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Dibattito su Trauma e Relazione: intervento di Giancarlo Dimaggio

Dimaggio inteviene nel recente dibattito su Trauma e Relazione terapeutica in psicoterapia cogntiva e cognitivo-comportamentale

Di Giancarlo Dimaggio

Pubblicato il 24 Lug. 2017


Il dibattito su Trauma e Relazione Terapeutica:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017
  6. La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini – 17 Luglio 2017
  7. Cosa faccio in terapia: il ragionamento prima delle tecniche – Roberto Lorenzini Pt. 2 – 19 Luglio 2017
  8. Monsignor Della Casa e la relazione terapeutica – Roberto Lorenzini Pt. 3 – 20 Luglio 2017
  9. Una relazione è un fatto, ma anche un fatto è una relazione – di Angelo Inverso – 21 Luglio 2017

Sassaroli, Caselli e Ruggiero nel loro post in cui vedevano il trauma aggirarsi per il mondo psicoterapeutico allo stesso modo in cui il comunismo gettava ombre sull’Europa, hanno detto un paio di cose sulla relazione terapeutica che il mondo cognitivista italiano non ha, come dire, preso benissimo.

Qui le loro affermazioni.

Giovanni Fassone, Benedetto Farina, Fabio Monticelli, Bruno Bara, Cecilia La Rosa, Tullio Scrimali e altri, e il sottoscritto per primo, hanno contestato, chi in modo più gentile, chi meno (io appartengo alla categoria: “chi meno”) le loro affermazioni.

Vien da dire che se la sono cercata, suvvia, mica si può scrivere che: “Una buona relazione è un fatto, non un metodo da seguire o una strategia da costruire. Possiamo imparare a non rovinare una relazione (si chiama: buona educazione) ma non possiamo far diventare buona una relazione appena passabile. Oppure un metodo c’è: lavorare bene. Ma per fare questo non abbiamo bisogno di mille teorie sulla relazione”. e poi aspettarsi festeggiamenti. D’altra parte non credo che Sassaroli e colleghi se li aspettassero.

In un post successivo i tre di Studi Cognitivi cercano di argomentare un po’ meglio, diciamo che mirano a un taglio più scientifico nel loro argomentare, con l’intento, immagino, di correggere la grossolanità – mi si perdoni la durezza del termine, ma non riesco a trovarne uno più gentile che traduca il concetto – delle loro affermazioni. Resto dell’idea che definire la relazione terapeutica come “un fatto” e “buona educazione” non siano frasi che si possano trascurare e che se le hanno scritte in quel modo le pensavano in quel modo e le applicano clinicamente di conseguenza. Comunque Sassaroli e colleghi approfondiscono l’argomento qui.

Replico, andando per punti. Gli autori sostengono: “… la ricostruzione [di strutture psichiche non funzionanti a causa di traumi] avverrebbe soprattutto in una  relazione -beninteso una relazione professionalmente terapeutica- e questo perché a sua volta la fase in cui nel passato le funzioni ora deficitarie del paziente avrebbero dovuto svilupparsi fu soprattutto una fase relazionale; insomma una relazione di sicurezza, protezione e contenimento con figure significative per la crescita, una relazione –alla Winnicott, ma anche alla Farina e Liotti (2011)- di cooperazione.”

Tutta qui la descrizione di relazione terapeutica? Così semplicistica? Un riduzionismo che a me imbarazza. Lavorare sulla relazione terapeutica richiede molte più operazioni. Ad esempio: identificare gli schemi interpersonali del paziente. Valutare se li stia applicando al terapeuta. Identificare gli schemi interpersonali del terapeuta. Valutare se li stia applicando al paziente (sì, esatto, succede, i terapeuti, anche cognitivisti, non agiscono mai nella neutralità tecnica). Capire se questo dà informazione che arricchisca la formulazione del caso. Capire se l’applicazione dello schema previene l’applicazione di successo delle tecniche. Decidere in che modo intervenire: farlo notare al paziente? Fare uno svelamento? Modulare la propria reazione da parte del terapeuta per evitare di far danno? Effettuare uno svelamento? Metacomunicare?

