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Identikit del paziente con alessitimia – Le ricadute sulla relazione terapeutica

I pazienti con alessitimia tendono al ritiro e ad una limitata condivisione, sembrando riluttanti nell'ingaggiarsi in una relazione terapeutica.

Di Chiara Polizzi, Alessandra Rossi

Pubblicato il 19 Lug. 2017

Aggiornato il 05 Set. 2019 12:59

I soggetti con alessitimia dimostrano un’attivazione fisiologica alla presenza di emozioni, ma presentano scarse competenze rispetto alla possibilità di riorganizzare l’esperienza corporea vissuta, come se mancassero di una rappresentazione mentale di quanto accaduto.

Chiara Polizzi, Alessandra Rossi – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca 

 

Cosa si intende per alessitimia

L’ alessitimia è un costrutto di derivazione psicoanalitica; letteralmente significa “non avere parole per le emozioni”. Il termine alessitimia è stato introdotto agli inizi degli anni settanta da Nemiah e Sifneos (1970) per definire un insieme di caratteristiche di personalità riscontrabili nei pazienti psicosomatici. Si può definire clinicamente l’ alessitimia come la difficoltà sperimentata da un individuo di: 1) identificare, descrivere e interpretare i propri e gli altrui sentimenti; 2) distinguere gli stati emotivi dalle percezioni fisiologiche; 3) individuare quali siano le cause che determinano le proprie o le altrui emozioni, con conseguente fatica a utilizzare il linguaggio come veicolo per l’espressione delle emozioni stesse.

Taylor, Bagby e Parker (1997) hanno considerato l’ alessitimia un “disturbo dell’elaborazione degli affetti” che interferisce con i processi di auto-regolazione e riorganizzazione delle emozioni.

Secondo gli autori, i soggetti alessitimici dimostrano un’attivazione fisiologica alla presenza di emozioni, ma presentano scarse competenze rispetto alla possibilità di riorganizzare l’esperienza corporea vissuta, come se mancassero di una rappresentazione mentale di quanto accaduto.

L’origine eziopatologica dell’ alessitimia è complessa e multi-fattoriale: si pensa dipenda da un insieme di cause di ordine genetico, neurofisiologico, intrapsichico, da modelli di comunicazione familiare e fattori socioculturali.

I fattori più significativi riguardano appunto le variabili socioculturali (si veda la maggior prevalenza nei maschi e nei ceti svantaggiati, Salminen, 2000), i deficit neurobiologici e le variazioni nell’organizzazione cerebrale (ad esempio una disfunzione dell’emisfero destro o un deficit del trasferimento interemisferico). Inoltre, è stata messa in luce l’influenza critica, estremamente significativa, delle prime esperienze relazionali e di attaccamento madre – bambino (Legrenzi, 1997).

Alessitimia e psicopatologia

La scarsa conoscenza dei propri stati emotivi è uno degli argomenti più studiati in psicologia e psicoterapia: inizialmente, è stata considerata per la sua relazione con disturbi di somatizzazione, dipendenze e PTSD (Taylor et al., 1997), giungendo più recentemente a studi riguardanti l’associazione tra il fenomeno e gli esiti dei trattamenti, lo stile di attaccamento, fattori genetici e correlati neuronali (Taylor & Parker, 2004).

L’ alessitimia appare inoltre associata a variabili che rappresentano il segno distintivo dei disturbi di personalità: 1) difficoltà nelle relazioni interpersonali; 2) sintomi somatici e psicologici; 3) maggior difficoltà nella regolazione degli impulsi. È dunque ragionevole considerare l’ alessitimia come tipica dei soggetti che presentano Disturbi di Personalità (Grabe, Spitzer & Freyberger, 2001).

