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Il mio papà è in carcere. Genitorialità e interventi possibili

Avere i genitori in carcere può avere degli effetti sullo sviluppo dei figli e per questo vengono progettati interventi utili sia per i genitori che i figli

Di Chiara Paris

Pubblicato il 06 Ott. 2017

Aggiornato il 13 Mar. 2019 13:33

Genitori in carcere: Nessun percorso genitoriale determina per forza un passaggio all’atto deviante, ma avere un genitore in carcere – e quindi assente, per vari motivi – espone a considerevoli rischi di vario tipo (Greif, 2015). Avere uno dei genitori in carcere aumenta le probabilità di commettere attività illecite già durante la minore età; per esempio, un bambino in questa condizione ha più probabilità di rubare rispetto ad uno con lo stesso background ma senza il problema del carcere.

Chiara Paris, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi di Bolzano

 

Genitori in carcere: la situazione generale attuale

Più di due milioni di bambini nei Paesi del Consiglio d’Europa incontrano uno dei genitori in carcere, in un posto che per loro non è familiare, che potenzialmente potrebbe causare traumi, con regole e orari che non rispettano le loro normali esigenze; in Italia, sono 100 mila, 40 dei quali rimangono in maniera permanente in istituto con la madre, secondo una specifica legge che lo consente (Bambini Senza Sbarre, 2016).

Negli Stati Uniti, 1,5 milioni di bambini, con un’età quindi inferiore ai 18 anni, ha un padre in carcere (Greif, 2015). Il 2,3% dei bambini americani -e il 6,7% dei bambini afroamericani- ha attualmente uno dei genitori in carcere, e naturalmente le stime aumentano se si considerano quelli che l’hanno avuto in passato. Il 42% dei padri e il 62% delle madri viveva con i propri figli prima di venire arrestato. I bambini sono quindi esposti al trauma della separazione da uno dei caregivers primari: ciò comporta uno stress emotivo, cambiamenti rispetto al luogo in cui vivono, ma anche lo stigma rispetto alla situazione del genitore, che comprende aspettative negative sul loro futuro e la possibilità di commettere gli stessi errori (Murray,2012).

Nel Regno Unito, una stima che si aggira tra il 25 e il 50% di tutti i giovani detenuti (con una media di 20 anni di età) indica questi come padri: genitori così giovani costituirebbero una categoria particolarmente vulnerabile, per la più elevata probabilità di provenire da background di deprivazione e di aver sperimentato relazioni familiari precoci disfunzionali (Meek, 2007).

Sempre in U.K., una ricerca ha mostrato come quasi la metà delle persone detenute perda i contatti con la propria famiglia mentre si trova in carcere (National Association for Care and Resettlement of Offenders, 2000). Ciò assume un particolare rilievo se si tiene conto del fatto che la recidiva di chi ha 20 anni è del 72% nei 24 mesi successivi alla scarcerazione, ma si riduce fino a sei volte per quei genitori che rimangono in contatto con i familiari (Social Exclusion Unit, 2002; Ditchfield, 1994).

Ma cos’è la genitorialità? E soprattutto, perché ha senso valutare il rapporto con i padri?
Si parla innanzitutto di un concetto che ha ricevuto numerose definizioni. Ad esempio in letteratura, troviamo come definizione generica di genitorialità la seguente: “attività che assicurano la sopravvivenza e lo sviluppo dei bambini” (Hoghughi & Long, 2004). Vi sono anche spiegazioni più attente come quella di un qualcosa “non riducibile alle qualità personali del singolo genitore, ma che comprende anche un’adeguata capacità relazionale e sociale. Questa competenza implica saper interagire con il bambino in modo protettivo, rassicurante, rispettando però le sue esigenze” (Camerini et al., 2011).

Nonostante una tradizionale automatica connessione tra l’idea del parenting e la figura della madre, quella del padre ha ottenuto nel corso degli anni una crescente attenzione e graduale riconoscimento di importanza (Day et al. 2005).

