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Le reazioni dei professionisti della salute mentale al suicidio del paziente

Quando avviene il suicidio di un paziente è opportuno che si presti attenzione alle reazioni dei professionisti che avevano in cura il paziente.

Di Sara Bui

Pubblicato il 29 Giu. 2017

Aggiornato il 09 Set. 2019 13:52

Il suicidio di un paziente, oltre ad essere un evento stressante per il terapeuta che lo ha in cura, è stato anche stimato essere un evento piuttosto frequente per i vari professionisti della salute mentale. Si parla appositamente di professionisti della salute mentale in quanto non possiamo fare riferimento solamente a psicologi, psichiatri e psicoterapeuti (anche se in questa sede verranno prese in considerazione le loro reazioni), ma dobbiamo includere anche infermieri, operatori sociali e tutti coloro che in quanto professionisti si trovano a contatto con i pazienti (Farberow, 2005).

Sara Bui, OPEN SCHOOL SCUOLA COGNITIVA DI FIRENZE

 

Abbiamo sottolineato che si tratta di un evento piuttosto frequente, ma in realtà i dati che la letteratura riporta a tal proposito non sono univoci: si passa da una stima del 25% di terapeuti i cui pazienti decidono di suicidarsi (Brown, 1987) ad una del 50-70% (Foley & Kelly, 2007), fino ad arrivare all’80% riferito da Landers e colleghi nel 2010.

Il primo autore a prendere in considerazione le reazioni dei terapeuti di fronte al suicidio di un paziente è stato Litman il quale, nel suo articolo del 1965, spiega le emozioni più comuni provate dai professionisti in questa situazione. Negli anni seguenti viene riconosciuta l’importanza dell’autopsia psicologica (Shneidman, 1969) e si sviluppa negli Stati Uniti anche il Movimento Sopravvissuti al Suicidio promosso dal libro Survivors Suicide Di Cain (1972). L’argomento continua ad avere una buona risonanza non solo in America, ma anche in Europa, nonostante ciò, tuttavia, McIntosh (1996), dopo un’accurata revisione della letteratura, afferma che l’impatto del suicidio del paziente nel terapeuta è ancora un fenomeno poco conosciuto. In seguito vengono pubblicati altri studi (Hendin, Lipshitz, Maltsberger, Pollinger Haas & Wynecoop, 2000; Hendin, Lipshitz, Maltsberger, Pollinger Haas & Wynecoop, 2004) nei quali non solo si analizzano le reazioni e le emozioni esperite dai professionisti ma si indagano anche le differenze in base al genere e agli anni di carriera e quindi anche di esperienza.

Per quanto riguarda le caratteristiche dei pazienti che ricorrono al suicidio, Landers e colleghi (2010) riferiscono che si tratta soprattutto di maschi con un’età compresa tra i 17 e i 30 anni. La diagnosi più comune tra questi pazienti era Depressione Maggiore, ma frequenti anche doppie diagnosi di disturbo mentale con abuso di alcool o sostanze. La maggior parte dei suicidi sono avvenuti per impiccagione, ma frequenti anche i casi di annegamento, ed è stato riportato che i pazienti sono ricorsi al suicidio più frequentemente a casa propria (44%), piuttosto che in ospedale (8%).

Per quanto riguarda le terapie, invece, viene sottolineato che la percentuale più elevata di suicidi è stata commessa da pazienti che avevano abbandonato o terminato un percorso terapeutico, per cui non erano più seguiti da un professionista (Yousaf, Hawthorne & Sedgwick, 2002) , anche se sono stati rilevati casi di pazienti suicidati durante le terapie (Landers et all., 2010).

Le principali reazioni dei professionisti al suicidio di un paziente

Spesso si parla di “sopravvissuti al suicidio” facendo riferimento solamente ai membri della famiglia del suicida o al coniuge, in realtà tale appellativo sottintende tutti gli individui che vengono profondamente colpiti dalla perdita della persona in questione. Dato che i professionisti che hanno in terapia un paziente possono anch’essi rimanere profondamente colpiti dal suicidio dello stesso, si può estendere tale appellativo anche a loro (Jobes, Luoma, Hustead & Mann, 2000).

