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La rabbia, un’emozione intensa: l’intervento in ottica cognitivo-comportamentale

La rabbia si associa ad avverse conseguenze psicologiche e fisiche, approccio di elezione nella sua gestione e nel suo trattamento sembra essere la CBT

Di Elena Santoro

Pubblicato il 07 Giu. 2017

Aggiornato il 24 Set. 2019 15:34

La rabbia è uno stato affettivo intenso che si attiva nell’individuo in risposta a stimoli sia interni sia esterni e alla loro interpretazione cognitiva. E’ un processo che segue alcune fasi (inizio, durata, attenuazione) cui si accompagnano modificazioni fisiologiche e comportamentali che hanno spesso una funzione di adattamento dell’individuo all’ambiente.

Elena Santoro – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

L’emozione di rabbia: conseguenze negative e aggressività

La rabbia è una delle sette emozioni di base, un’emozione universale che appartiene all’esperienza umana comune e condivisa a prescindere dall’età, dalla cultura e dall’etnia di appartenenza. La ricerca condotta negli ultimi tre decenni ha mostrato che essa però può essere problematica e divenire disfunzionale (Averill, 1983; Plutchik, 1980).

DiGiuseppe e Tafrate (2007) hanno definito la rabbia:

Uno stato emotivo sperimentato a livello soggettivo con un’elevata attivazione del sistema simpatico autonomo. È inizialmente suscitata dalla percezione di una minaccia, anche se può persistere dopo che la minaccia è passata. La rabbia è associata a cognizioni e pensieri di attribuzione e di valutazione che sottolineano le malefatte degli altri e motivano una risposta di antagonismo per contrastare, scacciare, ritorcere contro, o attaccare la fonte della minaccia percepita. La rabbia è comunicata attraverso la mimica facciale o posturale o inflessioni vocali, verbalizzazioni avverse e comportamento aggressivo (p. 21).

In letteratura il termine rabbia e quello di aggressività sono stati spesso utilizzati in modo interscambiabile, anche se essi non coincidono sempre.

La rabbia, come descritto sopra, è uno stato emotivo mentre l’aggressione si riferisce al comportamento messo in atto. L’aggressività coincide con l’attacco fisico e verbale mentre la rabbia con il forte sentimento di malessere rappresentando la faccia soggettiva dell’aggressività. La rabbia può esitare in comportamenti aggressivi (ad es. urlare, lanciare oggetti) e di certo aumenta la probabilità di metterli in atto (Anderson & Bushman, 2002). Questi comportamenti a loro volta possono portare a esiti negativi, come discussioni accese, distruzione di proprietà o aggressioni fisiche. Dunque, le persone che sperimentano livelli elevati di rabbia hanno una probabilità maggiore di incorrere in esiti negativi (Deffenbacher, Oetting, Lynch, & Morris., 1996).

La violenza rappresenta l’esempio più drammatico delle conseguenze negative della rabbia, la forma di gestione più distruttiva (Korn & Mùcke, 2001). Detto ciò, però, l’emozione di rabbia non sfocia sempre in azioni violente e aggressive, così come la violenza e l’aggressione possono verificarsi in assenza di rabbia (ad es. nel caso di una rapina in cui l’aggressione è puramente strumentale). Esistono infatti, azioni aggressive depurate dalla rabbia e azioni rabbiose che non possono essere definite aggressive: una persona che si arrabbia è sempre emozionata, mentre quella aggressiva può anche essere in uno stato non-emotivo o di apatia (Fein, 1993).

Averill (1983) in uno studio sulle cause e sulle conseguenze della rabbia con studenti universitari scoprì che solo il 10% delle 160 esperienze di rabbia sfociava in aggressioni o punizioni fisiche, il 49% in aggressioni verbali mentre nel 60% dei casi in risposte non aggressive (es. parlare dell’accaduto).

