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L’epistemologia dei valori nelle terapie di terza generazione

L'ACT è una terapia di terza generazione che sostiene l'importanza dei valori intesi come scelte arbitrarie che guidano le proprie azioni.

Di Guest, Andrea Compiani

Pubblicato il 20 Lug. 2017

Aggiornato il 05 Set. 2019 12:55

Oggi si parla di valori soprattutto nel contesto di quelle che oggi vengono chiamate “terapie comportamentali di terza generazione” (Hayes 2004), ma a monte di un metodo clinico che fa uso estensivo dei valori come l’ ACT (Hayes, Strosahl & Wilson 1999, 2012), ci sono una scienza di base e (ancora più a monte) un’epistemologia della scienza.

G. Presti
IESCUM, President elect dell’Association for Contextual Behavior Science

Andrea Compiani
IESCUM, psicoterapeuta docente ASCCO

 

I valori come scelte arbitrarie che guidano le nostre azioni

Partiamo dall’immagine di un mulino sulla riva di un fiume: l’acqua scorre, e fa girare la ruota del mulino. Riflettendo sugli elementi che compongono l’immagine, possiamo ben dire che il fiume giustifichi l’esistenza del mulino: i mulini si devono necessariamente costruire sui corsi d’acqua. Ma non possiamo sostenere l’opposto; cioè non possiamo dire che i fiumi nascono per far girare le ruote dei mulini. I fiumi esistono indipendentemente dai mulini.

Il rapporto che esiste tra il mulino e il fiume può servire da metafora per quello che ha detto Kurt Gödel (1962) sul rapporto che esiste tra sistemi simbolici (linguistici, matematici, ecc.) e sulle assunzioni che si devono usare per crearli. Gödel ci dice che un qualunque sistema simbolico (il mulino della nostra metafora) non può essere usato per esaminare le stesse assunzioni e gli stessi postulati che sono stati usati per crearlo (il fiume). Quanto appena detto ha a che fare con il metodo scientifico, con la psicologia, e anche con i valori. In che modo? Addentriamoci passo passo nella questione.

Gödel ci dice che per creare un sistema di simboli dobbiamo partire con delle premesse arbitrarie, e che non è possibile valutare queste premesse usando lo stesso sistema di simboli al quale hanno dato vita, così come non è possibile comprendere l’esistenza del fiume osservando il movimento della ruota del mulino.

Un concetto del tutto analogo lo ha formulato R. M. Pirsig (2011): a monte delle categorie che usiamo per comprendere il mondo c’è il criterio usato per creare le categorie, che Pirsig chiama “Qualità”. Pirsig arriva a concludere che Qualità non può essere sottoposta a definizione, in quanto si trova a monte del sistema categoriale che sarebbe necessario a definirla. Di fatto per Pirsig la Qualità è il criterio, è la fonte di definizione.

Seppur in modi diversi, sia Gödel che Pirsig ci stanno dicendo che a monte del nostro modo di comprendere e di agire ci sono delle scelte arbitrarie, e che queste scelte sfuggono ad ogni tipo di valutazione oggettiva. Per chi sa già di cosa si tratta, a questo punto il parallelo con i valori diventa abbastanza evidente. Anche i valori sono scelte arbitrarie, cioè non giudicabili razionalmente, che l’individuo usa per orientarsi e dirigere le proprie azioni (Hayes, Strosahl & Wilson 1999).

L’epistemologia dei valori nelle terapie di terza generazione

Come in un frattale, vediamo la stessa struttura “premesse-sistema valutativo” ripetersi su livelli differenti, ma dobbiamo fare molta attenzione a non fare confusione tra questi livelli.

Oggi si parla di valori soprattutto nel contesto di quelle che oggi vengono chiamate “terapie comportamentali di terza generazione” (Hayes 2004), ma a monte di un metodo clinico che fa uso estensivo dei valori come l’ ACT (Hayes, Strosahl & Wilson 1999, 2012), ci sono una scienza di base e (ancora più a monte) un’epistemologia della scienza.

Il lavoro clinico sui valori (livello di scienza applicata) deriva da una precisa teoria (livello di scienza di base) che è stata a sua volta costruita a partire da alcune premesse (livello epistemologico). Senza questa fondamentale distinzione, il rischio è di scambiare i valori per una delle molte “teorie”, o peggio per una delle molte “tecniche”, che oggi ingombrano i percorsi di formazione degli psicologi e degli psicoterapeuti.
Per comprendere che cosa siano i valori in un clima di chiarezza, proviamo a partire dal livello più alto, ovvero quello epistemologico.