In linea generale, possiamo affermare che il suicidio di un paziente può avere delle importanti conseguenze per il professionista che lo aveva in cura, sia a livello personale, che professionale (Rothes, Scheerder, Van Audenhove & Hanriques, 2013).
Landers e colleghi (2010) hanno sottolineato che il 97% dei professionisti da loro intervistati aveva dichiarato di aver avuto delle notevoli ripercussioni in seguito all’evento, evidenziando così che si tratta di situazioni da non sottovalutare.

Partendo dal presupposto che “pochi eventi nella pratica clinica generano un senso di fallimento e di colpa come il suicidio di un paziente” (Grad, 1996), possiamo individuare le reazioni a livello personale più comuni nelle seguenti emozioni: shock, rifiuto, confusione e incredulità, le quali sono poi seguite da profonda tristezza e dolore. Possono inoltre essere presenti rabbia, colpa e vergogna. Come sottolineava Miller (1985), la colpa e la vergogna sono emozioni dai confini molto sottili e labili, per cui sono molto difficili da distinguere e si può passare molto velocemente da una all’altra. Tuttavia, la vergogna si presenta quando sperimentiamo il senso di fallimento, di inadeguatezza e vi è quindi anche una diminuzione dell’autostima, mentre la colpa si manifesta quando riteniamo che una nostra azione (o una nostra mancata azione) possa aver provocato un danno ad altri individui. La rabbia, invece, può essere rivolta al paziente stesso, ai familiari, alla polizia o a se stessi (Farberow, 2005).

Per quanto concerne il piano professionale, invece, i professionisti possono esperire un senso di fallimento di responsabilità, perdita dell’autostima, dubbi riguardo le proprie capacità e la propria competenza, paura di essere accusato del suicidio di un paziente e timore di ricevere critiche dai colleghi (Farberow, 2005).

Landers e colleghi (2010), hanno individuato dei fattori che possono contribuire alla maggiore intensità delle reazioni emotive dei professionisti: innanzitutto il fatto che il paziente fosse attualmente in cura o che comunque avesse avuto una recente valutazione da parte del professionista, altro aspetto rilevante riguarda la reazione dei familiari all’evento, il tutto diventa ancora più doloroso e con conseguenze ancora più gravose per il terapeuta nel caso in cui il paziente suicida avesse un bambino. Gli ultimi due fattori esaminati sono l’imprevedibilità del suicidio e le reazioni negative da parte non solo dei familiari, ma anche da parte dello staff medico e dei media.

Una differenza importante nelle reazioni conseguenti al suicidio di un paziente è stata trovata in base al sesso del professionista che lo aveva in cura: nonostante le emozioni provate siano le stesse, è stato evidenziato che le donne le esperiscono in misura maggiore degli uomini (Rothes et all., 2013) e che mettono maggiormente in dubbio le loro competenze professionali rispetto agli uomini, avendo così ripercussioni maggiori sull’autostima (Wurst, Mueller, Petitjean, Euler, Thon, Wiesbeck & Wolfersdorf, 2010).

Inoltre è stato sottolineato che anche gli anni di esperienza influiscono sull’intensità, benché le emozioni provate rimangano le stesse: i professionisti con pochi anni di esperienza, o che addirittura si stanno ancora specializzando, rimangono maggiormente colpiti dal suicidio di un paziente, soprattutto per quanto concerne la perdita di fiducia nelle proprie capacità professionali (Farberow, 2005).

