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Report dal convegno Attaccamento e Trauma – Roma, 22-24 settembre 2017

Si è svolto a Roma dal 22 al 24 settembre il Convegno “Attaccamento e Trauma. Evoluzione umana e guarigione" e viene riportato l'intervento di Cozolino.

Di Elena Mannelli

Pubblicato il 02 Ott. 2017

Si è svolto a Roma questo weekend il Convegno “Attaccamento e Trauma. Evoluzione umana e guarigione”, convegno che ha visto partecipare importanti esponenti di studiosi nel settore da Van Der Kolk, a Robin Shapiro, da Kathy Steele a Daniel Siegel.

 

La quinta edizione del Convegno Attaccamento e Trauma

E’ la quinta edizione e l’organizzazione è ad opera dell’Istituto di Scienze Cognitive che per questo 2017 ha portato la discussione circa il trauma e l’attaccamento anche a Londra, nel maggio scorso (“La resilienza del corpo e della Mente), e la porterà a New York (“La neurobiologia della guarigione”) questo autunno.

Sfumature diverse dello stesso spettro, programmi e relatori molto simili, ma fortunatamente dislocate nel globo dando a tutti la possibilità di ascoltare alcuni tra i big sull’argomento.

La sede scelta è particolare ed apprezzabile, il Teatro Brancaccio, l’orario pare piuttosto intenso (dalle 9 alle 19) tuttavia gli interventi sono relativamente pochi, soltanto 4 al giorno e ogni relatore, nella sua ora e mezza di presentazione, ha avuto l’opportunità di approfondire sia teoricamente che clinicamente i propri contributi (spesso con l’ausilio di video di sedute che fanno sempre piacere), pertanto l’organizzazione merita sicuramente un elogio.

Il convegno è fatto per l’80% da ospiti internazionali, ad eccezione dell’intervento di Massimo Ammaniti e del direttore d’orchestra Carmelita, il resto è made in USA.

Gli 11 relatori sono stati chiamati a mettere in relazione i dati scientifici e le conoscenze teoriche con la clinica del paziente con trauma complesso.
Il taglio del convegno è sicuramente quello evolutivo ed epigenetico. Due parole che sono le keywords di tutte le presentazioni. L’argomento è sicuramente attuale, che si odi o si ami, si parla di Attaccamento (disorganizzato aggiungerei tra parentesi), Traumi (“T grandi e t piccoli”) e vien da sé che queste due parole suonino bene con dissociazione (o frammentazione delle parti come più spesso gli americani hanno detto).
La parte neurobiologica fa da sfondo all’evento, forse da palcoscenico meglio dire, data la location.

Il punto da cui si parte è cercare di comprendere quello che accomuna l’esperienza del trauma dai primati all’uomo, quello che avviene al feto prima e al neonato poi da un punto di vista fisiologico e neuronale in seguito alle esperienze traumatiche della madre e, ovviamente, capire il ruolo delle dinamiche dell’attaccamento e come queste modellino la struttura del cervello e quindi l’impatto che abbiano nel funzionamento delle capacità di autoregolazione (anche emotiva) determinandone il comportamento.
Il “palinsesto” del primo giorno vede Louis Cozolino, Massimo Ammaniti, Diana Fosha e Dan Hughes.

L’intervento di Louis Cozolino: il cervello sociale e l’impatto del trauma

Di seguito viene riportato il primo dei diversi interventi che sono stati presentati durante il convegno.
L’idea di questo report è proprio quella di selezionare alcuni dei contributi di cui il primo è “Our social brain and the impact of trauma” di Louis Cozolino.
In perfetto stile anglosassone alle 9:00 si aprono i lavori.

Cozolino è laureato in filosofia, Teologia e Psicologia Clinica e ha docenze internazionali e attività clinica a Los Angeles.
La sua tesi centrale è che il trauma possa avere un impatto nell’attaccamento sicuro e anche a livello del cervello e del suo sviluppo, e quindi di conseguenza anche compromettere la capacità di connettersi con gli altri.
La sua relazione è in termini evolutivi e in un’ottica “sociale” appunto. Molto focalizzata sulla ricerca scientifica e meno sulla pratica clinica ma indubbiamente interessante.

Cozolino evidenzia come i neuroni abbiano “bisogno” di comunicare tramite le loro migliaia di connessioni per evitare il fenomeno di apoptosi e come questo sia metaforicamente lo stesso bisogno di tutti i mammiferi: restare in connessione con gli altri garantisce la sopravvivenza della specie.

I pinguini per esempio si uniscono tutti insieme in gruppo per non disperdere calore e sopravvivere alle temperature del Polo Sud; così anche per l’uomo la connessione va a formare “la mente di gruppo” e diventa fondamentale per il suo sviluppo. Così nei mammiferi il maschio alfa serve per far sì che esista un maschio beta, che combatta, e un omega che perda in modo da rimanere e perpetuare l’equilibrio (sociale) e da garantire sempre il miglior proseguimento della specie.