Il fiume epistemologico che alimenta l’ ACT e la teoria da cui nasce si chiama contestualismo funzionale (Moderato & Ziino 1994; Anchisi, Moderato & Pergolizzi 2017;). Gli elementi del contestualismo funzionale che vogliamo evidenziare qui sono soprattutto due: l’oggetto di studio e il criterio di verità.

L’oggetto di studio è il comportamento nel suo contesto. In altre parole ciò che viene preso in considerazione non è un atto isolato, quindi classificato in base alla sua forma (ad esempio, un insulto), ma la relazione di questo atto con il contesto che lo circonda (ad esempio, un insulto dato su un palcoscenico seguendo un copione). Il comportamento viene di fatto definito dalla sua relazione col contesto, e questa relazione è anche conosciuta come funzione.
Il criterio di verità, cioè il metro di giudizio necessario a decidere che cosa comprendere all’interno di una teoria e che cosa no, nel nostro caso è pragmatico e quindi legato a uno scopo: è vero ciò che funziona.

Il secondo livello di cui è necessario parlare per arrivare ai valori è quello della scienza di base, cioè il livello del sistema teorico (di cui B.F. Skinner è stato iniziatore) che nel nostro caso descrive le relazioni tra comportamento e contesto (Chiesa 1992). Tutta la terminologia della tradizione comportamentista, (rinforzatore, operante, stimolo discriminativo, generalizzazione, operazioni motivazionali ecc.) nasce a questo livello. Qui le premesse sono costituite dalla scienza e dal suo metodo, che nel caso della psicologia si traducono nello scopo di prevedere e influenzare il comportamento.

In altre parole, per una teoria psicologica scientifica contestuale, il metro col quale costruire e valutare il proprio sistema di categorie è costituito dalla sua capacità di agire efficacemente sulla realtà che intende studiare; cioè, non si interroga su che cosa esista (l’approccio funzionale è “a-ontologico) ma si interroga su cosa funziona.

È proprio a qui, a livello della scienza di base, che il lavoro di Sidman sulle relazioni di equivalenza (Sidman, 1971) e la nozione di risposta derivata ha fatto sentire i suoi effetti, perché è partendo dai risultati di queste ricerche che è stato possibile formulare una teoria di matrice contestualista e funzionale su cognizione e linguaggio oggi nota come Relational Frame Theory (RFT; Hayes, Barnes-Holmes & Roche, 2001; Presti & Moderato 2014) che ha raccolto e perfezionato il lavoro Skinner sul comportamento verbale (Skinner 1957).

I valori: in cosa consistono e come funzionano?

Ma torniamo alla questione centrale: i valori. Che cosa sono i valori, dal punto di vista dei processi di funzionamento? Che cosa stava accadendo a Viktor Frankl quando decise di non fuggire dal campo di concentramento in cui era prigioniero per assistere i compagni di prigionia, pur sapendo di non avere alcuna possibilità di salvarli? Oppure, che cosa spinse Henry David Thoreau a isolarsi dalla sua comunità per vivere in eremitaggio in riva al lago Walden? O più in generale, che cos’è che spinge le persone a cercare uno scopo per la propria vita e a perseguirlo una volta trovato, anche a carissimo prezzo?

La cassetta degli attrezzi adatta per esplorare l’argomento senza tradire le nostre premesse epistemologiche (il contestualismo funzionale) ce la fornisce la Relational Frame Theory (Hayes, Barnes-Holmes & Roche, 2001; Presti & Moderato 2014). Il principale merito della RFT è quello di descrivere con linguaggio operazionale quella straordinaria capacità umana di tradurre il mondo fisico in concetti, per poi interagire con essi prima che col mondo reale, che chiamiamo “pensiero”. Dal punto di vista dei processi, quello che viene descritto dai valori non è altro che un felice e particolarissimo caso di rule following, o come diceva Skinner, di comportamento governato da regole. Diciamo “particolarissimo” perché il comportamento governato da regole è anche uno dei principali processi responsabili della sofferenza psicologica (Hayes, Strosahl & Wilson 1999, 2012), in quanto rende la condotta dell’individuo impermeabile alle contingenze dirette (Hayes, Brownstein, Zettle, Rosenfarb, & Korn, 1986). Tale comportamento “insensibile” è funzionale in alcuni contesti (ad esempio se dobbiamo evitare di prendere una scossa seguendo l’indicazione sul cartello “chi tocca i fili muore”) e disfuzionale in altri, in cui può favorire il mantenimento di comportamenti maladattivi o autodistruttivi (“non sono abbastanza magra”). In termini tecnici RFT questo tipo di regole viene chiamato “pliance” e sono regole che vengono apprese perché sostenute dal contesto sociale.

