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Neurodiversità: le variazioni neurali sono un ostacolo o una risorsa?

E' stato dimostrato che la neurodiversità alla base di alcuni disturbi, come l'autismo e l'ADHD, determina anche dei vantaggi e non solo deficit.

Di Sara Bocchicchio

Pubblicato il 03 Lug. 2017

Aggiornato il 03 Lug. 2019 12:42

Negli anni ’90 è nato un nuovo termine all’interno dei movimenti per i diritti delle persone autistiche: neurodiversità. Il termine fu utilizzato per la prima volta dalla sociologa australiana, con sindrome di Asperger, Judy Singer alla fine del 1990. Il suo intento era quello di spostare l’attenzione sui modi atipici di imparare, pensare ed elaborare le informazioni che caratterizzano queste condizioni invece delle solite definizioni che si soffermano esclusivamente su deficit, disturbi e menomazioni. 

Sara Bocchicchio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Neurodiversità: semplice variazione umana o segno di patologia?

Dal 1889, a Sèvres, nei dintorni di Parigi, nei sotterranei del Bureau international des poids et mesures (in italiano, ufficio internazionale dei pesi e delle misure), in una stanza blindata e sotto tre campane di vetro, si trova custodito un cilindro metallico chiamato Grand Kilo. Esso rappresenta lo standard mondiale del chilogrammo e a esso fanno riferimento tutte le bilance dei Paesi che lo impiegano come unità di misura della massa. Per quanto riguarda il cervello umano non esiste uno standard, un prototipo mondiale al quale devono essere confrontati tutti gli altri cervelli umani.

Quindi com’è possibile decidere se il cervello o la mente di un individuo è normale o anormale? Indubbiamente nel mondo psichiatrico esistono molti tentativi di classificazione dei disturbi mentali, ma quando si tratta di condizioni come l’Autismo, il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (DDAI, in inglese ADHD), la Dislessia e i Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA) sembra che vi sia una sostanziale incertezza su quale sia la soglia critica che permette di definire un comportamento con una base neurologica, come una normale variazione umana o come segno di patologia (Armstrong, 2015).

Uno dei motivi di questa ambiguità è l’emergere negli ultimi due decenni di studi che suggeriscono che molti disturbi del cervello o della mente si caratterizzano sia di punti di forza che di debolezza. Le persone con diagnosi di disturbo dello spettro autistico, ad esempio, sembrano avere punti di forza legati al lavoro con i sistemi informatici (ad esempio, i linguaggi di programmazione e i sistemi matematici) e si rilevano migliori rispetto a soggetti non autistici nell’individuare piccoli dettagli in modelli complessi (Baron-Cohen et al., 2009). Inoltre, ottengono punteggi significativamente migliori nel test di intelligenza logico-matematico Matrici di Raven rispetto a quelli ottenuti alla Wechsler Adult Intelligence Scale (Mottron, 2011).

Uno dei risvolti pratici di queste particolari abilità è rappresentato dalla scelta di molte aziende che operano in ambito tecnologico di assumere persone autistiche per mansioni lavorative che richiedono abilità di organizzazione e di sequenziamento come la scrittura di manuali informatici, la gestione di database e la ricerca di errori nei codici informatici (Wang, 2014). Altri studi hanno evidenziato le notevoli abilità visuo-spaziali che possono possedere i dislessici, tra cui la capacità di individuare oggetti nascosti (Von Károlyi et al., 2003) e l’abilità di percepire informazioni visive in modo più rapido ed efficiente rispetto ai non dislessici (Geiger et al., 2008). Queste abilità possono rivelarsi molto vantaggiose in lavori che richiedono il pensiero tridimensionale, come l’astrofisica, la biologia molecolare, la genetica e l’ingegneria (Paul, 2012; Charlton, 2012).