L’emozione di rabbia sia che sfoci in azioni aggressive e violente sia che permanga a livello soggettivo come esperienza emotiva duratura e persistente,  si associa spesso a una serie di avverse conseguenze a livello psicologico e sulla salute fisica. L’esperienza personale di rabbia è di solito descritta come sgradevole (Tafrate, Kassinove, & Dundin 2002) e problematica (Lachmud, DiGiuseppe, & Fuller 2005). Infatti, le persone irritate sono più propense a pensare in modo irrazionale (Tafrate et al. 2002), ad esercitare una scarsa capacità di giudizio (Kassinove, Roth, Owens, & Fuller 2002) e a comportarsi in modo rischioso e imprevedibile (Deffenbacher, 2000).

McDermut e colleghi (2009) hanno indagato in uno studio con 1.687 pazienti l’associazione tra il tratto elevato di rabbia (HTA) e i disturbi di Asse I (SCID). Il 35,2% dei partecipanti con HTA non aveva però ricevuto alcuna diagnosi di disturbo in Asse I associato con rabbia/aggressività (PTSD, BDI, BPII- Bipolarismo II, GAD- Disturbo di ansia generalizzato) né Disturbo Borderline di Personalità (BDP) o Disturbo Antisociale di Personalità (ASPD). Nonostante ciò, la rabbia rappresentava uno degli indicatori principali della compromissione psichiatrica e del funzionamento psicopatologico dei pazienti, spiegandone una percentuale significativa di varianza.

Infine, la letteratura documenta una forte associazione tra alti livelli di rabbia e problemi di salute, in particolare ipertensione e malattia coronarica (Suls & Bunde, 2005).

La rabbia: un costrutto multi-dimensionale

La rabbia è uno stato affettivo intenso che si attiva nell’individuo in risposta a stimoli sia interni sia esterni e alla loro interpretazione cognitiva. E’ un processo che segue alcune fasi (inizio, durata, attenuazione) cui si accompagnano modificazioni fisiologiche e comportamentali che hanno spesso una funzione di adattamento dell’individuo all’ambiente.

Novaco (1978, 1997) e Howels (1998) descrivono la rabbia come un costrutto multi-dimensionale costituito da diversi domini: fisiologico (attivazione generale), cognitivo (pensieri automatici, credenze, immagini), fenomenologico (consapevolezza soggettiva, etichettamento) e comportamentale (il linguaggio del corpo, le espressioni facciali). Queste dimensioni interagiscono tra loro influenzando l’esperienza individuale di rabbia (o la sua assenza).

Le modificazioni fisiologiche consistono in un’accelerazione del battito cardiaco, nell’aumento della tensione muscolare, nella sensazione soggettiva di calore e irrequietezza; tali modificazioni sono dovute all’attivazione del sistema nervoso autonomo e predispongono l’individuo all’azione.

Per quanto riguarda invece la manifestazione comportamentale della rabbia a livello mimico e corporeo è simile a quella osservata negli animali. Gli studi di Ekman e Oster (1979) hanno dimostrato che l’espressione facciale della rabbia è simile e facilmente riconoscibile in persone di culture molto diverse. I cambiamenti del volto comprendono: l’aggrottare violento delle sopracciglia, lo scoprire e digrignare i denti, lo stringere le labbra mentre gli occhi appaiono lucidi.

La dimensione cognitiva gioca un ruolo prioritario nell’esperienza di rabbia, infatti i pensieri negativi che si attivano automaticamente nell’individuo in risposta a un evento/stimolo rinforzano le emozioni negative sfociando talvolta in azioni distruttive (Beck, 1999). Già Izard nel 1977 aveva identificato come possibili cause della rabbia alcuni sentimenti, pensieri ed eventi: essere trattati male, costretti a fare qualcosa contro la propria volontà, essere abbandonati, venire delusi, essere traditi, sapere di essere odiati, essere oggetto di attacchi fisici o verbali, essere criticati, sentire di aver fallito, vedere andare male i propri progetti, assistere ad azioni stupide o violente e fare qualcosa che non viene apprezzato. La variabile cognitiva è determinante nell’esperienza e nell’espressione della rabbia in quanto è una risposta emotiva ad uno stimolo che viene percepito e dunque interpretato dall’individuo come provocatorio (Novaco, 1975).

