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Reclusi. Il carcere raccontato alle donne e agli uomini liberi (2017) – Recensione del libro

Obiettivo e merito del volume sono di dare accesso a una realtà spesso esclusa dalla società, relegata ai margini e ad icone stereotipiche.

Di Cristiana Chiej

Pubblicato il 26 Ott. 2017

Il carcere è un luogo fuori dal mondo, un non-luogo che diventa contenitore del disagio, di ciò che la società tende a espellere, spesso senza interrogarsi troppo su quale davvero dovrebbe essere la sua funzione.

 

Ho lavorato in carcere per sette anni e quello che ho imparato a conoscere è un mondo molto diverso da quello che mi aspettavo di trovare quando, con una certa diffidenza, sono entrata la prima volta. Quello che ho scoperto è un mondo fatto innanzi tutto di persone: sembrerà banale ma stupisce camminare per quegli infiniti corridoi tetri e spogli e incontrare non carcerati e carcerieri ma persone come tutti noi alle prese con piccoli e grandi problemi del vivere di tutti i giorni.

Obiettivo e merito del volume Reclusi. Il carcere raccontato alle donne e agli uomini liberi sono di dare accesso a una realtà troppo spesso esclusa dalla consapevolezza della società e relegata ai margini, ad icone stereotipiche o a notizia sensazionalistica solo quando qualche evento drammatico costringe il mondo a confrontarvisi.

Attraverso le pagine scritte da Lacatena e Lamarca, rispettivamente sociologa del Dipartimento Dipendenze Patologiche dell’ASL di Taranto e Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria della casa circondariale “Carmelo Magli” di Taranto, emerge un quadro di vita quotidiana in cui tutta la schiera di vissuti umani è rappresentata. I detenuti e gli operatori che lavorano in carcere vivono ogni giorno confrontandosi con necessità che vanno dalle più banali legate alla sopravvivenza a quelle più squisitamente esistenziali, costretti a trovare una dimensione possibile in un contesto in cui la libertà di cui si viene privati non è solo quella di uscire dalle mura, ma riguarda quasi ogni decisione, ogni aspetto del vivere.

Gli autori cercano di far conoscere questo mondo “altro” con le sue complessità, le sue regole, il suo linguaggio e i suoi attori, andando oltre una visione semplicistica in cui il detenuto è concepito come pericoloso criminale o vittima del sistema.

Il volume è organizzato in due parti: la prima narra cos’è il carcere, quali sono le sue dinamiche, la sua organizzazione anche in relazione a particolari categorie di detenuti, come sono strutturati gli istituti, chi lavora nel carcere e quali sono le peculiarità e criticità del mondo penitenziario. In questa prima parte vengono anche approfonditi alcuni temi critici legati a particolari categorie di detenuti: soggetti con una dipendenza da sostanze, donne e stranieri.

La seconda parte dell’opera dà invece voce ai protagonisti attraverso gli strumenti che hanno a disposizione: domandine, rapporti, reclami, lettere…

Tutto ciò che concerne la vita intramuraria, come il lavoro, l’istruzione e le attività culturali, sportive e ricreative, la sfera religiosa, gli spazi fisici, la salute fisica e psicologica, la necessità di coniugare bisogni e diritti delle persone recluse con le esigenze di ordine e sicurezza, fino al delicato tema dei legami affettivi e della sessualità negati, viene raccontato dagli autori e poi attraverso documenti scritti da detenuti e operatori alla prese con la difficile gestione della quotidianità in un ambiente come quello penitenziario.

Il volume, nei suoi ultimi capitoli, affronta poi il tema di come il carcere trova rappresentazione nel mondo esterno: non solo vengono proposti elenchi di film, opere d’arte e canzoni che in qualche modo raccontano il carcere, ma viene anche raccontata la progressiva attenzione che il giornalismo gli ha dedicato, anche nella sua dimensione deontologica nel trattare informazioni riguardanti persone che necessitano di una tutela privilegiata, come quelle private della libertà.

