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Oncologia pediatrica: il lavoro dei volontari per il sostegno delle famiglie

Nei reparti di oncologia pediatrica è importante garantire la presenza di psicologi che si prendano cura dei vissuti del bambino e della sua famiglia

Di Guest, Beatrice Plini, Giovanna Tedeschi

Pubblicato il 28 Set. 2017

Aggiornato il 27 Giu. 2019 12:25

Il presente contributo intende analizzare l’impatto della malattia sul bambino, sui vissuti legati all’ospedalizzazione, gli atteggiamenti regressivi e le possibili risposte emotive che un bambino può sviluppare a seguito della diagnosi o durante le fasi di una patologia organica grave.

Sofia Tavella, Chiara Granato, Michela Liberatoscioli, Beatrice Plini, Fabiana Prota, Giovanna Tedeschi

 

L’insorgere di essa può comportare nella vita di un bambino una serie di cambiamenti sia a livello psicofisico che relazionale, incidendo sulle sue dimensioni più intime e personali, limitando autonomia e indipendenza dalle figure di riferimento primarie. Bisogna considerare che in seguito a una diagnosi di cancro potrebbe emergere una profonda disorganizzazione con l’uso di meccanismi e strategie di difesa quali la negazione, l’isolamento, la proiezione, la regressione, ecc. che potrebbero portare il soggetto a sviluppare psicopatologie come: alterazioni dell’immagine corporea, sintomi depressivi, somatizzazioni, isolamento e disagio sociale che possono legarsi al trattamento (Moore et al., 2003), ma anche difficoltà affettive, comportamentali, scolastiche (Meyer et Kieran, 2002) e il PTSD, disturbo da stress post-traumatico (Roy et Russell, 2000).

Inoltre, anche se alle volte è curabile, nell’immaginario comune si tratta di una malattia direttamente collegata alla morte ed è compito dello psicologo riconoscere la presenza di eventuali disturbi o delle angosce di morte che il bambino malato potrebbe sviluppare. Le angosce di morte (Derealizzazione, Depersonalizzazione e Destrutturazione) portano il bambino a interrogarsi sul proprio futuro, a perdere la motivazione a vivere, a non riconoscersi più nel proprio ruolo e ad identificarsi differente dalla condizione iniziale di salute; crollano così i miti dell’eterna giovinezza e dell’eterna salute (Crocetti, 2012). Poiché il disagio psicologico aumenta la percezione del dolore (Riva, 2013), riducendo le angosce di morte che spesso accompagnano il paziente oncologico vi è anche un decremento del dolore fisico (Mangani, 2015).

Il dolore fisico è correlato anche ai modelli che il bambino ha appreso dalle figure di riferimento, a fattori sociali e alle credenze che gli adulti possono avere sulla percezione del dolore del bambino e il suo modo di affrontarlo (Ross e Ross, 1984; McGrath e McAlpine, 1993; Capoleoni 2000). Le figure di accudimento possono inoltre incrementare la paura per le procedure mediche, la difficoltà ad adattarsi, a fronteggiare la malattia e il dolore provato (McGrath, 1995).

Tra i pazienti oncologici sono state rilevate diverse strategie di coping nell’affrontare lo stress legato alla malattia neoplastica. Le principali strategie individuate da Burgess (1988) sono: Hopelessness/helplessness, lo spirito combattivo, l’accettazione stoica, la negazione/evitamento e il coping religioso.

La tendenza a percepire gli eventi esterni come ineluttabili e legati al destino, external locus of control, tende a favorire modalità disadattive alla malattia, mentre la tendenza a percepire gli eventi come controllabili, internal locus of control, facilita modalità più adattive (Grassi et al, 2003).

Per comprendere i vissuti di un bambino ricoverato in un reparto di oncologia pediatrica è necessario porsi determinate domande: come spiegare la patologia al bambino? Quali potrebbero essere le conseguenze psicosociali derivanti dall’ospedalizzazione? Com’è opportuno gestire l’impatto del cambiamento fisico e ambientale sia sul bambino che nel contesto familiare?

