expand_lessAPRI WIDGET

Congresso dell’EABCT 2017: il report dalla seconda giornata

Perchè l'eclettismo nella psicoterapia cognitivo-comportamentale? Cosa impariamo dagli interventi di Radomski, Adrian Wells e del gruppo EMDR

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 16 Set. 2017

Questa edizione del congresso EABCT (European Association for Behavioural and Cognitive Therapies) si sta assumendo molti rischi, forse perfino troppi. Mentre a Stoccolma un anno fa erano prevalsi i toni dell’autocelebrazione, quest’anno si preferisce guardare in faccia i punti critici. È successo il primo giorno con Hayes, è successo ancor di più con Wells in questo secondo giorno che sto andando a raccontarvi.

 

Perchè l’eclettismo nella psicoterapia cognitivo-comportamentale?

Per capire l’impatto della presentazione di Wells occorre però fare un passo indietro e tornare alla presentazione di Adam Radomsky durante la prima giornata. Radomsky aveva parlato di un aspetto tra quelli più critici della psicoterapia cognitivo-comportamentale: perché così pochi la eseguono fedelmente? Perché così tanti si perdono in un eclettismo mal definito? In concreto, perché solo il 16% dei terapisti cognitivo-comportamentali, quando eseguono i protocolli per i disturbi d’ansia o ossessivo-compulsivo, prescrivono con convinzione, efficacia e chiarezza l’esposizione comportamentale? Lo aveva detto anche Mehmet Sungur nel discorso introduttivo della cerimonia d’apertura: troppi terapisti cognitivo-comportamentali non eseguono la terapia cognitivo-comportamentale e sono solo genericamente cognitivi, ossia parlano di pensieri. Cosa che in realtà fanno tutti, anche i rogersiani e gli psicoanalisti.

In genere a questa domanda si risponde con le solite argomentazioni del paziente difficile o della relazione terapeutica. Qui però non si parla di pazienti difficili (qualunque cosa significhi questa espressione) ma di pazienti ansiosi e ossessivi in un servizio psicologico specializzato per pazienti ansiosi e ossessivi della Concordia University di Montreal dove lavora Radomsky. Di cosa stiamo parlando, allora?

Radomsky ha fatto una piccola indagine nel suo gruppo di lavoro e altrove e ha scoperto che le quattro risposte più ricorrenti alla domanda: “perché non istruisci il paziente all’esposizione comportamentale?” sono:

  • “Non mi piace rendere i miei pazienti troppo ansiosi” (I don’t like making my client feel too anxious)
  • “Preferisco la terapia integrata perché suona più carina” (I prefer integrative because it feels nicer)
  • “Non sono venuto in questo campo per far soffrire le persone” ((I didn’t go into this field to make people suffer)
  • “Se vedo che l’esposizione turba il mio paziente, ci prendiamo una pausa e parliamo delle crisi evolutive precoci” (If I see that exposure is upsetting my patient, we’ll take a break and talk about early developmental crises)
  • “Vorrei che la terapia comportale per i disturbi d’ansia non avesse così tanta esposizione” (I wish behavior therapy for anxiety disorders didn’t have so much exposure in it).

Paziente difficile? O difficoltà nostre nell’eseguire la psicoterapia cognitivo-comportamentale? Ognuno può trarne le conclusioni che vuole. Si può pensare che hanno ragione quelli che dicono che i pazienti sono tutti difficili, che la soluzione è “integrare” gli interventi cognitivo comportamentali con interventi definiti per lo più “relazionali” e che troppo spesso corrispondono agli interventi della client-centered therapy di Rogers, ovvero delle soste supportive e accoglienti che servono a gestire la terapia in attesa che il paziente si decida ad affrontare gli interventi davvero terapeutici, e così via.

In fondo anche la risposta di Radomsky è compromissoria. Come ho scritto ieri: “visto che l’esposizione comportamentale è una delle nostre bestie nere (è tanto più bello chiacchierare col paziente della sua storia personale) Radomsky suggerisce di inserire negli interventi di esposizione degli aspetti rassicuranti che mantengano in parte quei safety behaviours che lo aiutano a controllare l’ansia, chiamandoli supportive approaches.” Aspetti rassicuranti o ancora una volta una “integrazione” che annacqua? Oppure si tratta di una posizione inevitabilmente di attesa supportiva che rientra nella good practice. Possibile, ma chiamiamola col suo nome: attesa supportiva e non terapia.

I dati di efficacia della terapia metacognitiva

Secondo Adrian Wells questa tendenza integrativa è però una vera deriva che sta deteriorando l’efficacia della psicoterapia cognitivo-comportamentale. Wells nella sua presentazione dal provocatorio titolo “Metacognitive Therapy: is more effective than other therapies?” parla anche di questo. Prima parla però del suo modello metacognitivo, che abbiamo già illustrato altrove. Wells racconta poi i dati di efficacia della terapia metacognitiva e, un po’ come era accaduto il giorno prima per Arnzt con la Schema Therapy, sono dati impressionanti. La terapia metacognitiva mostra un concreto e significativo incremento di efficacia su tutti i disturbi di elezione della terapia cognitivo comportamentale: Disturbo d’ansia generalizzata, depressione maggiore, fobia sociale, disturbo ossessivo compulsivo e disturbo post-traumatico da stress. L’efficacia passa una un 60% della psicoterapia cognitivo comportamentale a un 80% di remissioni per il disturbo d’ansia generalizzato e, ancor più impressionante, da un 25% della psicoterapia cognitivo comportamentale per il disturbo ossessivo compulsivo (eh si, va detto: la psicoterapia cognitivo comportamentale funzionicchia ma non fa sfracelli con gli ossessivi; meglio che niente, certo, visto che tutto il resto non funziona per niente) a un abbagliante 75%. Dati da confermare nella pratica reale? Vero. Gli studi di Wells però sono numerosi e robusti e devo confessare che la mia pratica clinica personale conferma queste cifre.