In sintesi, lavorare sulla relazione terapeutica non è semplice reparenting. Mi spiego con un esempio. Un paziente sta rimuginando sul proprio senso di inadeguatezza, cosa nella quale crede molto e che lo intristisce. Il nostro bravo terapeuta cognitivista di origine Beckiana o REBT, ma che conosce bene bene Wells, gli sta spiegando cosa è il rimuginio e gli fornisce tecniche per interromperlo. L’idea è che questo lo dovrebbe fare stare bene. Il paziente reagisce male, si arrabbia col terapeuta, si sente svalutato, incompreso, non vuole applicare le tecniche. Succede spesso, vero? Quale può essere la spiegazione? Ne offro una, osservata in tanti pazienti: quella persona viene da uno stile di attaccamento dismissing: quando esprimeva il malessere i genitori lo sottovalutavano e gli dicevano di non pensarci, di non lagnarsi e di essere un bravo ometto. E di solito erano lontani, indisponibili, freddi. Risultato: il paziente leggeva la proposta del terapeuta di liberarsi del rimuginio con un po’ di tecniche come: “Anche il terapeuta non ha voglia di ascoltare il mio dolore e si vuole liberare di me prima possibile”. Questo genera in lui o in lei senso di abbandono e rabbia conseguente. Se il terapeuta non affronta prima questa impasse relazionale, Wells può andare a farsi friggere. Il punto qui non è, non solo, l’esperienza emozionale correttiva. Il terapeuta non deve accudire il paziente per dargli l’affetto che non ha mai avuto. Deve uscire dalla ripetizione dello schema che gli impedisce di essere letto dal paziente in un modo benefico e che permetta l’applicazione di una tecnica. Il terapeuta che ha letto Safran e Muran, che conosce i sistemi motivazionali interpersonali, che è allenato a lavorare sulla regolazione terapeutica sa fare un intervento del genere. Un terapeuta che scrive che la relazione terapeutica è una questione di buona educazione non lo sa fare, e quindi non cura il paziente. Semplice e lineare.

Oppure, caso classico: un paziente è affetto da disturbo ossessivo, con prevalente rimuginio. Può essere sulla salute, su un acufene e via dicendo. La terapeuta lavora sul rimuginio secondo protocollo, mettiamo, in stile Studi Cognitivi (si veda il recente libro di Caselli, Ruggiero e Sassaroli, Rimuginio, per altro scritto con grande chiarezza e ricco di buone dritte cliniche). Il paziente però ha anche un disturbo narcisistico di personalità e, guarda caso, inizia a corteggiare la terapeuta e magari se ne innamora. Ohi, succede! Mica è una roba rara, ho supervisionato almeno tre colleghe nelle ultime settimane che mi hanno portato questo problema. E in tutti e tre i casi ho insistito perché portassero l’innamoramento di transfert, o il tentativo di seduzione se preferiamo, al centro del discorso. E in tutti e tre i casi i pazienti sono stati in grado di essere espliciti in quello che provavano, capire in parte perché lo facevano e trasformare, anche abbastanza rapidamente, una relazione seduttiva in una relazione in cui stimavano la terapeuta. Per fare questa operazione però ho dovuto condividere con le colleghe una teoria sulla regolazione della relazione terapeutica. Che avrebbe fatto un terapeuta ortodosso di Studi Cognitivi che segue il paradigma strettamente cognitivista delineato da Sassaroli, Caselli e Ruggiero secondo cui non abbiamo bisogno di teorie sulle relazione perché questa è, semplicemente, un fatto? Mi permetto di avanzare un’ipotesi che gli autori naturalmente possono contestare, visto che solo speculando su quello che avrebbero fatto. O avrebbero trascurato il problema invitando il paziente a lavorare sul suo vero problema, quello sintomatico, e non interferire con un corteggiamento inappropriato, e così facendo avrebbero contribuito a mantenere o aggravare il problema e magari causare il drop-out. Oppure avrebbero lavorato sulla relazione terapeutica, ma in modo casuale, visto che affermano che non c’è bisogno di teorie sulla relazione terapeutica, immagino né teorie su perché e percome si formi, né tantomeno teorie sulla tecnica relazionale. In altre parole si sarebbero mossi o secondo buon senso, ovvero non da scienziati, oppure avrebbero preso in prestito teorie di altri perché gli servivano ma senza ammetterlo. Oppure mi sbaglio io a fare tale inferenza, ma nel caso gli autori mi risponderanno.