Tramite il progetto “Al servizio dei bambini“, fondato dall’associazione Alma Salus nel 2007, è stato possibile assistere bambini con patologie temporaneamente o permanentemente invalidanti, o in fase terminale della malattia.

Noa è un bambino di 9 anni che ha iniziato un lungo e intenso percorso legato alla diagnosi di carcinoma renale bilaterale; è stato sottoposto ad un intervento di asportazione chirurgica di un rene, continuando parallelamente sia le terapie chemioterapiche ogni ventuno giorni, con l’intento di diminuire le dimensioni del carcinoma, sia i relativi controlli per monitorare l’andamento delle cellule tumorali.

Oltre ai ricoveri legati alle terapie, Noa torna in ospedale con frequenza variabile a causa degli episodi di aplasia che lo costringono a non uscire dalla stanza e quindi ad una limitazione sociale e ambientale. Appare un bambino timido e introspettivo, con cui è difficile entrare in relazione sia a livello verbale che visivo, soprattutto in presenza dei genitori. Tuttavia, con la costante ricerca della sua partecipazione è stata notata una differenza sostanziale nell’interazione e nelle attività ludiche che avvengono al di fuori della stanza, in presenza di altri bambini, in un luogo probabilmente percepito come più adeguato alla sua età.

Da quanto riferito dai genitori, Noa sa di avere due “palline” sul rene, una delle quali è stata tolta. Nonostante sia solo un bambino di nove anni, la curiosità di sapere cosa deve affrontare, non è mai venuta a mancare, arrivando a chiedere anche spiegazioni per iscritto ai dottori. L’intervento e gli effetti collaterali della chemioterapia hanno inciso in maniera evidente sul vissuto emozionale del bambino, portandolo ad un rifiuto del contatto fisico anche con gli stessi genitori, soprattutto nelle zone coinvolte dall’intervento. Queste ed altre conseguenze, vanno ad aumentare il senso d’impotenza dei genitori ed in particolar modo della madre, che per prima avverte il distacco del figlio, sentendo la costante necessità di “controllare” o ” percepire” il dolore e i bisogni.

Il caso di Noa ci aiuta meglio a comprendere come sia importante considerare la soggettività di ogni situazione data, dalla storia, dall’emotività e dal livello evolutivo di ciascuno. Queste caratteristiche vanno considerate in ogni fase della malattia, fin dal suo esordio. L’angoscia, che inevitabilmente accompagna ogni percorso di malattia, può venire espressa, celata, affrontata o negata, in modi differenti. L’esperienza di ammalarsi gravemente comporta comunque per un soggetto in crescita carichi emotivi eccessivi per l’età; questo se da un lato spinge ad un adeguamento troppo precoce al mondo adulto, dall’altro impone situazioni di dipendenza che rallentano lo sviluppo. Può, inoltre, venire compromesso l’equilibrio all’interno del nucleo familiare, con alterazioni delle dinamiche esistenti.

Al fine di evitare queste ed altre compromissioni, al fianco delle figure professionali che si occupano della malattia in senso clinico, è importante che operino persone qualificate che si prendano cura del bambino e di tutta la sua famiglia a livello psicologico ed emotivo, ricordando sempre che un paziente ricoverato in oncologia pediatrica è sempre un bambino e, in quanto tale, necessita di attività ludiche, di interazioni sociali, di accudimento, ecc.

Avvicinarsi ad una realtà ospedaliera e al progetto “Al servizio dei bambini” significa dunque intervenire in un contesto dove spesso la malattia diviene l’unica protagonista.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Biondi M., Costantini A., Wise T. N., (2014). Psiconcologia, Cortina Raffaello, Milano.
  • Gerbi R., (2012). Progetto “Al servizio dei bambini”. Una proposta di intervento per il Benessere Bambino. IF press, Morolo (FR).
  • Guarino A., (2014). Psiconcologia dell’età evolutiva. La psicologia nelle cure dei bambini malati di cancro. Erickson, Trento.
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