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Il ruolo della catastrofizzazione del dolore nella percezione del dolore

Modelli teorici per spiegare il modo in cui la presenza di catastrofizzazione del dolore possa influenzare la percezione del dolore acuto e cronico

Di Francesca Fumagalli

Pubblicato il 16 Mag. 2017

Aggiornato il 25 Giu. 2018 11:15

Catastrofizzazione del dolore: nel paziente con dolore cronico le componenti dominanti dell’ansia sono l’ipervigilanza e la catastrofizzazione. In questi pazienti l’ansia assume le caratteristiche della paura della morte, del dolore incontrollabile oppure di preoccupazioni per famiglia, problemi finanziari, perdita della dignità e del controllo del proprio corpo.

Fumagalli Francesca Maria – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

La definizione di dolore più condivisa, proposta dall’ International Association for the Study of the Pain (IASP), descrive il dolore come “un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata ad un danno reale o potenziale del tessuto, o descritta con riferimento a tale danno” (Turk e Okifuji, 2001). Questa definizione è stata accolta anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), e sottolinea come il dolore sia un’esperienza “somatopsichica” unitaria (Molinari e Castelnuovo, 2010). Esistono due tipologie di dolore (Notaro, Voltolini e Ferrario et al., 2009): il dolore acuto, “utile”, ossia un segnale d’allarme, che ci permette per esempio di diagnosticare precocemente una malattia e il dolore cronico, “inutile”, quando la sofferenza degenera dalla sua funzione iniziale di allarme e diventa un sintomo prolungato, che lede il benessere della persona e la sua qualità della vita. Il dolore che perdura nel tempo, diventando fonte di disabilità per la persona, si tramuta in malattia, condizionando l’intera vita del soggetto; per la sua durata imprevedibile e la sua intensità variabile, con una tendenza ad aumentare col tempo, viene anche chiamato “dolore totale” (Notaro, Voltolini e Ferrario et al., 2009).

 

Ansia e catastrofizzazione nel dolore

La prevalenza dell’ansia nella popolazione con dolore cronico arriva al 60% se si considerano in modo unitario il disturbo d’ansia generalizzato, il disturbo dell’adattamento con ansia, il disturbo ossessivo compulsivo, il disturbo da stress post-traumatico e l’agorafobia (Ercolani e Pasquini, 2007).

Inoltre Ercolani e Pasquini (2007) ricordano che l’ansia di rado si manifesta in modo isolato, ma di solito coesiste con la depressione e nel paziente con dolore cronico non maligno le componenti dominanti dell’ansia sono l’ipervigilanza e la catastrofizzazione. In questi pazienti l’ansia assume le caratteristiche della paura della morte, del dolore incontrollabile oppure di preoccupazioni per famiglia, problemi finanziari, perdita della dignità e del controllo del proprio corpo e dell’inquietudine spirituale, come ricorda Antonelli (2003).

La catastrofizzazione del dolore si è rivelata essere una delle variabili psicologiche con la più robusta e consistente associazione sia con il dolore in forma acuta che cronica, sia con la percezione del dolore in contesto sperimentale (Fillingim, 2015).

Non è chiaro quando il termine catastrofizzazione sia stato introdotto nella letteratura psicologica, inizialmente venne usato per descrivere la presenza di pensieri eccessivamente negativi, tipici dei pazienti depressi (Sullivan, 2009). Beck (1967) descrive la catastrofizzazione come una “distorsione cognitiva” che può contribuire allo sviluppo o all’esacerbazione dei sintomi di depressione. Secondo la definizione di Sullivan e collaboratori (2000) la catastrofizzazione può essere intesa proprio come un set mentale messo in atto durante un esperienza di dolore attuale oppure quando tale esperienza viene anticipata. Quando la tendenza a catastrofizzare viene trattata in relazione alla sintomatologia ansioso-depressive essa è intesa in modo “patologico”, in termini globalmente negativi; nel contesto del dolore, la catastrofizzazione non possiede necessariamente questa valenza (Sullivan et al, 2009). Nella vita quotidiana di alcuni soggetti infatti la tendenza a catastrofizzare può avere una valida funzione di strategia di coping (Sullivan, 2009).