La rabbia si attiva quando l’individuo interpreta un evento come ostacolo al perseguimento di un proprio obiettivo o quando ritiene di aver subito immeritatamente un torto, un danno (D’Urso & Trentin, 2001). La rabbia rappresenta un segnale di allarme, indica la presenza di un ostacolo al raggiungimento degli scopi che l’individuo si prefigge o la violazione dei suoi diritti. In altri casi, la rabbia ha la funzione di avvisare della presenza di una minaccia all’autostima, all’immagine sociale e alla possibilità di essere vittima di un’ingiustizia, in modo tale da poterla affrontare ed eliminare alla fonte. Averill (1982) ritiene che le valutazioni del soggetto circa la responsabilità, intenzionalità e consapevolezza attribuite alla persona che compie l’azione ingiusta vadano ad incrementare il senso di ingiustizia e con esso l’emozione di rabbia.

La rabbia si attiva tutte le volte che si pensa di aver subito un torto ed esso è ritenuto: intenzionale, malevolo, immotivato e compiuto da una persona indesiderabile. Ci si arrabbia raramente nei confronti di oggetti e più di frequente verso le persone proprio perché attribuiamo loro la consapevolezza e la volontà di arrecare un danno (Averill, 1982). Inoltre, in linea con la teoria dell’inferenza corrispondente (Jones & Davis, 1965; Jones & Harris, 1967) e l’errore fondamentale di attribuzione (Ross, 1977) le persone tendono a rintracciare le cause del comportamento altrui (ingiusto o dannoso) nelle loro disposizioni e nelle caratteristiche di personalità, sottovalutando invece i fattori situazionali. Ciò porta le persone a compiere attribuzioni interne di colpa e responsabilità più spesso che esterne, anche quando sono evidenti le potenziali cause situazionali e contingenti.

Diversi studi empirici confermano che le persone che sperimentano elevati livelli di rabbia e aggressività in effetti, tendono a fare attribuzioni più negative e ostili rispetto alle persone non violente o non aggressive (James & Seager , 2006; Moore, Eisler & Franchina, 2000; Witte, Schroeder & Lohr, 2006).

Il trattamento della rabbia in ottica cognitivo-comportamentale

L’assunto fondamentale della psicoterapia cognitiva, postulato per la prima volta negli anni 60’ da Beck (1967) e Ellis (1962), sostiene che le rappresentazioni mentali del paziente (pensieri automatici, credenze e schemi cognitivi) spiegano il disagio psicologico e il suo perpetrarsi nel tempo. I disturbi emotivi vengono spiegati tramite l’analisi delle relazioni fra pensieri, emozioni e comportamenti. Le distorsioni di tipo cognitivo influenzano le reazioni emotive che causano sofferenza alla persona e ne perpetuano il disagio. La patologia è frutto di pensieri, schemi e processi disfunzionali (Mancini & Perdighe, 2008).

Le emozioni di base, fra cui la rabbia, sono filogeneticamente determinate, hanno una base innata e una funzione adattiva, tuttavia possono diventare causa di sofferenza quando la loro intensità è molto elevata e si protrae nel tempo. La rabbia diviene disfunzionale per la persona se la sua manifestazione ne compromette le relazioni sociali o la spinge a compiere azioni dannose verso sé, gli altri, oppure verso cose. Lo stato emotivo e la relativa sofferenza sono determinati dal significato che la persona attribuisce agli eventi, infatti, come già anticipato, la persona prova rabbia nel momento in cui percepisce e dunque interpreta un determinato evento come un torto subito o una violazione dei suoi diritti.

Alla luce di quanto detto, la psicoterapia cognitiva utilizza come strumento principale di cambiamento l’intervento sulla variabile cognitiva. Lo scopo della terapia è aiutare il paziente in primis, a riconoscere i pensieri automatici negativi e i processi cognitivi disfunzionali che si attivano in lui (maggiore consapevolezza) e poi, a modularli e modificarli. L’intervento cognitivo ha l’obiettivo di insegnare al paziente sia a riconoscere sia a disputare i pensieri, le credenze e le interpretazioni da cui hanno origine i comportamenti problematici e la sua sofferenza psicologica.