In appendice gli autori inseriscono alcuni interessanti documenti che illustrano ulteriormente il mondo “dentro”: un glossario che aiuta ad orientarsi nella vita del penitenziario attraverso il suo specifico linguaggio, una guida elaborata da alcune detenute del carcere di Rebibbia con espedienti utili alla vita quotidiana per fronteggiare l’indisponibilità di alcuni prodotti all’interno del carcere, la “Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati” e il documento finale degli Stati Generali sull’esecuzione penale del 2016.

Un’opera del genere non può non partire da una riflessione sul ruolo del carcere nella società: il compito della giustizia non è la vendetta e il carcere non può e non deve essere concepito solo come punizione, ma soprattutto, come recita anche la nostra Costituzione, come occasione di rieducazione e reinserimento sociale, nel rispetto della dignità umana. E’ necessario prima di tutto occuparsi di persone e dei loro bisogni, anche in considerazione del fatto che un’ottica puramente coercitiva non è e storicamente non è mai stata efficace per affrontare e prevenire la devianza alle norme che reggono una società.

Cosa significa vivere in carcere e quali sono i suoi effetti sulle persone?

Nonostante sia il sistema più usato nel corso della storia per far fronte alla devianza, l’analisi sociologica ci illustra come da sempre il carcere non svolga un ruolo di deterrente dal commettere reati né abbia un reale potere rieducativo, ma al contrario tenda a produrre criminali ancora più incalliti, funzionando come vera e propria scuola di criminalità. L’effetto è, infatti, quello di “prigionizzare” i detenuti, spingendoli ad assumere tradizioni, modi e abitudini propri unicamente della cultura penitenziaria, nettamente separati e in contrasto con i modelli promossi nel mondo esterno.

Lacatena e Lamarca portano dati e considerazioni che sottolineano come solo attraverso un programma teso a ristabilire le capacità di interazione sociale, incentivando il lavoro e altre attività tese ad un processo di recupero e di empowerment della persona reclusa, favorendo le relazioni con l’esterno sarà possibile una piena rieducazione e risocializzazione. Altrimenti il carcere rimarrà un contenitore in cui gettare soprattutto piccoli delinquenti e persone provenienti da fasce più disagiate della popolazione con l’effetto di sedare le ansie e permettere, più che una reale sicurezza, la maggiore percezione della stessa da parte del mondo esterno.

Le politiche degli ultimi anni, con fasi altalenanti, hanno portato, infatti, ad una composizione particolare della popolazione detenuta, costituita da una significativa percentuale di stranieri e persone tossicodipendenti, contribuendo al problema del sovraffollamento.

Nonostante i dati reali non giustifichino eccessivi allarmismi e paure, di fatto esiste una discriminazione che deriva dalla povertà economica, sociale e culturale che spinge alla marginalità.

Gli stranieri sono puniti per reati meno gravi rispetto agli italiani, sono maggiormente sottoposti a custodia cautelare e hanno minore accesso a misure alternative. Allo stesso modo il ricorso alla pena detentiva è ancora troppo praticato per persone tossicodipendenti, nonostante sia stata introdotta ormai dagli anni ’80 la misura alternativa di affidamento in prova ai Servizi Sociali. Il senso di queste misure non è e non deve essere quello di uno sconto di pena o premio, ma di uno strumento di riabilitazione e rieducazione più idoneo per questi soggetti. Il carcere, inoltre, non rappresenta un deterrente per questo tipo di reati, anzi l’effetto criminogeno dell’ambiente penitenziario si combina alla diminuzione della sensibilità rispetto all’afflittività della pena, tanto che si registra un tasso del 68% di recidive, a fronte del 18% di chi ha usufruito di pene alternative. Per questo il maggior ricorso a misure alternative avrebbe indubbi vantaggi economici e di sicurezza per la società.

