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L’ attivazione comportamentale in psicoterapia: come cambiare i comportamenti dei pazienti

L'attivazione comportamentale sarebbe fondamentale per indurre nel paziente cambiamenti sia cognitivi che comportamentali

Di Giancarlo Dimaggio

Pubblicato il 24 Ott. 2017

Aggiornato il 17 Gen. 2018 15:21

Nella mia prospettiva, l’ attivazione comportamentale e gli esperimenti comportamentali in generale, si dovrebbero integrare con altre tecniche, in particolare quelle basate sulla riattivazione emotiva in seduta. Si prefigurano in questo modo sequenze di intervento, come quelle che andiamo sviluppando in Terapia Metacognitiva Interpersonale e nelle terapie orientate metacognitivamente.

L’importanza dell’ attivazione comportamentale in terapia

Pensare una terapia senza la componente comportamentale oggi mi sembra difficile. Anni fa avevo una posizione radicalmente anticomportamentista, non senza un certo livello di sdegno intellettuale. Ero di matrice costruttivista Kelliana al quale si affiancava un background di psicoanalisi interpersonale (alla Kohut e Mitchell). Nel corso degli anni ho cambiato idea radicalmente.

Da un lato gli studi che mostravano quanto la componente comportamentale fosse fondamentale nel cambiamento che si ottiene nella CBT. Dall’altro la crescente consapevolezza che gli schemi che guidano disfunzioni e maladattamento nelle relazioni abbiano sì un aspetto cognitivo, ma che la parte più stabile, e difficile da cambiare, sia quella procedurale/tacita/implicita. Le esperienze relazionali che viviamo nello sviluppo si scrivono nel corpo come sequenze di azioni, reazioni ed emozioni, delle quali possiamo non essere coscienti. Guidati ad esempio dall’ attivazione di uno schema di attaccamento evitante, quando abbiamo bisogno di cure non esprimiamo l’emozione e sminuiamo la sofferenza che proviamo e la necessità di essere aiutati, senza renderci conto di farlo. Sono automatismi.

Per cambiare la componente procedurale degli schemi è necessario rompere le routine comportamentali. Non penso al comportamentismo amentalista degli albori, ma faccio riferimento a un’idea di mente in cui l’azione è la parte che svela quali cognizioni e affetti hanno più peso. Detto semplicemente: un paziente con disturbo evitante di personalità può dire “Tendo a temere il giudizio e mi vergogno all’idea che gli altri pensino che sono un incapace, ma ora mi rendo conto di questo e ci sorrido su”. Sembra che abbia acquisito capacità di distanza critica/defusion/differenziazione. Poi gli si chiede: “Ma ci va all’università? Ha cercato lavoro? Ha provato a invitare una ragazza a uscire?” “Io? No no per carità, queste cose non le faccio”.

Che significa? Che la capacità di distanza critica a livello cognitivo non valeva niente, e che la vera cognizione era quella che antecedeva il comportamento di evitamento. E senza un’esposizione comportamentale quello schema non si sarebbe mai infranto.

A partire da queste riflessioni mi sono spostato sempre di più verso l’attenzione alla componente bottom-up della psicoterapia, in cui il cambiamento esperienziale precede, accompagna e sostiene la ristrutturazione cognitiva. Allo stesso tempo, mi è sembrato sempre più evidente che senza una componente comportamentale una psicoterapia, di qualunque orientamento, sia destinata a una minore efficacia, o comunque a essere efficace con un minor numero di pazienti. Guidato da questa idea, con il mio collega Golan Shahar siamo partiti dall’ attivazione comportamentale, noto trattamento efficace per la depressione e abbiamo curato un numero speciale della rivista Psychotherapy.

L’ attivazione comportamentale e l’integrazione con altre tecniche

Abbiamo chiesto ad autori di diversi orientamenti come utilizzassero l’ attivazione comportamentale, originariamente pensata come protocollo a sé per il trattamento della depressione, in una serie di disturbi: dolore cronico, ansia, depressione (naturalmente), disturbi di personalità, schizofrenia. Per spiegare di che si tratti, traduco l’abstract della mia introduzione con Shahar.