I ricercatori hanno osservato che i soggetti con Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (DDAI) possiedono livelli di creatività e innovazione maggiori rispetto a persone di pari età e scolarità non DDAI (White & Shah, 2011). Esistono, poi, numerose testimonianze di persone che hanno raggiunto un enorme successo; tra i dislessici ricordiamo il celebre Steve Jobs che ha rivoluzionato il mondo della tecnologia e Richard Branson leader del colosso Virgin che ha definito la sua Dislessia “un vantaggio”; per quanto riguarda lo spettro autistico ricordiamo l’attore canadese Dan Aykroyd e la ricercatrice e blogger Michelle Dawson, una delle ricercatrici più importanti nell’ambito dell’autismo; per quanto riguarda il DDAI, infine, ricordiamo il famosissimo attore Jim Carrey e l’imprenditore brasiliano-statunitense David Neeleman fondatore di quattro compagnie aeree.

I vantaggi evolutivi della psicopatologia

Tali punti di forza possono spiegare da un punto di vista evolutivo il motivo per cui questi disturbi siano ancora nel pool genico. Alcuni scienziati suggeriscono che la psicopatologia talvolta può portare con sé specifici vantaggi evolutivi, nel passato, così come nel presente (Brüne et al., 2012).

Le capacità organizzative delle persone con disturbo dello spettro autistico potrebbero essersi rivelate vantaggiose e adatte alla sopravvivenza degli esseri umani preistorici. Come ipotizza in modo provocatorio un attivista appartenente al movimento per i diritti delle persone autistiche al New York Magazine nel 2008: “A realizzare la prima lancia di pietra probabilmente è stato un giovane con autismo ad alto funzionamento e non uno tra quelli con spiccate doti sociali soliti chiacchierare intorno al fuoco” (Solomon, 2008). Allo stesso modo, l’abilità di pensare per immagini e il pensiero tridimensionale evidenziati in alcuni dislessici potrebbero essere stati estremamente utili nelle culture preletterate per la progettazione di strumenti, per tracciare i percorsi di caccia e la costruzione di ripari (Ehardt, 2009).

La Dislessia e i DSA si prestano molto bene per comprendere quanto spesso questi disturbi rappresentino artefatti della società. La Dislessia non è una disabilità, ma una differenza nello stile di apprendimento. Le persone con Dislessia hanno molte difficoltà nell’apprendimento e nell’automatizzazione della lettura, pertanto, faticano nel corso degli studi scolastici in quanto la società odierna impone la lettura come unico (o quasi) strumento di apprendimento. Se pensiamo alle società preletterate, quando il sapere era veicolato soprattutto per via orale, la Dislessia non aveva modo di emergere e soprattutto non rappresentava un ostacolo alla sopravvivenza e alla riuscita personale! Infine, possiamo ipotizzare che i sintomi principali del DDAI, tra cui l’iperattività, la facile distraibilità e l’impulsività, potevano rappresentare tratti estremamente adattativi e funzionali alle società preistoriche nelle quali le abilità di caccia e di ricerca di cibo, la velocità di reazione agli stimoli ambientali minacciosi e l’abilità di muoversi rapidamente potevano contribuire allo sviluppo e alla prosperità della comunità stessa (Jensen et al., 1997).

Neurodiversità: le qualità delle persone neurodiverse

L’insieme di questi studi dovrebbe suggerire un approccio più giudizioso al trattamento di queste particolari condizioni. Una possibile soluzione potrebbe essere quella di sostituire i termini “disabilità”, “disturbo” o, peggio, “malattia” con il concetto di “diversità” che permette di tenere in considerazione sia i punti di forza che di debolezza, e abbracciando l’idea che queste “variazioni umane” possono essere vantaggiose in sé e per sé (Armstrong, 2015). A tal fine, negli anni ’90 è nato un nuovo termine all’interno dei movimenti per i diritti delle persone autistiche: neurodiversità.

