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La terapia cognitivo-comportamentale nel trattamento delle balbuzie

La terapia cognitivo-comportamentale permette di fare fronte al vissuto emotivo della persona con balbuzie e estinguere i comportamenti di evitamento

Di Daniela Forgione

Pubblicato il 14 Giu. 2017

Aggiornato il 06 Giu. 2022 15:38

La balbuzie porta spesso a vittimizzazione tra pari, isolamento e rifiuto sociale, vergogna ed imbarazzo, scarsa autostima e ritiro sociale; uno dei trattamenti più efficaci per superarla è la terapia cognitivo-comportamentale.

Daniela Forgione – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

La balbuzie: alcuni dati sul disturbo

La balbuzie rappresenta un disturbo che tipicamente esordisce nell’infanzia, approssimativamente attorno ai 33 mesi. L’insorgenza è graduale ed insidiosa, ma sembra in aumento il numero di casi in cui l’esordio appare improvviso, manifestandosi in modo evidente nel giro di giorni o al massimo di settimane. Il rapporto tra maschi/femmine negli adulti risulta essere di 4:1, mentre in prossimità dell’esordio non si evidenziano differenze statisticamente significative, suggerendo che il fenomeno del recupero spontaneo è più frequente nelle bambine che nei bambini.

Le ricerche recenti indicano elevate percentuali di casi in cui il recupero avviene senza che sia necessario un intervento terapeutico. Inoltre, è condiviso tra clinici e ricercatori che la predisposizione alla balbuzie è ereditata geneticamente, anche se poi la sua espressione fenotipica è condizionata dall’interazione di numerose variabili, sia individuali (cognitive, linguistiche, affettive e neurofisiologiche) che ambientali (socio-culturali, familiari, scolastiche o terapeutiche).

Infine, nella balbuzie evolutiva vi è un’alta prevalenza di disturbi di comorbilità, sia linguistici (disturbo fonologico o del linguaggio, disturbo dell’articolazione, disturbi semantici in produzione e in comprensione), sia non linguistici (disturbo da deficit di attenzione ed iperattività, diverse sindromi genetiche). Numerosi sono poi gli studi che indicano come la balbuzie evolutiva sia associata nell’adulto a distress psicologico, che si manifesta già in adolescenza, principalmente con disturbi d’ansia e, in particolare, con il disturbo d’ansia sociale (o fobia sociale) che è caratterizzato dalla paura marcata e intensa di una o più situazioni sociali nelle quali l’individuo è esposto al possibile giudizio degli altri. Come risultato, l’esposizione a situazioni temute è tipicamente accompagnata da ansia anticipatoria, angoscia ed evitamento.

Conseguenze psicologiche della balbuzie

Storicamente la balbuzie non era ritenuta degna di attenzione sia in termini di attribuzione di finanziamenti pubblici o privati per la ricerca, sia per quanto concerne la preparazione di medici esperti che potessero offrire programmi di trattamento. Dalla fine del XX secolo fino ad oggi, si è assistito ad un cambiamento significativo sul processo di trattamento della balbuzie e, di conseguenza, sulla qualità della vita delle persone balbuzienti. I bambini e gli adolescenti che balbettano spesso esperiscono vittimizzazione tra pari, isolamento e rifiuto sociale, e possono anche essere meno popolari rispetto ai loro coetanei non-balbuzienti. Queste conseguenze negative hanno il potenziale per provocare vergogna ed imbarazzo, scarsa autostima, ritiro sociale e basso rendimento scolastico. Gli adulti che balbettano hanno descritto come la balbuzie possa limitare le iniziative di vita, come ad esempio le scelte della carriera, le promozioni di lavoro, la partecipazione a eventi sociali e lo sviluppo di amicizie.

Altri problemi includono lo sperimentare pensieri ed emozioni negative legate alla comunicazione, stereotipi negativi, pregiudizi e discriminazioni verso coloro che balbettano. La balbuzie tende ad aumentare significativamente quando il soggetto esperisce o anticipa ansia disfunzionale che genera un aumento dell’arousal. La balbuzie sembra infatti variare a seconda delle situazioni comunicative a elevato impatto emotivo nel soggetto, come ad esempio il numero delle persone presenti in un gruppo, la rilevanza assunta dall’interlocutore, la lettura ad alta voce, le conversazioni telefoniche, ecc.