La visione dei genitori

L’aspetto della genitorialità vissuta in carcere è un argomento delicato, non solo per il minore che si trova ad affrontare l’assenza del padre e i conseguenti numerosi interrogativi, ma anche per la persona detenuta, che non sempre ha la possibilità di elaborare e confrontarsi con questa tematica. Sviluppare delle competenze in tal senso appare uno degli aspetti da prendere in considerazione sia al fine di un più positivo reinserimento in società per chi sconta una pena di reclusione, sia per il benessere dei figli, insieme all’attività di mediazione con la famiglia, alla costruzione di spazi “a misura di bambino” prima e durante i colloqui, alla riduzione dell’impatto traumatico della separazione e degli incontri ecc.

Hairston (1989) riporta che, anche se negli U.S.A. solo un terzo dei detenuti con figli ne riceveva visite, ben l’80% desiderava partecipare a programmi inerenti le skills genitoriali. Le visite regolari continuano a rimanere riservate a pochi anche più recentemente, mentre la maggior parte ricorre a telefonate e lettere (Mumola, 2000). L’impossibilità o la scelta di non svolgere colloqui con i minori, è spesso da ricondurre a svariati motivi, ad esempio la decisione di non introdurre i figli in ambiente detentivo-soprattutto se piccoli-, ai rapporti conflittuali con la madre degli stessi, o ai costi dei viaggi per le visite, motivi che quindi non corrispondono necessariamente all’intenzione di sottrarsi ai compiti genitoriali (tra gli altri, Shlafer & Poehlmann, 2010).

Genitori in carcere: quali rischi per i minori?

Nessun percorso genitoriale determina per forza un passaggio all’atto deviante, ma avere uno dei genitori in carcere – e quindi assente, per vari motivi – espone a considerevoli rischi di vario tipo (Greif, 2015).

Avere uno dei genitori in carcere aumenta le probabilità di commettere attività illecite già durante la minore età; per esempio, un bambino in questa condizione ha più probabilità di rubare rispetto ad uno con lo stesso background ma senza il problema del carcere. Ciò vale anche per coloro che hanno uno dei genitori che commette reati, ma che non è in carcere (Murray et al. 2012).

I principali sintomi che questi bambini sviluppano vengono identificati sia come internalizzanti che esternalizzanti e spesso legati a difficoltà scolastiche (Murray & Farrington, 2008): bambini con questo tipo di esperienza manifestano comportamenti problematici a partire dall’adolescenza con maggiore probabilità rispetto a chi ha subito una separazione dal padre o dalla madre per motivi diversi.

Nello studio di Gabel e Shindledecker (1993) sono stati valutati bambini con almeno un genitore con esperienza di detenzione: rispetto al gruppo di controllo, in tali bambini aumentava la possibilità di subire abusi o maltrattamenti, di sviluppare comportamenti aggressivi (per i maschi) e problemi di attenzione (per le femmine). L’associazione con comportamenti antisociali nel corso della crescita era già stata evidenziata da precedenti studi (Rutter et al., 1983).

Un’ipotesi alternativa a queste teorie deriva da uno degli autori già citati, Gabel (1992): l’autore spiega come gli effetti negativi a lungo termine a carico dei minori possano essere legati alla natura estremamente disfunzionale che vivevano in famiglia già prima della carcerazione del genitore. In questi casi, risulterebbe forse ancora più importante fornire a questi padri la possibilità di conoscere modalità interattivo-relazionali alternative a quelle abitualmente messe in atto.

Fonagy (1991) riconduce alla qualità dell’attaccamento la possibilità che si sviluppino percorsi delinquenziali: in altre parole, un attaccamento sicuro con il caregiver faciliterebbe l’acquisizione della moralità, la capacità metacognitiva di comprendere il punto di vista dell’altro e la funzione riflessiva. Diventa quindi essenziale lavorare sul potenziamento delle abilità metacognitive e su risposte adeguate nell’interazione con i minori durante i percorsi psicologici rivolti ai genitori in carcere (anche quando i contatti sono sporadici). Ciò è peraltro in accordo con la teoria dell’attaccamento così come formulata da Bowlby, per cui la separazione del bambino dal padre in seguito alla carcerazione incide negativamente sulla naturale tendenza a mantenere la vicinanza con il caregiver per assicurarsi la protezione (Bowlby, 1980) e con i risultati di Poehlmann (2005) secondo i quali la maggior parte di questi bambini manifesta un attaccamento insicuro.