La letteratura ha osservato come alti livelli di alessitimia siano in relazione con alti livelli di psicopatologia e malessere globale, e con la rappresentazione disfunzionale delle relazioni interpersonali, che risultano dunque complesse e deficitarie (Carcione, Semerari., Lysaker, Dimaggio., Conti, Procacci, et al., 2011): i pazienti alessitimici faticano nell’instaurare rapporti intimi, si mantengono su un piano di superficialità e non possiedono buone abilità di sintonizzazione e mentalizzazione dell’altro. Effettuando un’analisi interna ai 3 Cluster dei disturbi di personalità riconosciuti dal DSM IV, la ricerca sembra trovare evidenti relazioni tra alessitimia e disturbi di personalità in Cluster C.

Una via alternativa nello studio dell’ alessitimia in relazione alla personalità è stata recentemente intrapresa dal gruppo italiano di Dimaggio (Dimaggio, Carcione, Nicolò, Lysaker, Dangerio, Conti et al., 2012): gli autori si sono proposti di esplorare la relazione tra una misura globale di compromissione della personalità, indipendentemente dai Cluster, (ovvero il numero di tratti soddisfatti alla SCID II) e le variabili di alessitimia, gravità sintomatologica e problemi nel funzionamento interpersonale. I dati hanno evidenziato una differenza significativa fra i gruppi (creati in base al numero di criteri SCID soddisfatti), rispetto a tutte le variabili in esame. È risultato tuttavia che le differenze in termini di alessitimia non sono significative al netto della gravità sintomatologica. Una possibile spiegazione può essere che l’ alessitimia non sia un tratto distintivo di maggiore gravità personologica, ma un riflesso di un disagio emotivo intenso, che potrebbe compromettere la capacità di distinguere e comunicare le proprie emozioni.

La presenza di specifici malfunzionamenti metacognitivi nei Disturbi di Personalità, inoltre, ostacolerebbe la costruzione e la comprensione degli stati interni (cognitivi, affettivi, emotivi) propri e altrui (Popolo, Semerari, Carcione, Fiore, Nicolò, Conti, et al., 2010) con la derivazione di evidenti lacune nell’espressione e regolazione delle emozioni altrettanto differenziati. Sarà presumibilmente la natura della compromissione metacognitiva, unitamente alle strategie di mastery, a differenziare qualitativamente le caratteristiche alessitimiche del soggetto (ad esempio, alcuni pazienti potrebbero avere la tendenza a sovraregolare le emozioni inibendole, mentre altri a perdere il controllo su di esse quando le sperimentano, disregolando – Dimaggio, & Semerari, 2003).

Alessitimia e legame di attaccamento: la funzione “contenitiva” del caregiver

Studi osservativi condotti sui neonati nell’interazione con il loro caregiver principale (solitamente la madre), mostrano che nel bambino è rintracciabile un’attività comunicativa centrata sull’espressione delle emozioni (Crugnola, & Baioni, 2002). Se è quindi dimostrata la presenza di emozioni innate di base, espresse fin dall’inizio dal punto di vista comportamentale e fisiologico, l’aspetto soggettivo-esperienziale delle emozioni primarie e le emozioni più complesse (amore, vergogna, invidia, orgoglio, colpa) si sviluppano durante la prima infanzia. Quelli che nel neonato sono stati indifferenziati di soddisfazione o disagio, pian piano si differenziano in una complessa gamma di emozioni specifiche e conoscono una progressiva de-somatizzazione: le acquisizioni, nel secondo anno di vita, della capacità rappresentativa e del linguaggio hanno un impatto fondamentale nello sviluppo della consapevolezza emotiva soggettiva e nella capacità di identificare e regolare gli affetti, sia a livello intrapersonale che nelle relazioni con gli altri.

La madre ha, secondo la concezione di Bion (1962), un ruolo di contenitore, cioè ha la funzione di assorbire, contenere, elaborare ed interpretare gli stati affettivi del bambino, soprattutto quelli disturbanti (Taylor et al., 1997); laddove questa funzione di contenitore e regolatore fallisce, il bambino (e poi l’adulto) sviluppa un “contenitore interno difettoso”: le emozioni non sono trasformate in rappresentazioni mentali, ma rimangono a livello di percezioni, sensazioni, impulsi all’azione (di qui l’alto rischio di disturbi psicosomatici).