Come definire la balbuzie?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la balbuzie come disturbo specifico dello sviluppo, un disordine nel ritmo della parola per cui il paziente sa con precisione cosa vorrebbe dire, ma nello stesso tempo non è in grado di dirlo a causa di arresti, ripetizioni e/o prolungamenti di un suono che hanno carattere di involontarietà (WHO, 1977).

Tuttavia, definire la balbuzie unicamente come un problema di fluenza equivale ad ignorare l’individuo, i suoi sentimenti e l’importanza che essa ha nella sua vita. Infatti la definizione proposta dall’OMS, sebbene colga le alterazioni della fluenza (sintomi primari), non tiene in considerazione quei comportamenti (sintomi secondari) che accompagnano l’eloquio della persona che balbetta e che tipicamente si manifestano con incapacità di mantenere contatto oculare, strizzamento degli occhi, bruschi movimenti del capo, smorfie del viso, ma anche interiezioni di fonemi, sillabe, parole o frasi senza funzione comunicativa utilizzati come facilitatori della fluenza. I sintomi primari e secondari, insieme, costituiscono le “caratteristiche overt” della balbuzie. Tali caratteristiche si associano spesso a “caratteristiche covert”, ossia ad uno stato di tensione o eccitazione, a emozioni negative come paura, imbarazzo, ira o simili.

Una classificazione completa, che prende in considerazione non solo le “conseguenze della malattia”, ma anche le “componenti della salute” è la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF; OMS, 2004). In quanto classificazione, la ICF raggruppa in maniera sistematica diversi domini di una persona in una data condizione di salute (il funzionamento comprende tutte le funzioni corporee, le attività e la partecipazione; la disabilità serve come termine per menomazioni, limitazioni dell’attività o restrizioni della partecipazione). La ICF elenca anche i fattori personali e ambientali che interagiscono con tutti questi costrutti e che descrivono il contesto in cui gli individui vivono.

La ICF si basa, quindi, su un modello biopsicosociale che integra tanto la dimensione corporea, declinata nelle componenti fisiologica e anatomica, quanto la dimensione di attività e partecipazione, sottolineando l’assoluta rilevanza di fattori contestuali nel determinare il funzionamento della persona. Si tratta pertanto di uno strumento di classificazione delle condizioni di salute che getta uno sguardo comprensivo sull’interazione tra la persona e il suo ambiente, che può giungere sia al funzionamento che alla disabilità, a seconda dell’effetto facilitante oppure ostacolante dei fattori contestuali. Nella sindrome balbuzie, infatti, le reazioni cognitive, emotive e comportamentali giocano un ruolo preponderante nel determinare se la persona con balbuzie (menomazione) incontrerà difficoltà nella comunicazione in situazioni di vita quotidiana (disabilità) e il grado in cui tali difficoltà si ripercuoteranno negativamente sulle scelte di vita e sulla possibilità di raggiungere i propri scopi (handicap).

La terapia cognitivo-comportamentale per la balbuzie

La terapia cognitivo-comportamentale è un intervento ampiamente riconosciuto e ben sviluppato, che permette sia di fare fronte al vissuto emotivo della persona che balbetta, sia di estinguere i comportamenti secondari di evitamento. Nel primo caso, l’obiettivo è quello di far sì che la persona che balbetta accetti la possibilità di modificare la balbuzie, controllarla e ridurla e non porsi l’obiettivo irrealistico di sconfiggerla, al fine di darsi il permesso di balbettare senza temere il giudizio dagli altri poiché questo è il solo modo per realizzarsi come individuo.

Come affermato da Ellis, all’interno del modello REBT (Terapia Comportamentale Razionale Emotiva), la reazione emotiva e il comportamento sono in gran parte influenzati dalla visione della realtà dell’individuo, cioè da come si percepisce, interpreta e valuta ciò che accade sovrastimando la probabilità degli esiti negativi nelle situazioni quotidiane. Ellis, pur enfatizzando il ruolo svolto dai processi cognitivi nel determinare le reazioni e gli stati d’animo, riconosce che pensiero, emozioni e comportamento sono aspetti dell’esperienza umana strettamente intercorrelati; utilizzando il modello ABC, si possono identificare i pensieri disfunzionali che generano emozioni nocive e che portano ad attuare comportamenti inappropriati nella persona che balbetta. In questo modo, secondo Ellis, il paziente coglie il fondamento illogico o irrealistico delle proprie affermazioni e può trasformarle e sostituirle con idee funzionali che genereranno un cambiamento emotivo e comportamentale. Sebbene l’evento che attiva il comportamento rimane invariato, la modificazione di tali idee disfunzionali permetterà una gestione emotiva più adeguata.