Un fattore protettivo rispetto alla comparsa di comportamenti problematici è rappresentato dalla percezione di un atteggiamento caldo e accettante da parte di quelle persone che si occupano del bambino (Mackintosh et al., 2006): questo risultato si può estendere anche ai genitori che stanno scontando una pena, qualora siano in contatto con i minori. Anche vedere il genitore con costanza durante i colloqui –soprattutto in adolescenza- riduce il rischio di drop-out scolastico (Trice & Brewster, 2004).

Shlafer e Poehlmann (2010) hanno condotto uno studio longitudinale sui figli di genitori in carcere, seguendoli in maniera continuativa con un programma di mentoring e focalizzandosi sulla qualità della relazione genitore-figlio.

Se i genitori riportano la percezione di sensazioni positive nei figli dopo le visite, l’impressione di questi ultimi è invece molto variabile: quasi la metà dei minori rimanda a sentimenti positivi o nostalgia, mentre altri manifestano rabbia e risentimento, o si dicono confusi rispetto al rapporto con la madre o il padre. Alcuni operano un vero e proprio distanziamento, scegliendo di non parlare del tema o minimizzandone i contenuti emotivi. Nessun bambino di questo studio definisce la visita in carcere positiva, manifestando la percezione di una sorta di “artificiosità” della situazione, in cui il genitore non si comporterebbe in maniera naturale, oppure spiegando che in quel lasso di tempo spesso i genitori discutono tra loro lasciando poco tempo all’interazione genitore-figlio.

Anche situazioni di incertezza – come dubbi circa la possibilità di effettuare i colloqui o di ricevere regolari telefonate- suscita emozioni negative di caos e frustrazione nei minori e in chi se ne prende cura all’esterno del carcere. Gli insegnanti di questi bambini riferiscono di comportamenti bullizzanti, spesso inadeguati con i pari e rispetto alla scuola, episodi depressivi e regressioni nello sviluppo o bassa autostima. Dalle diverse parti coinvolte, emerge la percezione di stigmi legati alla condizione del genitore, che rischiano di determinare “profezie che si autoavverano”. Nonostante le problematiche descritte, più sono regolari i colloqui e più diminuiscono aggressività e alienazione: un’ipotesi delle autrici è che tali miglioramenti siano più significativi nei figli più grandi, che sono in grado di capire maggiormente la situazione e che sintomi di acting out possano essere interpretati come una richiesta di aiuto nella regolazione dell’emotività.

I gruppi di sostegno e le iniziative

Una serie di numerosi studi ha evidenziato come corsi e gruppi per genitori in carcere conducano a risultati positivi in termini di conoscenze, capacità e autostima nei padri, ma anche di auto-percezione nei bambini (Meek, 2007).

Nei gruppi di sostegno a Baltimora, viene chiesto ai padri com’era la loro situazione familiare di origine e cosa vorrebbero trasmettere di positivo ai loro figli. I partecipanti sono padri di età compresa tra i 20 e i 40 anni, aventi situazioni molto diverse riguardo la loro famiglia di origine: alcuni non hanno mai conosciuto il loro padre, altri lo frequentavano ma viveva fuori casa con contatti sporadici, altri ancora lo hanno visto lasciare il tetto coniugale oppure altri hanno vissuto con entrambi i genitori. All’interno di questo gruppo variegato esprimono più preoccupazione e dolore coloro che non hanno avuto un padre e che spesso hanno avuto come mentore colui che li ha introdotti nel mondo della droga o del crimine; per tale categoria di padri è molto difficile elaborare un’idea di come potrebbe essere un padre (Greif, 2015).