Sullivan, Bihop e Pivik (1995), con lo scopo di realizzare uno strumento self-report valido e indicativo della tendenza a catastrofizzare il dolore sia in popolazione clinica che normale, nel 1995 sviluppano la Pain Catastrophizing Scale (PCS). Tale scala è intesa come uno strumento di valutazione comprensivo per l’indagine dei pensieri catastrofici correlati al dolore; valuta tre dimensioni del dolore quali la ruminazione (con item quali “continuo a pensare a quanto intensamente voglio che il dolore finisca”), l’esagerazione (ad esempio “mi chiedo se qualcosa di serio possa accadermi”) e il sentimento di impotenza (ad esempio “sento di non riuscire ad andare avanti”). Tale strumento di valutazione è stato validato in lingua italiana dal gruppo di Monticone e collaboratori (2011), la Pain Catastrophizing Scale Italian version (PCS-I), usata per la valutazione dei pensieri e dei sentimenti che i soggetti provano nel momento in cui sperimentano dolore.

 

Come i pensieri catastrofici influenzano il dolore

Sono stati proposti differenti modelli teorici per spiegare il modo in cui la presenza di pensieri catastrofici possano influenzare la percezione del dolore (Sullivan et al, 2001).

 

Dolore, catastrofizzazione e rimuginio

Secondo il modello di Beck, la catastrofizzazione del dolore può essere considerato uno schema mentale cognitivo ed affettivo negativo, caratterizzato dall’amplificazione degli effetti negativi del dolore, dalla ruminazione e dal rimuginio sul dolore, e da sentimenti di impotenza nell’affrontarlo (Sullivan et al, 2001). Coloro che tendono a catastrofizzare il dolore risultano avere una minore percezione di controllo del dolore, un funzionamento sociale ed emotivo peggiore, e una peggiore risposta ai trattamenti medici (Lo Sterzo, 2015). Secondo tale prospettiva i pensieri catastrofici legati al dolore verrebbero trattati similmente al trattamento attuato per la depressione, utilizzando per esempio tecniche come la ristrutturazione cognitiva, con lo scopo di ridurne la disfunzionalità (Sullivan, 2009). Ciò comporterebbe un miglioramento del funzionamento fisico e psicologico nel breve termine ed un aumento della probabilità di ritornare a lavoro nonostante la presenza di dolore persistente (Lo Sterzo, 2015).

 

Attenzione e dolore

Un secondo modello descrive la catastrofizzazione come una forma di valutazione o appraisal (Sullivan, 2009). Questo processo di valutazione ha come risultato un’aumentata attenzione al dolore, che comporta una percezione di minaccia maggiore e l’aspettativa di un dolore più forte (Sullivan, 2009). In questa ottica un intervento utile comporta l’uso di tecniche di spostamento del focus attentivo dai pensieri catastrofici, per esempio attraverso strategie di distrazione. Questo teoricamente comporterebbe una riduzione delle risorse attentive destinate ai pensieri catastofici e alla percezione del dolore (Eccelston & Crombez, 1999).

I risultati di numerose ricerche hanno mostrato che la catastrofizzazione è strettamente associata ad altre componenti della valutazione. Per esempio, potrebbe essere correlata con le valutazioni dell’efficacia percepita dal soggetto nel controllo o nella diminuzione del dolore: un’associazione negativa tra catastrofizzazione e valutazione del controllo sulla situazione è stata già riportata (Crisson e Keefe, 1988). Pare inoltre che la catastrofizzazione funzioni come un processo di appraisal, collegando le credenze sul dolore (beliefs) con gli esiti del dolore (Sullivan et al., 2000).

L’attenzione rivolta al dolore potrebbe essere quindi un substrato psicologico critico della relazione tra catastrofizzazione ed esperienza del dolore, in particolare contribuendo ad aumentare il distress fisico ed emotivo (Sullivan, 2009). Alcune metodologie, come una versione modificata del test di Stroop (Williams, Mathews, & MacLeod, 1996) o il paradigma “Dot-Probe” (MacLeod, Mathews & Tata, 1986) potrebbero essere utili per approfondire il fenomeno della focalizzazione attentiva correlata al dolore nei soggetti con tendenza alla catastrofizzazione.