La maggior parte dei dati disponibili sull’efficacia delle procedure cognitive con i balbuzienti provengono da programmi in cui i partecipanti sono addestrati ad identificare e sistematicamente modificare i pensieri irrazionali legati all’ansia e di utilizzare questa “ristrutturazione cognitiva” in situazioni quotidiane.

Nel secondo caso gli interventi di terapia cognitivo-comportamentale fondamentali utilizzati per estinguere i comportamenti secondari di evitamento e di fuga includono l’esposizione, esperimenti comportali e training attentivi.

L’esposizione consiste nel sottoporre l’individuo ad una situazione che normalmente induce una notevole paura o ansia. All’individuo viene chiesto di affrontare la situazione, senza utilizzare alcuna strategia di fuga o di evitamento, e di rimanere nella situazione finché il livello di ansia comincia a diminuire. Lo scopo di tali procedure è in genere quello di praticare la costruzione della fluenza in situazioni sempre più difficili e temute. L’esposizione è specificamente finalizzata a fornire elementi di prova per contrastare aspettative di minaccia-correlata. Sessioni di esposizione iniziali dovrebbero consistere in situazioni di paura di basso livello, mentre le sessioni successive prevedono compiti più difficili. Ogni situazione temuta o fase del programma di esposizione viene ripetuta finché l’individuo può completarla con relativa facilità. Tipicamente, un programma di esposizione consisterebbe dalle 10 alle 15 situazioni che la persona ha incluso in una “gerarchia di paura” che include l’uso del telefono, parlare con la gente o con persone con più autorità, l’incontro con persone per la prima volta, l’incontro di amici o soci che l’individuo non vede da molto tempo e presentazioni di gruppo. Dopo essersi esposta ad ogni situazione, la persona che balbetta riflette sulla validità delle sue aspettative di pericolo in quella situazione, chiedendosi cioè se i timori che aveva prima di esporsi alla situazione fossero giustificati.

Le paure predominanti riportate nei compiti di esposizione riguardano sia il fatto che i partecipanti balbetteranno, sia una valutazione negativa da parte degli altri. Gli esperimenti comportamentali possono essere fondamentali nel ridurre le stime di probabilità associate alla paura che la persona sarà valutata negativamente a causa della sua balbuzie. Questi esperimenti spesso comportano situazioni sociali in cui si chiede alla persona di produrre balbuzie volontariamente, idealmente in una forma più grave di quanto più tipicamente sperimentata. Come con l’esposizione, questi esperimenti comportamentali devono essere presentati in modo gerarchico, passando da situazioni relativamente non temute verso quelle più temute. Al partecipante viene chiesto di registrare i risultati previsti della balbuzie volontaria prima di impegnarsi nella sperimentazione. I risultati degli esperimenti vengono esaminati e si formano nuove previsioni chiare ed osservabili per esperimenti futuri. Altri esperimenti comportamentali possono essere condotti senza la necessità di balbuzie volontaria. Nella terapia cognitivo-comportamentale, il partecipante è invitato a creare esperimenti per verificare una qualsiasi delle sue previsioni negative del mondo.

L’uso della mindfulness nel trattamento della balbuzie

Procedure basate sulla mindfulness (consapevolezza) sono diventate componenti sempre più popolari dei programmi di terapia cognitivo-comportamentale per l’ansia. Una procedura mindfulness semplice che può essere utilizzata è il training attenzionale, destinato a ridurre la frequenza dei pensieri intrusivi legati alle minacce. Si sostiene che questo si ottiene aumentando la capacità della persona di partecipare a obiettivi cognitivi alternativi. Cioè, per aumentare la propria capacità di controllare dove si trova l’attenzione, la persona può ridurre la propria preferenza verso aspetti negativi del contesto sociale. Nei training attenzionali i soggetti sono seduti in una posizione comoda, con gli occhi chiusi e si richiede loro di concentrarsi su un mantra di conteggio/ respirazione. Su ogni inspirazione l’individuo conta un numero nella sua mente. Su ogni espirazione l’individuo sente la parola “rilassarsi” nella sua mente. Le persone sono addestrate a completare questa semplice procedura di meditazione respirazione due volte al giorno per 5 minuti per ogni sessione. Questo processo di conteggio/respirazione permette sia alla persona di concentrarsi sulle sensazioni fisiche del respiro ad entrare ed uscire dal corpo, che possono così essere monitorate, sia a pensieri, sentimenti e sensazioni che si trovano ad andare e venire senza giudicarli o reagire ad essi, rifocalizzandosi poi sul respiro. Ciò comporta una focalizzazione consapevole su ciò che si sta facendo e l’accettazione su come ci si sente (pensieri, sentimenti, sensazioni fisiche), una focalizzazione dell’attenzione sul respiro e l’espansione dell’attenzione dal respiro al corpo nel suo complesso. Concentrarsi sul respiro è un altro modo per aumentare l’attenzione e la consapevolezza delle sensazioni corporee e fornisce una base per il monitoraggio del processo di produzione del linguaggio per le persone che balbettano.

