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I presupposti filosofici della mediazione umanistico-trasformativa

La mediazione dei conflitti umanistico-trasformativa si può comprendere alla luce della distinzione operata da Aristotele tra prassi e fare produttivo

Di Guest, Alberto Quattrocolo

Pubblicato il 31 Ott. 2017

Aggiornato il 03 Set. 2019 15:33

La mediazione dei conflitti può essere definita come una pratica, e proprio dalla problematizzazione del concetto di prassi si può analizzare che tipo di prassi sia. 

Maurizio D’Alessandro, Alberto Quattrocolo – Estratto dell’articolo “La prassi della mediazione del conflitto” di prossima pubblicazione

 

Mediazione dei conflitti tra prassi e produzione

La mediazione dei conflitti può essere definita come una pratica, e proprio dalla problematizzazione del concetto di prassi si può analizzare che tipo di prassi sia. A partire dagli anni sessanta del Novecento si è assistito, in campo filosofico, ad un rinnovato interesse per la categoria di azione in seguito a quella «crisi dei fondamenti» in cui sembravano versare le scienze sociali ed alla nuova «esigenza di fondazione» proveniente delle etiche applicate.

La discussione verte sulla divisione operata da Aristotele tra scienze teoretiche, scienze pratiche e scienze poietiche. Come è noto, mentre le scienze teoretiche quali la teologia e la matematica hanno per oggetto «il necessario», le scienze pratiche come l’etica e la politica hanno per oggetto il «per lo più». L’apparente minor grado di precisione di tali discipline non assume alcun significato di minor grado di scientificità, ma indica semplicemente l’esser conforme alla natura dello stesso oggetto indagato.

L’introduzione, operata da Aristotele, tra due campi apparentemente affini come la prassi e la produzione, permette di distinguere i due ambiti e definire meglio gli statuti delle due forme di sapere: il fare produttivo mira alla realizzazione di oggetti, che al termine dell’azione sono presenti nel mondo come cose (res) e per i quali viene utilizzata una razionalità tecnica-procedurale, che è ripetibile e che può essere insegnata; l’agire propriamente detto, invece, ha in se stesso il proprio fine che non è limitato da oggetti, non segue una procedura ripetibile (o almeno non sempre e per ogni caso) ed è di difficile insegnamento.

Lo sforzo aristotelico di definire l’ambito della prassi una scienza, anche se del «per lo più», può essere ascrivibile al tentativo di mediare tra quello che potremo definire il prassismo dei politici e l’impianto meramente teorico dei sofisti.

L’azione non è né una scienza né una tecnica

Ne consegue, seguendo l’argomentazione, che l’azione non soggiace a regole prestabilite, universali, necessarie e riproducibili, come accade per il fare produttivo.

La necessità di mettere alla prova i concetti espressi fino ad ora ci spinge a definire meglio alcune procedure della «mediazione dei conflitti».

Mediazione e “soddisfazione” della persona

Alcune concezioni della mediazione dei conflitti, che possono essere ricondotte a quella impostazione che viene definita del «problem solving», pongono come fine la «risoluzione del conflitto». Le procedure utilizzate sono atte, dunque, ad intervenire all’interno del contenzioso (conflitto) con la finalità di giungere ad una conciliazione o ad una riappacificazione, in tali pratiche solo chi funge da medium nel conflitto si frappone tra i due contendenti in qualità di arbitro, giudice che distribuisce torti ma, al di là della questione della congruenza tra il metodo e i risultati attesi, la domanda che più ci sta a cuore è: i vissuti dei due contendenti trovano spazio ed ascolto in questo modello? Si può parlare di una «soddisfazione» dei soggetti coinvolti nel conflitto?

Per rispondere a tali domande occorrerebbe intendersi sul significato del termine «soddisfazione». Probabilmente, sotto un certo profilo, la risposta è affermativa, se la controversia si è chiusa con un accordo che ha fatto venire meno le ragioni razionali e comportamentali della lite. L’aspetto critico, secondo noi, sta nel valutare se si sono risolte anche le ragioni di natura “non razionale” alla base del conflitto, cioè quegli elementi cognitivi ed emotivi che hanno reso necessario agli attori del conflitto il ricorso ad un professionista esterno per la gestione del loro rapporto e la soluzione della contesa.

Il modello “umanistico-trasformativo”: la libertà

Il «modello trasformativo» di mediazione dei conflitti rappresenta il tentativo di dare risposta ad altre esigenze che vengono tralasciate dai modelli che si rifanno al concetto di giustizia.

In conseguenza di ciò, il fondamento della mediazione “trasformativa” diventa la libertà dei due soggetti coinvolti nel contenzioso, e ciò rende possibile lo svincolarsi di tale pratica da dettami tecnico-produttivi. La mediazione trasformativa dei conflitti, infatti, utilizza alcune tecniche senza però essere essa stessa una tecnica. Poiché la prassi della mediazione dei conflitti non è descrivibile in termini scientifico-procedurali, essa può essere considerata una forma di prassi nel senso espresso e non un fare produttivo.