Ma al di là e a monte di quello che può essere “il lato oscuro del linguaggio”, dobbiamo anche prendere atto che gli esseri umani possiedono la capacità di usare in modo adattivo i propri pensieri, capacità nata per potersi muovere in un mondo dove le conseguenze dirette del comportamento non sono sempre certe, immediate, percepibili o prive di pericoli (Hayes, Barnes-Holmes & Roche, 2001; Hayes, Strosahl & Wilson 1999). In tali situazioni, incerte e poco definite, i valori diventano una bussola da utilizzare. Senza scendere troppo nei particolari tecnici, dal punto di vista della RFT e della scienza di laboratorio che ne ha ispirato lo studio e la descrizione, i valori sono regole definite “augmenting”, che hanno cioè la proprietà di modificare il significato delle conseguenze di un comportamento.

Da qui scaturisce anche il terzo livello e ultimo livello di analisi al quale vogliamo sottoporre i valori, quello della scienza applicata, che per gli psicologi equivale a dire “metodo clinico”. Ed è solo a questo ulteriore livello che si può cominciare a parlare di Acceptance and Commitment Therapy (ACT; Hayes, Strosahl & Wilson 1999, 2012) e quindi di valori in sensi stretto.

In cosa consiste l’ ACT

L’ ACT, non dimentichiamolo, è un modello di matrice comportamentista, o più precisamente è analisi clinica del comportamento. Questo significa che tutto ciò che conta è il comportamento nel senso più ampio del termine, che include l’azione ma anche la cognizione e l’affettività, e che lo scopo del clinico è quello di favorire il cambiamento proprio a questo livello.

Ma come orientare il paziente sulla direzione “giusta”? È a questo punto che i valori rivelano la loro utilità. A livello dell’applicazione clinica, i valori rappresentano le qualità che la persona vuole vivere, le cose di cui desidera occuparsi. In altre parole, i valori sono un punto cardinale ideale con il quale dare un orientamento alle azioni. Da ciò deriva che dal punto di vista della persona, un’azione non è mai giusta o sbagliata in sé, ma viene valutata in funzione della direzione che reputa importante per se stessa.

Quanto detto precedentemente per gli assunti di base di una teoria e per la Qualità, vale anche per i valori: essi sono la conseguenza di una libera scelta, e sono non giudicabili in quanto essi stessi sono la fonte del metro di giudizio. Dal punto di vista soggettivo, nella migliore delle ipotesi i valori dovrebbero essere il criterio con il quale le persone danno significato alla propria vita e prendono decisioni. Non è a caso che, come testimoniato dal citatissimo Viktor Frankl (1967) e da molti altri (si veda ad esempio Thoreau, 2005), è quando persegue i propri valori che la persona avverte la propria esistenza arricchirsi di un “senso”.

Quando invece la condotta della persona è asservita ad altri scopi in modo preponderante (ad esempio compiacere gli altri, sperimentare un minor grado di ansia, o allontanare i pensieri intrusivi), ecco che si genera quel senso di blocco, o di perdita di significato, che può portare alla richiesta di un aiuto professionale, o peggio. Quindi i problemi non nascono per colpa dei valori, ma per le condotte che le persone adottano; specularmente, la qualità della vita delle persone non è garantita dai valori (per quanto buoni possano sembrare), ma dalla capacità delle persone di orientare i propri comportamenti verso di essi. In altre parole, quello che veramente conta è l’azione.

Per questa ragione gli autori dell’ ACT dichiarano apertamente che “tutte le tecniche ACT sono subordinate allo scopo ultimo di aiutare la persona a vivere in linea con i propri valori. In tal senso, i classici interventi ACT di accettazione e defusione sono da considerarsi solo secondari”. (Hayes, Strosahl & Wilson 1999, pag. 205).