Il termine fu utilizzato per la prima volta dalla sociologa australiana, con sindrome di Asperger, Judy Singer alla fine del 1990. Il suo intento era quello di spostare l’attenzione sui modi atipici di imparare, pensare ed elaborare le informazioni che caratterizzano queste condizioni invece delle solite definizioni che si soffermano esclusivamente su deficit, disturbi e menomazioni. Con questa nuova definizione la sociologa ha voluto evidenziare le attitudini, le qualità e le capacità delle persone neurodiverse con la speranza che le differenze neurologiche venissero riconosciute semplicemente come “variazioni umane”. Richiamando termini positivi, come la biodiversità e la diversità culturale, il suo neologismo ha richiamato l’attenzione sul fatto che un funzionamento cerebrale atipico può portare allo sviluppo di competenze e attitudini insolite. A proposito dei disturbi dello spettro autistico, in un’intervista rilasciata al giornalista Andrew Solomon nel 2008, Judy Singer spiega: “Mi interessava riuscire a diffondere una conoscenza delle migliori capacità di un cervello autistico in modo da ottenere, per le persone neurologicamente differenti, quello che è stato raggiunto dal movimento femminista e dal movimento per i diritti degli omosessuali” (Solomon, 2008).

Un modo per capire la neurodiversità è pensare che solo perché un computer non usa Windows come sistema operativo non significa che non funzioni correttamente. Non tutte le caratteristiche atipiche dei ‘sistemi operativi umani’ sono difetti. Il termine neurodiverso si riferisce all’organizzazione strutturale del cervello; un cervello neurodiverso possiede una struttura cerebrale atipica che implica un modo differente di elaborare le informazioni, un modo differente non patologico! Per quanto riguarda i mezzi di stampa, il termine neurodiversità fece la sua prima apparizione nel 1998 grazie ad un articolo del giornalista Harvey Blume pubblicato sulla rivista Wired Hot Wired, nella sezione Atlantic. Blume dichiarò: “la neurodiversità può essere altrettanto cruciale per il genere umano quanto la biodiversità per la vita in generale. Chi può dire quale tipo di cablaggio si rivelerà il migliore in un dato momento? La cibernetica e l’informatica, per esempio, potrebbero favorire un’organizzazione ‘autistica’ della mente“ (Blume, 1998). Assumere questa posizione aiuta a comprendere perché le persone neurodiverse sono spesso disoccupate o demansionate; le aziende sono riluttanti ad assumere lavoratori che guardano, agiscono, e comunicano in modi non-neurotipici, usando una tastiera e software di sintesi vocale per esprimere se stessi, piuttosto che chiacchierare intorno ad una macchinetta del caffè!

Da allora, l’uso del termine neurodiversità ha continuato a crescere anche al di là del movimento per i diritti delle persone autistiche, nell’ambito degli studi sulla disabilità e sulle modalità educative speciali, nell’ambito lavorativo, ma anche in ambito sanitario e nelle istituzioni pubbliche. Questo, tuttavia, è vero se prendiamo in considerazione Paesi come il Regno Unito e gli Stati Uniti, mentre in Italia la conoscenza e la diffusione del termine neurodiversità è praticamente nulla!

In questi anni di ricerche il mondo scientifico, mosso dall’esigenza di sostenere queste persone nel corso delle varie tappe di vita, si è soffermato soprattutto sugli aspetti negativi legati a queste condizioni contribuendo a diffondere l’idea che queste persone rappresentino una categoria “debole”, bisognosa di tutele e di sostegno da parte delle istituzioni. Questa visione, tuttavia, rappresenta solo un lato della medaglia. Adottare il concetto di neurodiversità potrebbe contribuire a diffondere un’idea più precisa di queste condizioni che tenga conto sia dei sui punti di forza che di debolezza e favorire, quindi, il successo e la realizzazione personale di queste persone. Essere neurodiversi non rappresenta di per sé un ostacolo al successo personale e professionale. E’ la scarsa comprensione del fenomeno e il mancato sostegno ad impedire la crescita di queste persone e ciò costituisce una perdita netta per l’intera società. E’ solo grazie alla diffusione di una conoscenza più precisa e all’intervento delle nostre istituzioni che potremo considerare queste persone non solo individui da tutelare, ma soprattutto talenti da non sprecare e l’adozione del termine neurodiversità sembra proprio un ottimo punto di partenza!

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Armstrong, T. (2015). The myth of the Normal Brain: Embracing Neurodiversity. AMA Journal of Ethics, 4 (17), 348-352.
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