Adrian Wells - EABCT 2017 Ljubljana
Adrian Wells

 

Ciò che conta nella presentazione di Wells è però altro. Wells mostra anche altri dati in cui paragona interventi cognitivi, metacognitivi e “integrati” che combinano interventi vari in sequenza. Ebbene, le prestazioni peggiori sono degli interventi “integrati”. Questo dato presta a Wells l’occasione per una tirata appassionata contro l’ecclettismo e la terapia integrata, a suo dire all’origine della crisi della stessa psicoterapia cognitivo-comportamentale. Troppi, dice Wells, di fronte alle difficoltà di esecuzione della psicoterapia cognitivo-comportamentale si rifugiano in un facile eclettismo travestito da psicoterapia integrata. Rifugio non innocuo che deteriora la qualità della diffusione della pratica cognitivo-comportamentale tra gli operatori.

Quale sia il futuro, non è facile a dirsi. Questo congresso ha mostrato audacia, invitando Hayes e Wells dopo anni di assenza. Molte nuove terapie mostrano efficacia significativa (Schema Therapy e Terapia Metacognitiva). La psicoterapia cognitivo-comportamentale presenta una crescente crisi nella qualità della sua esecuzione tra gli operatori che ci fa porre domande sulla qualità dei training e delle supervisioni. Le risposte classiche sono sempre state di integrare con gli aspetti relazionali o, peggio, dei fattori comuni alla Lambert che nascondono un sostanziale annacquamento e una distorsione nella concezione dei pazienti, troppo facilmente tacciati di essere difficili.

La soluzione non può essere: visto che non riusciamo a farla, annacquiamola. E nemmeno può essere il sostenere che ciò che conta è la concettualizzazione cognitivo-comportamentale del caso mentre la tecnica viene dopo. Ovvero: limitiamoci a descrivere cognitivamente il paziente. La verità è che la concettualizzazione è l’unica cosa che i terapisti cognitivo-comportamentali ancora fanno bene mentre il problema è quello che si fa dopo. È dopo la concettualizzazione che si inizia a non fare (sottolineo: a non fare) la terapia cognitivo-comportamentale.

Judith Beck e la CBT per i disturbi di personalità

Altre presentazioni interessanti della giornata sono state quelle di Judith Beck (di cosa stavamo parlando? De te fabula narratur) che parla dei disturbi di personalità e della loro nota difficoltà di ingaggio nel contratto terapeutico. Beck ripropone il modello cognitivo-comportamentale riportando le credenze dei vari pazienti e proponendo di applicare queste concettualizzazioni alle loro difficoltà di ingaggio, analizzandole nei termini delle loro stesse credenze e sviluppando una buona alleanza terapeutica attraverso tecniche di validazione di derivazione rogersiana e gestendo il proprio disagio analizzandolo cognitivamente.

Judith Beck - EABCT 2017 Ljubljana
Judith Beck

Nulla di nuovo, la validazione rimane lo strumento principe della gestione del paziente difficile, non si discute. Rimane il dubbio che la validazione, utilizzata al di fuori dell’alveo teorico della terapia dialettico comportamentale di Marsha LInehan e “integrata” nella terapia cognitivo-comportamentale perda il suo senso clinico e diventi solo un modo per gestire un paziente recalcitrante. Sarà questa la “integrazione” sbagliata di cui parla Wells e che fa diminuire l’efficacia della psicoterapia cognitivo-comportamentale?

L’applicazione rigorosa delle procedure EMDR

L’ultima presentazione a cui assisto è quella di un simposio del gruppo di ricerca di Isabel Fernandez sulla EMDR (eye movement desensitization and reprocessing), procedura di terapia specifica per il trauma. I pregi e i problemi della EMDR sono noti: è una tecnica efficace per il trauma ma non si conosce bene il suo meccanismo di funzionamento e spesso è applicata indiscriminatamente a pazienti non traumatizzati.

EMDR Simposio - EABCT 2017 Ljubljana

Il gruppo di Fernandez presenta una interessante ipotesi neurologica basata su dati di neuro-imaging sul funzionamento della EMDR. Seguono poi delle illustrazioni cliniche sulle applicazioni della EMDR. Ciò che colpisce nella EMDR, al di là degli aspetti neurologici e clinici sui quali ho scarsa competenza, è la sua rigorosità di applicazione, l’enfasi che vien posta sulla fedeltà della sua esecuzione. Insomma, non ci sono cedimenti a ecclettismi o contaminazioni. Forse questo spiega parte del suo successo. Insomma, questo congresso ci dice che la psicoterapia cognitivo-comportamentale deve affrontare il problema dell’aderenza.

Si parla di:
Categorie
SCRITTO DA
Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

Tutti gli articoli
CONSIGLIATO DALLA REDAZIONE
ARTICOLI CORRELATI
Che cos’è una revisione sistematica. Il metodo PRISMA

Cosa sono le revisioni sistematiche e perché sono importanti per la ricerca scientifica e per la nostra società

La WISC-V arriva in Italia

24 novembre 2023, Firenze: l'evento alla scoperta della 5ª edizione italiana della Wechsler Intelligence Scale for Children

WordPress Ads
cancel