Harrison (1997) ha valutato gli effetti di un programma sulla genitorialità, in particolare su attitudini ed abilità di padri detenuti e sull’auto-percezione dei figli. Il programma è durato un mese e mezzo, per un totale di 7,5 ore a settimana, ed ha coinvolto una vera e propria formazione sullo sviluppo del bambino sin dalla gravidanza, ma anche e soprattutto un forte coinvolgimento attivo dei genitori nella discussione su rapporti e dinamiche familiari. I risultati hanno mostrato un aumento delle capacità di parenting e un miglioramento nel comportamento del genitore, mentre appaiono non significativi gli effetti sui minori.

Chi partecipa a programmi che aiutano a mantenere le relazioni familiari ha meno probabilità di tornare in carcere e – mentre è recluso- manifesta meno problematiche di disciplina (Bayse, Algid, Van Wyk, 1991); avere buone relazioni con l’esterno, conduce più facilmente ad un successo nella riabilitazione e abbassa la recidiva (Carlson & Cervera, 1991).

Meek (2007) ha condotto gruppi con una media di 8 partecipanti dai 18 ai 21 anni di età. Nonostante si sia evidenziato un maggior risultato con progetti a lungo termine, l’autrice spiega come sia importante promuovere anche percorsi più brevi e intensivi per riuscire a coinvolgere un più elevato numero di partecipanti. I gruppi riguardavano tematiche inerenti la cura dei bambini, la gravidanza, ma anche temi inerenti aspetti legali, la violenza domestica e le modalità con cui mantenere i contatti con i figli prima e dopo la scarcerazione. I padri che hanno partecipato sono stati coinvolti attivamente anche nella definizione delle tematiche, in modo da adattare gli incontri in funzione delle diverse situazioni, con l’utilizzo di tecniche diversificate, quali lavori individuali e di gruppo, discussioni, quiz e role-playing. I gruppi hanno ricevuto valutazioni estremamente positive in termini di utilità, mentre è stata sottolineata la necessità di visite più lunghe e più frequenti con i bambini, con più supporto nel mantenere il legame e nel gestire le difficoltà emotive dell’essere un padre in carcere, anche attraverso percorsi come quello svolto.

In Italia esistono ad oggi alcune iniziative come quella di “Spazio Aperto Servizi”, che, presso il carcere di Bollate dal 2005, svolge una sperimentazione per creare un ambiente più favorevole a quei minori che vivono l’esperienza di avere uno dei genitori in carcere. Il progetto prevede l’intervento di psicologi che seguono il genitore in un percorso di sostegno, ma anche famigliari e figli con un supporto durante le visite in carcere. Queste ultime vengono svolte nella “stanza dell’affettività”, un’area protetta e pensata per le esigenze dei minori (Progetto “La porta aperta del carcere: famiglia e territorio in rete”, ASLMi1).

Il momento del reinserimento

Alcuni autori si sono occupati anche del periodo post-carcere, cercando di evidenziare anche la necessità di un sostegno successivo al ritorno in famiglia.

Tra questi, Meek (2007) ha valutato il tipo di supporto da fornire ai genitori una volta usciti. Molti ritengono di non necessitare di alcun tipo di percorso all’esterno e questo rappresenta una sfida per chi si occupa di reinserimento, poiché il momento successivo alla scarcerazione rimane un periodo vulnerabile per la relazione con i figli e il rischio di recidiva. Il suggerimento degli autori è quindi quello di non limitarsi a percorsi nell’ambito detentivo, ma di motivare i padri detenuti e andare sempre più nella direzione di un continuum della presa in carico dalla carcerazione all’esterno del carcere.

Una relazione positiva tra il padre che sconta una pena e il proprio figlio, consente non solo un aumento delle possibilità positive di reinserimento sociale, ma anche una maggior tutela del benessere del minore.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bayse, D.J., Algid, S.A., & Van Wyk, P.H.(1991). Family life education: An effective tool for prisoner rehabilitation, Family Relations, 40, 254-257.
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  • Camerini, G.B., Volpini, L., Lopez, G. (2011). Manuale di valutazione delle capacità genitoriali. Maggioli Editore.
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