Ancor più evidente è il bisogno del neonato di connettersi al caregiver per un sano sviluppo neuro-bio-psicologico.
Dalla Cibernetica (“il mondo è composto da una serie di sistemi che si compenetrano a vicenda”) alla terapia sistemica, l’ottica di connessioni che mantengono in equilibrio (omeostasi) è chiara anche in psicologia.

Allo stesso modo anche gli uomini sono “sociali” così come lo è il loro cervello, pertanto quello che avviene nell’ambiente è importante anche a livello neuropsicologico.

Dalla psicologia sociale che studia l’impatto delle relazioni sull’elaborazione cognitiva ed emotiva, alla psicoimmunologia che studia l’impatto dei fattori sociali sulla salute all’epigenetica che studia l’impatto dell’esperienza sull’espressione genetica: un concentrato di saperi per sottolineare (anche se forse siamo tutti già abbastanza d’accordo) “che nessun uomo è un’isola.”

Le evidenze biologiche della natura sociale del nostro cervello e del profondo legame tra il singolo, l’altro e l’ambiente passano dal sistema dell’attaccamento (per es i bambini sicuri reagiscono meglio allo stress e hanno un numero maggiore di recettori per la serotonina), ai neuroni specchio che predispongono il bambino (e i primati) sin dopo 36 ore dalla nascita all’imitazione dell’altro tramite connessione visiva fino ai sistemi esecutivi che si sono evoluti in un’ ottica di sempre maggiore connessione con l’altro e si sono andati a specializzare con l’evoluzione della specie sino a diventare estremamente “sociali” nell’uomo.

Il primo sistema esecutivo è il più arcaico e riguarda le strutture sottocorticali e l’amigdala dediti a meccanismi di attacco-fuga, risponde a segni di pericolo o sicurezza; il secondo riguarda le reti parietali e ippocampali che coordinano le capacità di percezione del tempo e dello spazio e molte attività cognitive come il problem-solving e il ragionamento e poi il terzo sistema definito il “Default Mode Network (DMN)” deputato all’ attaccamento, all’empatia e alla consapevolezza di sé.

Il DMN in neuroscienze è un network di aree del cervello e si attiva generalmente quando la persona non è focalizzata all’esterno, ma il cervello è a “riposo” come nel sogno o nel “wandering” o riflette su sé o gli altri. Tra le funzioni in cui è coinvolto questo network ci sono sia la capacità di riflettere su se stessi (metacognizione) sia quella di riflettere sull’altro (è il centro della Teoria della Mente dei pensieri e delle emozioni dell’altro, e pertanto dell’empatia).

I sistemi più arcaici pongono il veto sull’attivazione di quelli più nuovi pertanto se si attiva quello sotto quello sopra viene inibito.

Il trauma andrebbe ad intaccare il funzionamento non permettendo l’attivazione del DMN e quindi dei processi di regolazione affettiva, della sintonizzazione, della compassione e dell’empatia riducendo le capacità di consapevolezza di sé e di insight. Questo comporta quindi sia un danneggiamento di sistemi biochimici (la memoria, l’apprendimento e le funzioni cognitive risultano danneggiati dalle molteplici conseguenze dell’attivazione cronica) e tutto questo comporta un indebolimento dello status sociale (impedendo la “connessione”), aumentando il rischio di essere maschio “omega” e di non sopravvivere.

Si conclude con una brevissima presentazione degli studi ACE (Adverse Childhood Experiences) ovvero una serie di molteplici studi a lungo termine su un campione di 17421 soggetti, che ha riportato la prevalenza delle esperienze infantili avverse, dall’abuso emotivo (11%) a quello fisico (28%) a quello sessuale (21%) e altri ancora correlati con uno sviluppo difficile. Tali esperienze possono correlare sia con problematiche fisiche sia psicologiche. Maggiore il numero di ACE, maggiore è il tasso di tentativi di suicidio.

Tali esperienze avverse sono correlate sia a patologie epatiche, fumo, obesità e patologie polmonari sia a depressione, alcolismo, mancanza di casa, dipendenze, violenze domestiche e gravidanze indesiderate.

Le conclusioni vanno nella direzione del fatto che le relazioni plasmano la mente, che il comportamento degli altri regola il nostro cervello e che un trauma può disconnetterci dalla “Group mind” fondamentale per la sopravvivenza.

Un intervento che non apporta nulla di nuovo ma rimarca l’importanza di qualcosa che deve essere tenuto in considerazione; le dinamiche relazionali sono determinanti non solo per i primati ma anche per noi e di conseguenza l’impatto clinico di tanta epigenetica va adeguatamente tenuto in considerazione.

Nei successivi articoli verranno illustrati i contributi dei relatori della prima giornata.

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Elena Mannelli
Elena Mannelli

Psicologa Cognitivo-Comportamentale

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