Quindi possiamo dire che i valori diventano l’elemento Qualitativo (nel senso inteso da Pirsig) col quale leggere l’andamento della terapia e orientare le azioni del paziente. Quando tutto va bene, i valori sono gli occhiali attraverso i quali la persona, clinico o paziente che sia, guarda e giudica la propria vita. Ci asterremo in questa sede dallo stilare una lista di tecniche o suggerimenti su come esplorare i valori del cliente e aiutarlo ad intraprendere un’azione che vada in quelle direzioni, poiché l’argomento è stato trattato già estesamente in altre sedi (Hayes, Strosahl & Wilson 1999, 2012; Dahl et al. 2009).

Per concludere, possiamo affermare che quando parliamo di valori, non ci riferiamo a una particolare tecnica, e nemmeno a una particolare teoria psicologica; l’ ACT non ha “inventato” i valori, ma ha descritto un processo che accompagna l’essere umano fin dai tempi in cui ha acquisito la capacità di parlare e di pensare. Possiamo dire che grazie ai valori, e grazie al linguaggio di cui i valori sono fatti, gli esseri umani si sono guadagnati la libertà di scegliere, andando al di là delle contingenze immediate, stabilendo per se stessi le regole del gioco e dandosi una direzione, arrivando a perseguire mete ben al di là dell’orizzonte visibile.

Chiudiamo dicendo che i valori descrivono una fondamentale e basilare facoltà di libera scelta, grazie alla quale le persone conferiscono “Qualità”, senso e direzione alla propria vita. Una parte del lavoro della psicoterapia consiste nel restituire alla persona questo senso di direzione, riportandola a contatto con il fiume che alimenta il mulino del suo agire.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Anchisi, R., Moderato, P., Pergolizzi, F. (2017). Roots and Leaves. Radici e sviluppi contestualisti in psicoterapia comportamentale e cognitiva. Milano: FrancoAngeli.
  • Chiesa, M. (1992). Radical behaviorism and scientific frameworks: From mechanistic to relational accounts. American psychologist, 47(11), 1287.
  • Dahl, J., Lundgren, T., Plumb, J., & Stewart, I. (2009). The Art and Science of Valuing in Psychotherapy: Helping Clients Discover, Explore, and Commit to Valued Action Using Acceptance and Commitment Therapy. New Harbinger Publications.
  • Frankl, V. E. (1967). Uno psicologo nei lager. Edizioni Ares.
  • Gödel, K. (1962). On formally undecidable propositions of Principia Mathematica and related systems. New York: Basic Books.
  • Hayes, S. C., Brownstein, A. J., Zettle, R. D., Rosenfarb, I., & Korn, Z. (1986). Rule- governed behavior and sensitivity to changing consequences of responding. Journal of the Experimental Analysis of Behavior, 45, 237–256.
  • Hayes, S. C. (2004). Acceptance and commitment therapy, relational frame theory, and the third wave of behavioral and cognitive therapies. Behavior Therapy, 35, 639-665.
  • Hayes, S.C., Strosahl, K.D., & Wilson, K.G. (1999). Acceptance and Commitment Therapy: An experiential approach to behavior change. New York: Guilford Press
  • Hayes, S.C., Barnes-Holmes, D., & Roche, B. (2001). Relational Frame Theory: A Post-Skinnerian account of human language and cognition. Springer US.
  • Hayes S.C., Strosahl K.D., Wilson K.G. (2012). Acceptance and Commitment Therapy: the process and practice of mindful change. New York: Guilford Press.
  • Moderato, P., Ziino, M.L. (1994) L’evoluzione del paradigma comportamentista: dal meccanicismo al contestualismo. Archivio di Psicologia, Neurologia e Psichiatria, LV, 1-2.
  • Pirsig, R. M. (2011). Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. Adelphi.
  • Presti G. e Moderato P. (2014).  Dalla discriminazione alla risposta relazionale arbitraria: gerarchie di apprendimenti di risposte di complessità crescente In Airenti G., Cruciani M., Di Nuovo S., Perconti P., Plebe A. (Eds.) Nuove frontiere delle scienze cognitive: interdisciplinarità e ricadute applicative. EUNO Edizioni: Leonforte (EN), 2014, pp. 60-62
  • Sidman, M. (1971). Reading and auditory-visual equivalences. Journal of Speech, Language and Hearing Research, 14(1), 5-13
  • Skinner, B. F., (1957), Verbal Behavior, Appelton-Century-Crofts, New York. Thoreau, H. D. (2005). Walden. Vita nel bosco. Donzelli Editore.
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