L’ attivazione comportamentale è un trattamento efficace per la depressione, che ha come bersaglia la deprivazione di rinforzi positivi. È diventato sempre più evidente che molti disturbi mentali e forme di sofferenza psicologica coinvolgano la riduzione di attività guidate allo scopo e piacevoli. Questa riduzione lascia gli stati mentali negativi al centro della coscienza, senza che sentimenti e memorie positive, esperienze di agency, autoefficacia, competenza, rilassamento, energia e situazioni li controbilancino. Una riduzione dell’attività la si può trovare in disturbi che passano dal dolore cronico, ai disturbi di personalità alla schizofrenia. Crediamo che il tempo sia matura per pensare che l’ attivazione comportamentale, più che un trattamento in sé, sia considerata un meccanismo di cambiamento fondamentale in psicoterapia per un’ampia gamma di disfunzioni, e in modo indipendente dall’orientamento preferito dal clinico… riflettiamo sul fatto che l’ attivazione comportamentale vada implementata in molte forme di psicoterapia e per vari disturbi mentali, per rendere i trattamenti più rapidi e migliorare gli outcome, purché sia effettuata all’interno di un’attenzione importante alla relazione terapeutica”.

Nella mia prospettiva, l’ attivazione comportamentale e gli esperimenti comportamentali in generale, si dovrebbero integrare con altre tecniche, in particolare quelle basate sulla riattivazione emotiva in seduta. Si prefigurano in questo modo sequenze di intervento – come quelle che andiamo sviluppando in Terapia Metacognitiva Interpersonale e nelle terapie orientate metacognitivamente, – si vedano questi due articoli: Agency before action: The application of behavioral activation in psychotherapy with persons with psychosis e Behavioral activation in the treatment of metacognitive dysfunctions in inhibited-type personality disorders – che funzionano in questo modo.

Si parte dal ricordo di un episodio narrativo emotivamente rilevante. Il paziente può ad esempio raccontare: “Ho detto a mia madre che avrei fatto un viaggio con gli amici in estate, era la prima volta, ci tenevo. Mi rispose dura: non se ne parla nemmeno, è assurdo, non sei abbastanza grande e responsabile. Mi sono arrabbiato moltissimo”.
Il terapeuta chiede di approfondire l’episodio attraverso un esercizio di immaginazione guidata, in modo da cogliere meglio le emozioni
Terapeuta, durante l’imagery: “Come si sente ora che sua madre le ha detto che non può partire con gli amici”
Paziente: “Arrabbiato… no… forse… non lo so… strano”
Terapeuta: “La sua espressione… è vero, non sembra arrabbiato, cosa può essere?”
Paziente: “Debole, mi sento debole. Come… una specie di tristezza, che non ci posso fare niente, che mia madre in fondo a ragione”.

A quel punto il terapeuta, dopo una breve pausa può iniziare il rescripting in immaginazione: Terapeuta: “Provi a dire a sua madre lì di fronte a lei: ho voglia di partire, di stare con gli amici, sono capace”.
Il paziente ci prova e il terapeuta gli chiede di dirlo più forte, modulando l’intensità della voce e la postura, in modo da essere sempre più convinto e fermo nell’esprimere il desiderio”.
Terapeuta: “Come si sente ora?”
Paziente: “Meglio, più forte, ho voglia di farlo questo viaggio e mia madre non mi può smontare” .

Su questa base si può articolare l’esperimento comportamentale per consolidare quanto sperimentato in seduta che, senza il mantenimento tra una seduta e l’altra, rischierebbe di svanire lentamente.
Terapeuta: “Con questo in mente, proviamo a programmare di chiedere il trasferimento per potere fare il lavoro che davvero le piacerebbe”.

Oggi la psicoterapia la si può immaginare come una serie di processi organizzati così.

 

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Giancarlo Dimaggio
Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta - Socio Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva-Interpersonale

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