Uno studio di Khatibi e collaboratori (2009) ha cercato di determinare se pazienti affetti da dolore cronico mostrino una forma di attenzione selettiva per immagini di volti esprimenti dolore. La ricerca ha utilizzato proprio una versione modificata del dot-probe detection task: in questo compito (MacLeod, Mathews & Tata, 1986), due stimoli lateralizzati, uno minaccioso e l’altro neutro, appaiono brevemente sullo schermo e la loro scomparsa è seguita dalla comparsa di un probe (una figura geometrica) nella posizione precedentemente occupata da uno dei due stimoli. Ai partecipanti viene richiesto di rispondere il più velocemente possibile alla comparsa del probe. I tempi di reazione in questo compito forniscono “un’istantanea” della distribuzione dell’attenzione spaziale del soggetto, con risposte più veloci alla comparsa del probe in regioni dello spazio verso cui era stata diretta l’attenzione in precedenza. Nello studio di Khatibi e collaboratori (2009) vengono presentate espressioni facciali di dolore, di felicità e neutre. I risultati suggeriscono che i pazienti affetti da dolore cronico, rispetto ai soggetti di controllo prestino attenzione selettivamente ai volti esprimenti dolore; inoltre la tendenza a shiftare l’attenzione verso tali stimoli è influenzata positivamente dall’elevato livello di paura del dolore o delle lesioni: maggiore è il livello di paura per il dolore, maggiore l’attenzione rivolta agli stimoli di dolore (Khatibi et al., 2009). Saranno necessari ulteriori studi per approfondire tale aspetti.

 

Catastrofizzazione del dolore come strategia di coping

Un ulteriore modello ipotizza che la tendenza a catastrofizzare possa essere vista come una modalità di coping, in particolare come un metodo per elicitare il supporto sociale da parte degli altri (Sullivan, 2009). Questa ipotesi è stata avvalorata dagli studi che mostrano come i soggetti con la tendenza a catastrofizzare, ossia i catastrophizer non solo sperimentano maggior dolore, ma sono anche in grado di esprimerlo in maniera più evidente (Sullivan et al., 2000).

Questa proposta valorizza un’eventuale dimensione adattiva della catastrofizzazione: le ricerche sviluppate negli ultimi decenni indicano che gli individui che tendono a catastrofizzare sono più attenti ai segnali di dolore e più in grado di manifestare il distress provato sia dal punto di vista fisico che emotivo (Sullivan et al., 2001). Se consideriamo che il dolore è spesso indicativo della presenza di un danno tissutale, prestare maggior attenzione ai segnali di dolore può avere un ruolo adattivo: maggior attenzione ai segnali di dolore comporta una miglior comunicazione del dolore stesso e può portare a un individuazione e trattamento tempestivo della causa del dolore stesso.

La catastrofizzazione potrebbe rappresentare una dimensione più ampia di un approccio di coping di tipo interpersonale o condiviso: gli individui potrebbero differire per il grado in cui essi adottano obiettivi sociali o relazionali nei loro sforzi ad affrontare lo stress (Sullivan et al., 2000). Gli autori affermano che i catastrophizer possono impegnarsi in espressioni del dolore esagerate, in modo tale da massimizzare la vicinanza delle persone a loro prossime, sollecitare assistenza ed incitare risposte empatiche da parte di altri membri del gruppo sociale; perseguendo questi obiettivi di carattere sociale, i catastrophizer potrebbero inavvertitamente rendere la loro esperienza di dolore molto più negativa (Sullivan et al., 2000). In aggiunta, sollecitazioni o risposte collusive da parte di altri potrebbero servire per innescare, mantenere o rinforzare un’espressione del dolore esagerata.

La revisione dei principali modelli teorici proposta da Sullivan e collaboratori (2001) suggerisce che in realtà essi non siano necessariamente incompatibili e possano rappresentare diversi ambiti del rapporto tra le due variabili. I primi due modelli, la proposta Beckiana e l’appraisal model potrebbero essere intese come spiegazioni “prossimali” della relazione tra catastrofizzazione e dolore: essi aiutano a chiarire i possibili meccanismi alla base di questa relazione ed a spiegare l’insorgenza e il mantenimento della catastrofizzazione. Il modello della catastrofizzazione come strategia di coping può essere interpretato come una spiegazione più “distale” della relazione tra le due variabili: l’inseguimento di obiettivi sociali si trasformerebbe inavvertitamente in un meccanismo maladattivo, accrescendo la negatività dell’esperienza di dolore.