Gli spazi in carcere rappresentano una questione centrale e spinosa. Nel 2013 la “Sentenza Torreggiani” ha condannato l’Italia per la violazione dell’art.3 della Convenzione europea che stabilisce il divieto di tortura, pene o trattamenti inumani o degradanti, imponendo un adeguamento delle strutture per far fronte in maniera idonea e sufficiente al problema del sovraffollamento. Nonostante nel corso degli anni successivi siano stati emanati provvedimenti e norme a tale proposito, di fatto non hanno ancora trovato piena attuazione e il sovraffollamento resta una seria difficoltà per la popolazione detenuta.

Non è solo una questione di metri quadri a disposizione: l’ambiente fisico e sociale ha un’enorme influenza su pensieri, sentimenti e percezioni. Gli spazi angusti, la convivenza forzata, le condizioni in termini di igiene, illuminazione, ecc. in cui i reclusi trascorrono la loro vita sono spesso all’origine di reazioni crescenti di collera, disagio, paura, infelicità che possono esitare in aggressività verso se stessi e gli altri.

Secondo gli autori “ridefinire l’architettura delle nostre carceri e contenere il più possibile il numero dei detenuti presenti al loro interno è una priorità ineludibile per ragioni umane e, non ultima, di spesa sanitaria” (p.240).

Le numerose criticità del sistema penitenziario emergono prepotentemente quando si considera la questione della salute fisica e mentale.

La vita della prigione, con i suoi spazi, la promiscuità, accentuata dal sovraffollamento, il più difficile accesso alle cure, la scarsa igiene, oltre alla privazione della libertà, comporta spesso gravi conseguenze per la salute dei detenuti. La detenzione è un evento altamente stressante che priva la persona di risorse basilari, generando vissuti di impotenza e mancanza di speranza per il futuro. L’ambiente carcerario può amplificare precedenti disagi fisici e psichici, orientandoli verso condotte autolesive, ma anche il solo trovarsi in tale contesto genera grandi sofferenze. Il carcere è un luogo che crea, infatti, rischio suicidario: la percentuale dei suicidi in carcere è di 12 volte superiore a quella della vita libera.

Nonostante dopo la “sentenza Torreggiani” qualcosa sia cambiato e da diversi anni sia stato istituito un servizio atto ad accogliere tutti i nuovi giunti per individuare più facilmente i detenuti a rischio, l’ambiente carcerario rappresenta una grande sfida per le capacità di adattamento di una persona e il corpo rischia di diventare l’unico elemento attraverso cui esercitare controllo contro il senso di impotenza e passività.

Ciò che gli autori del volume sottolineano con forza è la necessità di rafforzare l’intero sistema di ascolto e attenzione alle esigenze della persona detenuta. Non un criminale, non un recluso, non qualcuno da “gestire” per le sfide che comporta alle esigenze di ordine e sicurezza dell’organizzazione penitenziaria, ma una persona con sentimenti, pensieri, bisogni e fragilità.

Solo attraverso un maggiore ascolto orientato al bisogno, incentivando il lavoro e la percezione di utilità e riparazione attraverso la pena, coltivando le relazioni col mondo esterno e privilegiando le misure alternative alla detenzione sarà possibile mirare davvero alla rieducazione del reo, creando le condizioni di sicurezza per un rilascio alla vita libera. La pena, compresa la reclusione, può davvero essere occasione di riabilitazione, a patto però che non venga intesa come spazio in cui riversare ciò che la società non riesce ad integrare, ma come momento in cui permettere al condannato di intraprendere un processo di recupero, creando un ponte con il “dopo” e favorendo la reintegrazione a fine pena. Una simile prospettiva, che privilegia la reale efficacia alla spettacolarità della punizione, avrebbe indubbi vantaggi in termini di sicurezza e costi soprattutto per la società nel suo insieme.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Lacatena, A.P., Lamarca, G. (2017) Reclusi. Il carcere raccontato alle donne e agli uomini liberi. Carocci editore.
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