Diversi studi sul trattamento di problemi connessi alla rabbia e all’aggressività hanno confermato l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale (CBT) (Lipsey, 2009; Litschge, Vaughn, & McCrea, 2010; Özabaci, 2011). La CBT utilizza diverse tecniche per intervenire e modificare i processi cognitivi e i comportamenti del paziente (Beck, 2011). Queste tecniche si focalizzano sul riconoscimento delle distorsioni e dei bias cognitivi da parte del paziente, in combinazione con l’apprendimento di cognizioni adeguate (Landenberger & Lipsey, 2005). Infatti, il lavoro in terapia rinforzato dagli homework a casa sollecita il paziente a riconoscere la catena di pensieri (B) e reazioni emotive e comportamentali (C) che si attivano in situazioni diverse (A), in relazione a stimoli esterni o interni (modello A-B-C di Ellis). Il paziente è poi incoraggiato dal terapeuta a disputare i pensieri automatici negativi e disfunzionali, le credenze rigide e generalizzate con cui interpreta le situazioni e gli eventi verificandone la veridicità, la giustificabilità (confronto con i dati di realtà) e la loro utilità. La parte finale della terapia in genere comporta la generazione di credenze alternative a quelle ormai riconosciute dal paziente come disfunzionali e la loro messa in pratica nelle situazioni in cui vengono percepite delle provocazioni.

Gli interventi per la gestione della rabbia si focalizzano sul modo in cui i pazienti percepiscono le provocazioni interpersonali e spesso promuovono la capacità di mettersi dal punto di vista dell’altro in modo tale che non venga percepito come ostile o colpevole (Day, Howells, Mohr, Schall & Gerace, 2008). Il perspective taking è uno dei processi cognitivi centrali coinvolti nell’empatia e i deficit di perspective taking rappresentano target importanti per il trattamento di coloro che commettono atti violenti (Jolliffe & Farrington, 2004; Zechmeister & Romero, 2002).

Nello studio di Mohr et al. (2007) il perspective taking è stato identificato come predittore sia della rabbia di tratto sia della modalità di espressione e di controllo della rabbia. Coloro con maggiori capacità di perspective taking manifestavano meno la rabbia all’esterno, minori strategie di sopressione mentre facevano un maggiore uso di strategie adattative di controllo. Dunque, la capacità di mettersi dal punto di vista dell’altro sembra essere associata non solo ad una minore espressione delle emozioni di rabbia a livello comportamentale e ad una minore tendenza a reprimere negativamente la rabbia, ma anche a risposte più adattative per la sua risoluzione.

Spesso, a supporto del lavoro sulla dimensione cognitiva, vengono insegnate al paziente tecniche di rilassamento per controllare l’eccitazione fisiologica (DiGiuseppe & Tafrate, 2003). Le tecniche di rilassamento e/o la mindfulness associati al protocollo CBT sembrano rendere ancora più efficaci gli interventi per problemi connessi alla rabbia e all’aggressività (Deffenbacher, 2011; Pellegrino, 2012).

Inoltre, si propongono ai paziente training sulle abilità di problem solving e l’identificazione di comportamenti alternativi, ad esempio attraverso il role playing (Blake & Hamrin, 2007; Landenberger & Lipsey, 2005; Sukhodolsky, Kassinove, & Gorman, 2004).

Per concludere, la letteratura scientifica ha verificato che la terapia cognitivo-comportamentale rappresenta l’approccio di elezione per la gestione e il trattamento dei problemi connessi alla rabbia; infatti, diverse meta-analisi hanno identificato un effect size moderato (Beck & Fernandez, 1998; Del Vecchio & O’Leary, 2004; DiGiuseppe & Tafrate, 2003; Sukhodolsky, Kassinove & Gorman, 2004). Ad esempio, la meta-analisi di Beck e Fernandez (1998) sull’efficacia degli interventi di terapia cognitivo-comportamentale sulla rabbia, ha indagato 50 studi che includevano 1640 partecipanti tra detenuti, partner o mariti violenti, delinquenti giovani, persone con disabilità intellettive, ma anche studenti universitari con problemi di rabbia. La maggior parte degli studi prevedeva l’uso combinato della ristrutturazione cognitiva e di alcune tecniche finalizzate al rilassamento fisico. Gli autori hanno identificato un effect size moderato (d=0.70) ovvero, un cambiamento positivo e un miglioramento nella gestione della rabbia post-trattamento cognitivo-comportamentale.

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