapia.
Carla desiderava molto il figlio ma Giovanni non era pienamente d’accordo e, a causa di problemi di salute di lui, hanno optato per una procreazione assistita.

Il tono dell’umore di Carla è piuttosto deflesso e questo poteva costituire un rischio per il futuro legame con il bambino pertanto accetta di farsi seguire dal progetto di sostegno.

Carla è sesta di sei figli, racconta il rapporto con sua madre molto conflittuale e rancoroso sia in epoche infantili sia tutt’ora (per questo ha affrontato la gravidanza senza l’appoggio dei familiari). La descrive come “sempre stanca, poco presente mentalmente e nervosa”.
Esperisce un senso di solitudine e, sebbene si senta contenta della gravidanza, non ha mai avuto alcuna fantasia sul bambino né ha preparato qualcosa per il suo arrivo. Ha cominciato a sentirsi madre dai primi movimenti del feto ma non ha alcuna fantasia sul figlio “sono tremenda, non immagino nulla, mi arrabbio ma non riesco a vedere la faccia di questa creaturina”.

La gravidanza è andata avanti alla luce di molte ansie della madre sulla possibilità di non essere adeguata, o sulla possibilità che il padre non si prenda cura di lui. Carla attende il figlio come l’arrivo del “Messia” che possa illuminare la sua vita. Dal punto di vista dell’attaccamento, viene riconosciuta in Carla una relazione invischiata con sua madre.

Dopo la nascita del piccolo. Carla riferisce che è diverso da ciò che si aspettava, il bambino piange e vuole essere preso in braccio.
Il bambino nasce sottopeso e in epoca perinatale va incontro ad alcune infezioni; in questo la madre cerca di prendersi cura di lui ma esperisce un senso di inadeguatezza nel suo ruolo di caregiver e inizia pertanto a prendersi cura dell’igiene del piccolo e della casa in modo ossessivo.
Emergono qui timori di potere arrecare danno al bambino.
Durante i primi mesi, il bambino perde peso e la madre riferisce forti stati ansiosi. Non provando gioie nell’allattamento comincia l’alimentazione tramite biberon che consente al bambino di avere ritmi regolari.

A testimonianza della sua scarsa fiducia con il figlio Carla sente quasi il bisogno che il bambino pianga come indice del suo attaccamento, da una parte è totalmente dedita a lui, dall’altra mostra intolleranza.
La stessa ambivalenza che emerge anche con coloro che si occupano del suo sostegno e della sua presa in carico (capita spesso che sposti o cancelli gli appuntamenti).

Con il passare del tempo Carla riporta i primi cambiamenti positivi e diventa maggiormente capace di riconoscere i bisogni del piccolo rispetto ai suoi ritmi e questo permette al piccolo di acquisire peso.
Vorrebbe essere la madre perfetta che non ha avuto ma la vicinanza emotiva del figlio la spaventa.
La parte estremamente interessante sono le interazioni riportate in video che mostrano scene come quella dell’allattamento.
Si nota la madre che fornisce il biberon al piccolo ma è dedica molto più al controllo dei livelli corretti di latte piuttosto che al contatto oculare con lui.
Durante questi momenti delicati parla poco infatti con il figlio, d’altra parte lui sollecita gli scambi con la madre, ma tende ad evitare di guardarla nonostante a volte ne ricerchi lo sguardo.

Dal 4 al 6 mese il bambino comincia ad avere ritmi regolari e la madre appare più sollevata, questo le permette di concedere la possibilità di esplorare e sperimentare liberamente un senso agente di sé.

La coppia madre-figlio viene poi sottoposta al paradigma Still Face. Si tratta di una procedura di osservazione dell’interazione madre-bambino, creata con l’obiettivo di verificare cosa succede nel momento in cui la madre smette di interagire col figlio. Nella prima fase la madre interagisce liberamente col figlio mediante un’interazione faccia a faccia, giocando e parlando con lui. Nella seconda fase si richiede alla madre di mantenere il volto inespressivo e di non reagire a nessuna sollecitazione da parte del figlio. Nell’ultima fase la madre ritorna a giocare col bimbo, riprendendo la normale interazione col figlio.

Osservando il momento in cui il volto della madre è assente si notano i tentativi del figlio di ristabilire l’interazione con la madre. Inizialmente la guarda, le sorride, poi iniziano i vocalizzi e si protende verso di lei. Non riuscendo nei suoi tentativi il bambino cerca di regolare le sue emozioni succhiando il pollice, toccandosi le orecchie, inarcando la schiena. La prolungata assenza della madre suscita il pianto del bambino.
Tuttavia gli effetti dello stress si evidenziano al terzo step quando la madre riprende ad interagire con il bambino. Mostra infatti qualche problema nel consentire alla mamma di tranquillzzarlo. Impiega un po’ di tempo per riconnettersi al suo piccolo e l’aggancio dello sguardo risulta inizialmente faticoso.

Si comprende come il bambino abbia difficoltà a regolarsi emotivamente se non dopo numerosi tentativi e sorrisi della mamma per ristabilire la relazione.
Il punto della questione (e della relazione) è che avendo Carla affrontato la gravidanza in condizioni difficili queste hanno pesato sulla gestazione e sulla nascita del figlio. Dopo una fase difficile in cui non riesce ad entrare in sintonia con il figlio, grazie al supporto fornito, diventa mano a mano in grado di recuperare le capacità di scambio e di interazione con il piccolo.

Conclusioni: il rapporto tra attaccamento e trauma nelle donne in gravidanza

La presentazione di Ammanniti sicuramente non apporta novità in senso stretto, ma direi conferme.
La questione dell’attaccamento è ormai qualcosa che sta unendo i mondi degli psicanalisti, dei terapeuti cognitivi e di molti altri sia da un punto di vista di modelli teorici che di linguaggio.
Il suo ruolo nella formazione dei primi legami con il caregiver e l’impatto di questo nello sviluppo psicobiologico sono dati ormai piuttosto riconosciuti da tutti.
L’intervento è stato piacevolmente “clinico” permettendo di notare in modo naturale quelle che sono effettivamente le interazioni precoci in una diade con una mamma traumatizzata.

Risulta pertanto piuttosto importante essere particolarmente sensibili per questo tipo di popolazione “a rischio”.
Come è noto l’attaccamento è transgenerazionale, in più esperienze traumatiche nelle madri possono impattare sia a livello emotivo, come si comprende bene, ma anche a livello neurobiologico pertanto un’attenzione a questo tipo di donne potrebbe essere particolarmente rilevante. Sia da un punto di vista della ricerca che della clinica.
E questo vale non solo dal momento in cui il bambino nasce, ma (e qui sta probabilmente la questione che Massimo Ammaniti ha voluto sottolineare) dai mesi di gravidanza che costituiscono un momento delicato per lo sviluppo del futuro bambino.

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Elena Mannelli
Elena Mannelli

Psicologa Cognitivo-Comportamentale

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