Quest’ultima procedura rientra in quella che viene chiamata la cosiddetta “terza ondata” della terapia cognitivo-comportamentale che coinvolge gli approcci che si concentrano più sulla consapevolezza, accettazione e comprensione del contesto di pensiero, piuttosto che stimolarne e modificarne il contenuto. Infatti, la mindfulness è un processo di regolazione dell’attenzione in maniera costante rivolto all’esperienza presente, richiede la capacità di spostare intenzionalmente l’attenzione da un aspetto ad un altro di tale esperienza e una qualità di rapportarsi alla propria esperienza in un orientamento di curiosità, apertura sperimentale e accettazione. Il termine “accettazione”, in questa prospettiva, non coincide con passività o rassegnazione ma significa essere capaci di vivere pienamente ogni esperienza senza cercare di modificarne il significato, distorcendolo perché percepito come troppo negativo e senza preoccuparsi eccessivamente per esso, in modo da cogliere ogni singola sfaccettatura e farla propria.

La consapevolezza è un costrutto multiforme che comprende l’osservazione di esperienze interiori ed esteriori (per esempio notando quando il proprio stato d’animo comincia a cambiare), che agisce con la consapevolezza (ad esempio notando il vagare della mente e il diventare distratto quando si fa un’attività) e l’accettazione di fenomeni interni ed esterni (ad esempio non essere giudicante di se stessi nel momento in cui si provano emozioni negative). La mindfulness può rivelarsi uno strumento prezioso per facilitare l’accettazione della balbuzie correlata a comportamenti, pensieri e sentimenti nelle persone balbuzienti. Questa maggiore accettazione può essere correlata alle nuove capacità di coping adattive e ad una miglior qualità di vita, permettendo una minore presenza di comportamenti di evitamento. La mindfulness può essere coltivata attraverso varie forme di meditazione e pratica informale che coinvolge sia l’attenzione focalizzata su qualcosa di specifico (ad esempio il respiro o sensazioni fisiche nel corpo), o di monitoraggio aperto che è un’osservazione attenta a qualsiasi cosa (pensieri, sentimenti, sensazioni) che nasce senza attenzione esplicita su qualsiasi oggetto.

La pratica mindfulness può essere impiegata dalle persone che balbettano nella tecnica dell’esposizione comportamentale e può essere generalizzata a una varietà di situazioni perché non è dipendente dal contesto. Questo permette al soggetto di avere una percezione del controllo indipendentemente dalle circostanze particolari. Attraverso la mindfulness il soggetto osserva i pensieri e le emozioni temute in maniera non giudicante, in assenza di conseguenze negative, al fine di indebolire o estinguere la risposta di paura. Questa accettazione aperta di eventi in genere percepiti come negativi può diminuire i modelli di fuga e di evitamento, aumentando la formulazione delle strategie di coping efficaci. La mindfulness può essere impiegata anche per migliorare la regolazione emotiva, infatti i ricordi di eventi passati negativi e le anticipazioni di eventi futuri temuti sono simulazioni che spesso non vengono distinte dalle situazioni presenti che si stanno affrontando. La ruminazione contribuisce al mantenimento o all’esacerbazione di risposte affettive negative e impedisce un’efficace problem solving. La mindfulness porta alla diminuzioni della ruminazione e questo spiega la riduzione dei sintomi depressivi e ansiosi.