Ancora: “Farina e Liotti (2011) hanno sempre insistito sul carattere di cooperazione della relazione terapeutica, quasi a evitare un eccessivo appiattimento sul transferale riproporsi in terapia del good enough mothering di Winnicott”. Ma scusate, dopo Winnicott, e a parte un po’ di cenacoli veteropsicoanalitici, c’è qualcuno che pensa che la relazione terapeutica sia tutto fare la madre sufficientemente buona e cooperare? Un paziente può attivare con il terapeuta schemi legati al rango: sottomissione e dominanza, attaccamento in tutte le sue forme disfunzionali, può stare in seduta con la paralisi dell’agency (passività) e fare sentire il terapeuta obbligato ad agire e allo stesso tempo impotente. E per districarsene bisogna fare un assessment attento dello schema e tirarsene fuori e poi trovare il modo di comunicare al paziente che ci sono schemi problematici in atto e non una relazione problematica nella realtà, come dato di fatto incontrovertibile.

Ma, seguendo i timori (forse con aspetti rimuginatori) di Sassaroli, Caselli e Ruggiero: può essere che chi fa questo lavoro non segua i protocolli, è un arruffone, non sia bravo cognitivista aderente al manuale delle Giovani Marmotte di Terza Generazione? Se uno leggere la letteratura non ha ragione di avere questi timori. Safran e Muran hanno descritto procedure dettagliate per regolare la relazione terapeutica e superare le rotture, ed esistono vari studi di task analysis che spiegano come intervenire passo dopo passo, dal riconoscimento della rottura alla sua riparazione, si vedano Aspland et al. 2008 Bennett et al., 2006 Dimaggio et al., 2010).

E si sa il lavoro di riparazione delle rotture è collegato all’outcome, si veda Gersh e colleghi (2017) E accade continuamente anche in CBT nel disturbo borderline, si veda Cash e colleghi (2014). Perché mai allora Sassaroli e co. devono dare un resoconto così caricaturale del lavoro relazionale?

Uso un termine forte come caricaturale a causa di affermazioni come queste, in cui gli autori affermano che chi lavora sui traumi prima mira a ricostruire buone relazioni e poi accadrebbe che: “L’intervento di cambiamento dei meccanismi cognitivi è posticipato, se necessario, come ultima tappa di un lavoro realizzato in buona parte altrove, ovvero nella relazione e nella costruzione di esperienze emozionali correttive.”

Mi chiedo: ma chi lavora così? Personalmente, parlo dalla mia prospettiva di TMI, se c’è un sintomo si parte dal lavoro col sintomo, usando di solito tutto l’armamentario cognitivista appropriato. Poi c’è un intoppo e a quel punto si passa a risolvere l’intoppo relazionale che impedisce il lavoro sulla relazione e poi si torna al sintomo una volta che il problema è, almeno transitoriamente risolto. Ma che per caso i colleghi di matrice cognitivo-evoluzionista (La Rosa, Monticelli, Fassone, Farina per citarne qualcuno che è intervenuto nel dibattito interno alla SITCC) oppure EMDR, si trovano di fronte ossessioni, depressione, gesti autolesivi, sintomi alimentari e dicono ai pazienti: scusi ora riparo un po’ la sua relazione di attaccamento e cerchiamo di diventare tanto tanto amici tra di noi e cooperare, nel frattempo trascuro un po’ i suoi sintomi ma non se ne preoccupi”? Direi proprio di no.

Ma il problema probabilmente è altrove, ed è di livello sociologico. Sassaroli e colleghi lo dichiarano qui: “Ma per garantire un confronto con un paradigma cognitivo, occorre riconoscere che- almeno in parte- si esce fuori dal paradigma cognitivo. Ripetiamo: nulla di male in questo. Semmai, il rischio che paventiamo è quello di muoversi nel mezzo di un ecletticismo teorico, una miscela di teorie, tecniche e prospettive, talvolta aggregate senza consapevolezza piena della loro diversa prospettiva di riferimento”.