Tutte queste riflessioni hanno una rilevanza particolare per la definizione del costrutto di alessitimia, in quanto forniscono una concettualizzazione originale e interessante dell’importanza evolutiva delle primissime relazioni di attaccamento, in cui il soggetto impara a regolare non solo il suo funzionamento interpersonale, ma anche quello mentale ed emotivo. Grazie ad un legame di attaccamento sicuro e ad una buona sensibilità, responsività e sintonizzazione del caregiver, il bambino impara ad utilizzare la valutazione cognitiva per modulare gli affetti, e gli affetti per arricchire la cognizione. Quando questo non accade, il bambino diviene deficitario nella regolazione delle proprie emozioni, ma anche nella capacità discriminatoria delle stesse. Sembra che l’ alessitimia sia associata a stili di attaccamento insicuro, in particolare insicuro-distanziante, ma anche a stili preoccupati e timorosi (Montebarocci, Codispoti, Baldaro, & Rossi, 2004). L’attaccamento insicuro è stato associato a una ridotta mentalizzazione, intesa come capacità di leggere e comprendere gli stati mentali propri e altrui, inclusi i sentimenti, le credenze e le intenzioni (Fonagy et al., 2001).

Ricadute terapeutiche nel lavoro con pazieti alessitimici

Dall’osservazione clinica del funzionamento interpersonale di pazienti alessitimici (Grabe, Spitzer, &Freyberger, 2001; Nemiah & Sifneos, 1970; Taylor et al., 1997) e da studi empirici (Guttman & Laporte, 2002; Vanheule, Desmet, Rosseel et al.; Weinryb et al., 1996), sappiamo che i pazienti alessitimici hanno la tendenza verso il conformismo sociale e l’evitamento del conflitto, e tendono ad approcciarsi agli altri in modo non empatico, freddo e distaccato.

Questi pazienti evitano le relazioni strette e, se entrano in relazione, mantengono una posizione dipendente o impersonale, cosicché la relazione si mantiene su un piano di superficialità. Sono state osservate anche relazioni interpersonali caotiche (Sifneos, 1996) e inadeguata differenziazione fra sé e gli altri ( Blaunstein & Tuber, 1998; Taylor et al., 1997). In linea con queste osservazioni la ricerca in ambito di attaccamento indica che l’attaccamento evitante è quello maggiormente tipico di questo gruppo di pazienti (Taylor, 2000; Verhaeghe, 2004) e che tale attaccamento si manifesti anche nella stanza di terapia (Mallinckrodt, King, & Coble, 1998): dal momento che i pazienti alessitimici tendono al ritiro e ad una limitata condivisione dell’esperienza, ci si può aspettare che siano in qualche modo riluttanti nell’ingaggiarsi in una relazione terapeutica.

L’intervento dovrebbe quindi tenere in considerazione sia la scarsa consapevolezza rispetto ai vissuti emotivi in generale, così come le difficoltà nel comunicarli ad altri. Dalle fasi iniziali del percorso psicoterapeutico, pertanto, il terapeuta dovrebbe aiutare i pazienti fortemente alessitimici a distinguere le manifestazioni di arousal al fine di poterle meglio descrivere e sviluppare possibili spiegazioni per le stesse. Una utile strategia per il terapeuta potrebbe essere quella di utilizzare il rispecchiamento degli stati emotive, ancor prima di ipotizzarne possibili cause.

La relazione terapeutica dovrebbe inoltre essere costante oggetto di attento monitoraggio e discussione con questo tipo di pazienti. Ciò potrebbe stimolare la loro capacità di avere in mente la relazione, chiedendosi di volta in volta come ci si sente in relazione, agendo quindi a livello sia esperienziale che rappresentativo.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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