Il modello “umanistico-trasformativo”: il riconoscimento

Torniamo, dunque, a quel “quid” mancante, cui si faceva cenno più sopra in relazione ad un conflitto in cui a seguito dell’intervento di terzi le ragioni del contrasto sono state eliminate: l’uomo in quanto «animale sociale» o «animale culturale» (secondo una nozione dell’antropologia filosofica) non agisce solo per soddisfare i propri bisogni primari, ma è caratterizzato anche dall’esigenza culturale, tutt’altro che secondaria, di essere riconosciuto; un bisogno che è anche un’esigenza psicologica fondamentale per la costruzione, l’integrazione, l’evoluzione e il mantenimento dell’identità del singolo e del gruppo. La mancata soddisfazione del bisogno di riconoscimento, d’altra parte, è spesso (per non dire sempre) uno dei fattori alla base dell’innescarsi di un conflitto; e d’altra parte è visceralmente connesso con il sentirsi compresi, ancor più che capiti.

Proprio il «bisogno di riconoscimento» è il secondo presupposto della impostazione trasformativa della mediazione dei conflitti: libertà e riconoscimento costituiscono le due strutture fondamentali di tale prassi ed in quanto tali la rendono possibile. È da queste due strutture fondanti che trae origine conseguentemente la dimensione dell’ascolto.

Sentiti e domande aperte come strumenti dell’ascolto e della mediazione

In ragione di ciò, l’ascolto del mediatore, che si esplica attraverso i sentiti e le domande è volto a ristabilire una «comunicazione non distorta» e a rompere la bidimensionalità in cui i due soggetti coinvolti si sono reciprocamente appiattiti. Il mediatore, sotto questo profilo, si ritrae da se stesso e, nell’accantonamento di sé in quanto soggetto pensante e giudicante (cioè di soggetto portatore di principi e di valori e incline ad affermarli di fronte ad un fatto di cui è testimone), svolge la funzione essenziale di diventare specchio non distorcente, che, nel riflettere i vissuti dei contendenti, restituisce loro tridimensionalità. Il sentito e la domanda svolgono un ruolo decisivo nella riuscita della mediazione trasformativa, poiché il sentito «nomina» il vissuto dandogli corpo e forma, e soprattutto permette alla persona (che è anche, ma non solo, confliggente) di sentirsi riconosciuta e di riconoscersi, mentre la domanda, se posta nel modo corretto, concorre insieme al sentito a svolgere una funzione di «apertura» e di attribuzione di significati ai fatti, ai comportamenti, alle percezioni e alle rappresentazioni coinvolte dalla tempesta del conflitto e lambite dal mare delle relazione.

Nell’espressione del sentito i soggetti, quindi, si percepiscono riconosciuti; la domanda, invece, deve avere la struttura della «domanda aprente» che è caratterizzata dalla dotta ignoranza; dice Hans Georg Gadamer:

Chi crede di sapere di più non è capace di domandare. Per essere capaci di domandare bisogna voler sapere, il che significa però che bisogna sapere di non sapere. […] Domandare significa porre in questione, proprio in ciò consiste il carattere aperto dell’oggetto della domanda; esso è aperto in quanto la risposta non è ancora stabilita.

Il fine della mediazione

Sta ai mediatori restituire ai soggetti tale libertà, da cui l’interazione conflittuale li ha tenuti lontani, relegandola nell’ambito dei non-detti e più in generale dell’inesprimibile. Ed è la mancata espressione, la mancata comunicazione di questo carico, ciò che residua come una lacuna e come un generatore di sgomenta sofferenza, allorché il conflitto è gestito ponendo attenzione solo al risultato e non al processo.

La dialettica della mediazione, allora, presuppone, tenuto fermo il fondamento della libertà, che il fine di tale azione non sia, come è già stato detto, prestabilito; lo scopo non è più quello della riappacificazione o della risoluzione del contenzioso ma quello del ristabilimento di una comunicazione non distorta, la quale è il presupposto affinché le persone protagoniste del conflitto possano, se lo vogliono e se ce la fanno, restituire «umanità» all’altro.

Se il dialogo viene ripristinato e la bidimensionalità dei soggetti del contenzioso viene decostruita i due contendenti:

Giungono entrambi a collocarsi nella verità dell’oggetto, ed è questo che li unisce in una nuova comunanza. Il comprendersi nel dialogo non è un puro mettere tutto in gioco per far trionfare il proprio punto di vista, ma un trasformarsi in ciò che si ha in comune, trasformazione nella quale non si resta quelli che si era (ivi, pag. 437).

Da qui il significato profondo dell’aggettivo “trasformativa” che definisce tale modello di mediazione dei conflitti. Al termine di un simile percorso, infatti, piccole e grandi trasformazioni si sono compiute: ad esempio, a livello della rappresentazione che si ha dell’altro e di se stessi in rapporto a lui.

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