Insomma, hanno preoccupazione che i cognitivisti non facciano più i cognitivisti e diventino degli eclettici un po’ arruffoni e poi succede che: “tutti i pazienti… diventano difficili, o per meglio dire, si perde la capacità di discriminare gli uni dagli altri”. Insomma, o si è cognitivisti standard (un po’ Beck e Ellis un po’ Wells) o non si sa fare diagnosi e si vedono disturbi di personalità, traumi e psicosi ovunque. Pensa te a tutti i cognitivisti che fanno la SCID II per valutare la personalità e diagnosticano come affetti da disturbo di personalità quelli che ce l’hanno e da non affetti da disturbo di personalità quelli che non ce l’hanno. Vivranno e lavoreranno in zone schermate dallo sguardo di Sassaroli e colleghi?

A me sembra che la strada seguita da Studi Cognitivi, già tracciata in precedenti post di Sassaroli e Ruggiero in cui si attaccava la, chiamiamola, svolta bottom-up della psicoterapia e questa era stata la mia risposta  – sia di radicarsi al cognitivismo standard, con un tocco di Wells, arroccandosi nella supposta purezza del paradigma e respingendo ciò che ne è fuori. Quello che resta fuori dal loro discorso, in realtà è un qualsivoglia discorso sull’efficacia, sul ruolo dei fattori comuni nel cambiamento, sull’evoluzione dei modelli che prevede influenze reciproche. Ovvero ragionano sulla purezza del modello ma non si confrontano sull’efficacia. Forse è anche per questo che non hanno mai formalizzato un modello strutturato né tantomeno lo hanno testato in un trial randomizzato di efficacia. E quella sarebbe il vero modo di lanciare una sfida intellettuale: noi pensiamo che chi non lavora in chiave strettamente CBT è meno efficace, l’eclettismo peggiora la qualità dell’intervento. E ne siamo talmente convinti che ve lo dimostriamo. Altrimenti, mi chiedo, di che stiamo parlando se poi alla fine gli interventi sono parimenti efficaci o (scommetterei su questo secondo risultato) il trattamento che tiene conto dei fattori relazionali è addirittura più efficace?

Una nota conclusiva. Quanti di noi, da cognitivisti, hanno spesso commentato degli psicoanalisti: certo, dovrebbero farsi un po’ di training per la cura degli attacchi di panico e delle ossessioni, se no i pazienti non gli guariscono. E con quanta ironia e ammiccamento, ci prefiguravamo la loro risposta: “Oh, ma noi siamo psicoanalisti, noi guardiamo all’oro della psicoanalisi, non a questi mezzucci da mestierante, noi curiamo il profondo”. A noi cognitivisti appariva chiara la limitatezza di questa risposta, che alla fine toglieva ai pazienti strumenti utili, o indispensabili al trattamento.

Ora, di fronte alle posizioni di Sassaroli, Caselli e Ruggiero, dovremmo ragionare diversamente? Oppure pensare: “Si arroccano nella supposta purezza del cognitivismo hardcore e trascurano il lavoro su altre dimensioni che tanta letteratura ha mostrato come utili, se non indispensabili, per la riuscita della terapia?”.

Se fossi uno psicoanalista, un terapeuta EMDR, gestalt, sensomotorio li guarderei con un moto di dispiacere: non sanno cosa tolgono ai pazienti. Da cognitivista – sia pure con una connaturata tendenza alla psicoterapia integrata – prendo le distanze.

 


Leggi il resto della discussione:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017
  6. La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini – 17 Luglio
  7. Cosa faccio in terapia: il ragionamento prima delle tecniche – Roberto Lorenzini Pt. 2 – 19 Luglio 2017
  8. Monsignor Della Casa e la relazione terapeutica – Roberto Lorenzini Pt. 3 – 20 Luglio 2017
  9. Una relazione è un fatto, ma anche un fatto è una relazione – di Angelo Inverso – 21 Luglio 2017

 

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Giancarlo Dimaggio
Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta - Socio Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva-Interpersonale

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