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Cosa faccio in terapia: il ragionamento prima delle tecniche – Roberto Lorenzini su Trauma e Relazione Pt. 2

Prosegue la discussione "Trauma e Relazione" sulle pagine di State of Mind: il secondo contributo di Roberto Lorenzini è sulla pratica della psicoterapia

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 19 Lug. 2017

Aggiornato il 20 Lug. 2017 15:09

Proseguo il ragionamento dell’articolo con cui ero intervenuto nel dibattito su trauma e relazione. Avevo concluso parlando di cosa faccio in terapia e di come io tema che un certo patrimonio clinico si possa perdere, schiacciato sotto il peso di nuovi protocolli e nuovi paradigmi. Qualcosa che precede la scelta della tecnica di intervento ed è una teoria esplicativa complessiva dell’intero caso frutto del ragionamento clinico sul e con quello specifico paziente.


Il dibattito su Trauma e Relazione Terapeutica:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017
  6. La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini – 17 Luglio 2017

Quando ho di fronte un paziente o più in generale una persona cerco di seguire attraverso la traccia delle sue parole il filo del suo ragionamento. Naturalmente nel farlo anche io ragiono e da questo mio ragionare scaturiscono domande, attenzioni, atteggiamenti che a loro volta influenzano il dipanarsi del filo del ragionamento dell’altro. È questa la famosa relazione terapeutica non solo conforme alle indicazioni di Monsignor della Casa, questo tanto per ripulire il bordo del vaso su cui qualche entusiastico schizzo era pur finito. I fili dei due ragionamenti si intrecciano, si intessono e si influenzano l’un l’altro. Normalmente al termine sono abbastanza in grado di descrivere il ragionamento dell’altro e molto meno il mio perché evidentemente mi do per scontato, mi sembra naturale, ovvio e non ci bado, non è un oggetto esterno ma il soggetto descrittore stesso. Siccome invece è parte fortemente in gioco, a meno che non ci si accontenti di annotare liste di sintomi atti a soddisfare criteri con mentalità da collezionista di figurine attenta solo al “ce l’ho, mi manca” mi sforzo di immaginare di essere un omuncolo seduto sul bordo interno della soffice circonvoluzione frontale sinistra con i piedi che pencolano sopra il corpo calloso e di osservare cosa mi dice il mio cervello mentre cerca di capire cosa diavolo il cervello dell’altro dice a lui. Provo a seguire il ragionamento che faccio.

Indagare il sintomo in psicoterapia

Intanto definisco sintomo un comportamento o una emozione che il soggetto stesso ritiene inadeguato, sgradevole e di cui vorrebbe liberarsi. Insomma rispetto al quale ha sviluppato un problema secondario, come dicevamo un tempo.

Dopo averne indagato la pervasività e le varie forme che assume nei diversi ambiti esistenziali (la gravità) mi chiedo: “a cosa serve? quale risultato vuole ottenere o pericolo scongiurare?” E lo faccio più facilmente se vado a ricostruire in quali circostanze il sintomo è nato (scompenso ed esordio) prima di diventare col tempo un’abitudine automatica.  Continuando ad approfondire questa indagine sulla sua utilità (quello che un tempo si chiamava laddering) cerco di identificare gli scopi disfunzionali e terminali -o antiscopi, come a me piace chiamarli- che organizzano l’esistenza del soggetto.

Il sintomo acquista così significato nel contesto della vicenda esistenziale della persona, dei suoi valori e piani di vita. Fin qui cerco di dare un senso, un significato a ciò che agli stessi occhi del paziente appariva insensato, ascopico, estraneo a sé e come tale fuori dal suo controllo, mentre in realtà si tratta di un’espressione che persegue o salvaguarda qualcosa di molto importante per lui. Il paziente collabora volentieri perché ci si occupa direttamente del sintomo che lo tormenta e perché il capirne il senso lo fa sentire meno matto. Una seconda fase che potremmo dire essere la prova del nove, la verifica della prima,  parte sempre dal sintomo ma per indagare i motivi per cui gli dia tanto fastidio. Insomma le ragioni del problema secondario ognuna delle quali va indagata con la stessa tecnica precedente, il laddering.