Vari autori (Kayton & Freed, 1967; Grad, Zavasnik & Groleger, 1997; Farberow, 2005) hanno inoltre cercato di capire se il contesto di lavoro (pubblico o privato, singolo o di gruppo) potesse in qualche modo influire sul vissuto dei terapeuti. Kayton et all. (1967), per esempio, hanno trovato che le reazioni dei professionisti che lavorano in ospedale sono le stesse di coloro che vedono i pazienti nel loro studio privato. Sono però interessanti le reazioni degli altri pazienti del reparto: oltre a shock e incredulità, tali pazienti mostravano anche una grande rabbia nei confronti di tutto lo staff medico per non aver protetto e aiutato nel modo migliore il suicida. Altro setting analizzato è stato quello di gruppo, nel quale sono emerse, per il clinico che conduceva il gruppo, le stesse reazioni degli altri contesti. Anche in questo caso, tuttavia, meritano un’analisi le reazioni degli altri membri del gruppo, le quali sono le stesse manifestate dal professionista e l’intensità dipende da quanto tempo il gruppo si era formato; tuttavia le reazioni del terapeuta risultano essere più intense ed hanno quindi anche un ruolo più importante all’interno del setting di gruppo (Farberow, 2005).

Aiutare i professionisti dopo il suicidio di un paziente

Dopo aver analizzato le numerose e importanti conseguenze negative che il suicidio di un paziente può avere nei confronti del professionista che lo aveva in cura, appare ancora più evidente la necessità di non “abbandonare” tali professionisti, e di trovare quindi il modo migliore per aiutarli ad affrontare questa delicata situazione.

Negli Stati Uniti sono stai sviluppati dei protocolli proprio per aiutare i vari professionisti della salute mentale a gestire tali situazioni (Farberow, 2005), tuttavia la maggior parte dei terapeuti afferma di non essere a conoscenza di tali protocolli o, coloro che li conoscono, sostengono che non siano di grande aiuto (Landers et all., 2010).

Molti ospedali e cliniche hanno sviluppato delle procedure riguardo il trattamento e le modalità di gestione dei pazienti con ideazione suicidaria, tali procedure prevedono la valutazione del rischio, un piano di trattamento, vari livelli di osservazione, una documentazione specifica e redatta frequentemente etc., il punto fondamentale però è il fatto che non siano incluse informazioni né sulla probabilità del verificarsi dell’evento, né sull’impatto che il suicidio potrebbe avere a livello sia personale che professionale su tutto lo staff (Farberow, 2005).

Su internet, invece, è possibile per i terapeuti trovare un adeguato aiuto attraverso due website specifici, uno sviluppato dall’American Association of Suicidology nel 1997 e l’altro dalla American Foundation for Suicide Prevention. Il primo ha come obiettivo non solo quello di diffondere la conoscenza e la consapevolezza delle conseguenze del suicidio di un paziente per il professionista che lo aveva in cura, ma anche di fornire il supporto necessario a tali professionisti per affrontare la situazione che stanno vivendo. Nel secondo, invece, vengono spiegate non solamente le reazioni più comuni dei clinici, ma anche in che modo tale evento potrebbe modificare la loro condotta professionale. Viene inoltre affrontata la possibilità di chiedere aiuto ai colleghi, nonché l’esperienza di incontrare i familiari del suicida dopo la morte.

Concludiamo sottolineando che, il fatto di aiutare i professionisti ad affrontare i problemi personali e professionali conseguenti al suicidio di un paziente, può rivelarsi un aiuto non solo per il professionista stesso, ma anche per tutti i futuri pazienti che avranno bisogno di essere presi in carico da un professionista della salute mentale (Farberow, 2005).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Cain, A. C. (1972). Survivors of suicide. Springfield, IL: Charles C. Thomas.
  • Farberow, N. L. (2005). The mental health professional as suicide survivor. Clinical Neuropsychiatry, 2 (1), 13-20.
  • Foley, S. R. & Kelly, B. D. (2007). When a patient dies by suicide: incidence, implications and coping strategies. Advances in Psychiatric Treatment, 13, 134-138.
  • Grad, O.T. (1996). Suicide: how to survive as a survivor? Crisis, 17, 136-142.
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  • Yousaf, F., Hawthorne, M. & Sedgwick, P. (2002). Impact of patient suicide on psychiatric trainees. Psychiatric Bullettin, 26, 53-55.
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