Le emozioni continuano ad essere vissute come si presentano, tuttavia il potenziale di queste emozioni che portano al perpetuare del ciclo di risposte comportamentali disadattative e valutazioni negative si interrompe. La mindfulness permette anche un aumento della consapevolezza metacognitiva e fornisce un meccanismo per interrompere l’interpretazione letterale delle parole e dei pensieri, osservando come questi ultimi siano “solo pensieri”, ovvero passaggi di eventi mentali, piuttosto che riflessioni del tutto accurate della realtà. Cambiare la propria relazione rispetto ai pensieri può coinvolgere diverse strategie, tra cui la visualizzazione di pensieri come immagini intermittenti su uno schermo. Gli script della mente, che si ripetono più e più volte perdono il loro potere una volta che la persona balbuziente si rende conto che un nastro mentale è in fase di riproduzione. Pertanto è opportuno che la persona che balbetta guardi i pensieri andare e venire, li visualizzi come eventi mentali, piuttosto che come fatti che devono essere agiti ora, e scriva i pensieri sulla carta in modo che l’emozione sia meno opprimente e dia il tempo per una risposta più riflessiva, invece di una reazione automatica, guardando a come il pensiero emerso non si adatti con la situazione attuale. Queste strategie possono aiutare la persona a generare pensieri differenti.

Terapia cognitivo-comportamentale per la balbuzie: uno sguardo al ruolo dell’ansia

La difficoltà a mantenere nel lungo termine la fluenza acquisita in terapia sembra essere in parte dovuta ad un marcato livello di ansia sociale che sperimentano le persone che balbettano. Nei balunzienti la presenza di pattner ansiogeni elevati è infatti predittivo degli esiti poco soddisfacenti con il solo trattamento basato sulla fluenza. Infatti, diverse ricerche hanno dimostrato che soggetti che non beneficiavano durante il trattamento di programmi atti a modificare la fluenza verbale e parallelamente a ridurre la malattitudine comunicativa, ottenevano risultati scadenti e non duraturi nel tempo. Inoltre, sembra che vivere emozioni negative come l’imbarazzo sull’utilizzo di tecniche di controllo vocale siano collegati alle recidive. Alcuni studi dimostrano che la ricaduta è meno probabile per le persone il cui trattamento aveva incluso componenti cognitive e affettive rispetto a coloro che non avevano ricevuto questo tipo di trattamento.

Pertanto, appare evidente la necessità di adottare, nel trattamento, procedure atte a ridurre e gestire l’ansia sociale, che si presenta in comorbidità con la balbuzie. L’utilizzo della terapia cognitivo-comportamentale risponde a questa necessità, poiché presuppone l’esistenza di un circuito retroattivo tra cognizione/pensieri e comportamento nel quale i processi cognitivi influenzano il comportamento e il cambiamento comportamentale a sua volta influenza le cognizioni. Nel trattamento dei disturbi d’ansia l’obiettivo diviene, pertanto, quello di modificare questo circuito attraverso l’utilizzo di tecniche quali l’esposizione graduale agli stimoli fobici e la ristrutturazione cognitiva. L’assunto, infatti, è che attraverso l’esposizione allo stimolo temuto il paziente avvertirà in breve tempo una riduzione significativa del livello di ansia e potrà confutare l’irrazionalità dei pensieri disfunzionali legati alla situazione temuta.

In conclusione, la “guarigione” nella balbuzie non si deve riferire al mero raggiungimento della fluenza, ma implica una presa di coscienza che conduce la persona balbuziente a comprendere come la balbuzie non è un fallimento e il parlare fluentemente è la cosa giusta. Inoltre, la presenza di un disturbo d’ansia sociale tra le persone che balbettano ha il potenziale per abbassare la qualità della vita, aumentando i deficit comportamentali nelle situazioni sociali, ostacolando in maniera significativa il funzionamento sociale, scolastico e professionale.

Pertanto, la valutazione ed il trattamento dell’ansia sociale nella balbuzie è di estrema importanza. In particolare gli approcci di trattamento completo sono necessari per affrontare “tutta la persona” che balbetta piuttosto che il solo difetto di pronuncia. Per questo motivo è necessario che psicologi clinici, psichiatri e logopedisti lavorino in maniera congiunta al fine di trovare un equilibrio tra la modificazione della fluenza e lo sviluppare e mantenere sentimenti e attitudini positivi sulla propria verbalità. L’approccio globale alla gestione dei balbuzienti ha il potenziale per migliorare in modo significativo l’impegno in attività sociali, educative e professionali, che a loro volta possono aumentare la qualità della vita e la capacità di creare relazioni significative e soddisfacenti.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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