Anche in questo caso si arriverà per una via diversa a definire  gli scopi disfunzionali e terminali e gli antiscopi del soggetto, insomma il suo panorama esistenziale, il perché e il come sta al mondo e come mai gli dia fastidio. A questo punto si potrà riconsiderare il sintomo come uno scopo strumentale (strategia) in conflitto con altri scopi strumentali i quali magari perseguono lo stesso scopo o antiscopo terminale, una strategia difettosa che ha complessivamente costi troppo elevati, spesso dallo stesso punto di vista di quegli scopi che cerca di perseguire. Insomma non funziona o, più spesso, non funziona bene ma comunque un po’ funziona e non avendo nulla di meglio non la si può abbandonare. Compreso il senso e l’utilità del sintomo pur continuando ad avvertirne il disagio, tento una operazione di normalizzazione dello stesso che riduca il problema secondario, principale motore da un lato del cambiamento ma anche, dall’altro, della sofferenza  che ha l’effetto dannoso di far percepire la situazione come emergenziale riducendo la disponibilità ad abbandonare gli antichi e sperimentati modi di fare per provarne di alternativi.
Quanto si cambia in terapia?

Ho imparato e insegnato che gli scopi esistenziali che organizzano l’esistenza sono in parte genetici e in parte di origine culturale, familiare ed esperienziale ed il loro cambiamento è opera ardua prefigurando una rivoluzione del paradigma, per dirla con Kuhn, esistenziale e quando ciò avviene siamo di fronte a vere e proprie rare conversioni. Ancorché molto difficili da ottenere, il più delle volte non c’è alcuna richiesta ne volontà di affrontarle. Questo dunque è un livello di cambiamento in cui raramente mi avventuro per incompetenza e timore di tentazioni da guru accontentandomi di una ristrutturazione che elimini la sofferenza con il minimo cambiamento possibile, cosa che mi sembra peraltro una forma di rispetto dell’unicità dell’altro.

Anche le strategie di perseguimento degli scopi o di evitamento degli antiscopi sono apprese, in genere precocemente e nel contesto familiare. Allora faccio notare al paziente come esse si siano dimostrate in passato adattive e addirittura decisive per la sopravvivenza nel contesto di apprendimento della famiglia d’origine, ma oggi in un contesto diverso siano invece disfunzionali e si siano trasformate in sintomi, qualcosa che mette in atto perché ha sempre fatto così, non accorgendosi che se prima funzionava adesso è addirittura controproducente rispetto agli stessi obiettivi per cui si era sviluppato.

La ristrutturazione cognitiva: la parte creativa della terapia

Successivamente inizia la parte per così dire creativa della terapia, la cosiddetta ristrutturazione cognitiva, che per semplicità distinguo in due livelli. Il primo consistente nell’elaborazione di nuove strategie compatibili comunque con i vincoli intrapsichici, interpersonali e contestuali attuali, attaccando solo quelli che rappresentano un rinforzo e un mantenimento del sintomo. Si tratta di  riscoprirle nel proprio patrimonio comportamentale di cui magari in modo pur minoritario e saltuario sono state presenti in passato, oppure copiarle osservando gli altri ed in particolare quelli più vicini al soggetto come aspetto motivazionale, oppure inventarle di sana pianta. Averle identificate non basta, si tratta  di sperimentarle inizialmente in contesti protetti che ne garantiscano il successo e il rinforzo per poi progressivamente generalizzarle e ripeterle finché non sostituiscano i vecchi automatismi.

Dopo aver gattopardescamente cambiato tutto perché nulla cambi mi limito a  provare a perturbare il livello superiore dell’assetto motivazionale auspicando un processo di cambiamento da lasciare avvenire da solo in tempi lunghi e grazie alle esperienze che il soggetto vive che sono i perturbatori più significativi

Lo faccio da un lato cercando di rendere meno assoluti e doveristici gli scopi evidenziando come normalmente non comportino la realizzazione e la felicità di cui li si accredita e dall’altro considerando meno intollerabili e minacciosi gli antiscopi, rendendoli -per quanto sgradevoli-  pensabili e immaginando schemi operativi non per prevenirli ma per viverli qualora vi ci si trovasse.

 


Leggi il resto della discussione:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017
  6. La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini – 17 Luglio

 

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