 

Variabili anatomiche e variabili psicologiche nel dolore

Il modello bio-psico-sociale del dolore suppone che l’esperienza del dolore sia determinata da un interazione complessa e bidirezionale tra fattori biologici, psicologici e sociali (Fillingim, 2015). Nel loro articolo Sullivan e collaboratori (2001) evidenziano la correlazione esistente tra gli aspetti fisiologici e gli aspetti psicologici della catastrofizzazione, ricordando come la teoria del cancello (gate control theory), nota anche come teoria del controllo del dolore in entrata, di Melzack e Wall (1965) sia stata la prima teoria a suggerire che il cervello possa giocare un ruolo dinamico nella percezione del dolore, invece che essere considerato un passivo ricettore di segnali nocicettivi.

Come suggerisce Summers (2000), la teoria propone che l’esperienza del dolore coinvolga tre dimensioni, distinte ma interconnesse: una componente fisiologica, che tratteggia il cammino dello stimolo doloroso dalla periferia al centro; due dimensioni psicologiche, di cui una riguarda la valutazione cognitiva, che partecipa al processo di costruzione di significato dell’esperienza del dolore, l’altra concerne un processo affettivo-motivazionale, legato a valori, alle credenze, ai tratti ed alle esperienze del singolo individuo (Molinari e Castelnuovo, 2010).

Sarebbero specifiche attività del cervello ad aprire o chiudere il meccanismo spinale del cancello, accrescendo o diminuendo la sensazione di dolore, e che i fattori psicologici abbiano un impatto sull’esperienza di dolore tramite la loro influenza sul meccanismo di controllo spinale. Lo studio dell’attività cerebrale correlata al dolore per mezzo di strumenti tecnologici, come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) ha permesso di approfondire ancora di più il rapporto tra i meccanismi psicologici e fisiologici coinvolti nell’esperienza del dolore stesso, evidenziando come le variabili psicologiche collegate al dolore potrebbero avere specifici substrati neurofisiologici e neuroanatomici.

Uno studio di Bandura e collaboratori (1987) ha riscontrato la presenza di un collegamento tra variabili psicologiche e sistema degli oppiacei endogeni. I partecipanti allo studio sono stati sottoposti a stressor (pressioni con freddo), in seguito sono state insegnate loro numerose strategie cognitive di controllo del dolore ed infine hanno valutato la fiducia che riponevano nelle loro abilità di tollerare il dolore. L’uso di strategie cognitive ha favorito una maggiore percezione di auto-efficacia (self-efficacy), con un aumento della tolleranza al dolore (Sullivan et al., 2001). Tuttavia, sulla percezione di auto-efficacia ha interferito di più la somministrazione di naloxone rispetto che l’uso di tecniche cognitive. La relazione che è stata osservata tra catastrofizzazione e self-efficacy suggerisce comunque che la catastrofizzazione potrebbe essere collegata in qualche maniera all’azione degli oppioidi endogeni.

Melzack (1990; 1993; 1999) ha poi proposto la teoria della neuromatrice, approfondendo ed ampliando il ruolo dinamico del cervello nella spiegazione del dolore. Questo modello suggerisce che nonostante l’elaborazione del dolore a livello cerebrale sia geneticamente determinata, può essere modificata dall’esperienza. È ragionevole pensare che, impegnandosi in attività cognitive che amplificano il segnale di dolore, i meccanismi neurali centrali diventino più sensibili nelle persone catastrophizer, causando uno stato di iperalgesia cronica (Sullivan et al., 2000).

Per esempio, le interazioni sociali che rinforzano il dolore ed i sintomi fisici durante l’infanzia possono avere conseguenze fisiologiche a lungo termine: stimolazioni eccessivamente avversive, violenze multiple, malattie o abusi, possono alterare l’architettura neurale e causare uno stato cronico di iperalgesia.

Per Sullivan e collaboratori (2001) le recenti ricerche suggeriscono che la relazione tra catastrofizzazione ed il meccanismo nocicettivo centrale sia bidirezionale: anche se il processo che sta alla base della relazione potrebbe inizialmente essere di natura psicologica, le variazioni della sensibilità neurale, causate dall’esperienza, potrebbero essere tali da portare questi processi sempre più sotto il controllo fisiologico. La natura potenzialmente autosufficiente della relazione bidirezionale tra catastrofizzazione e processo di percezione del dolore potrebbe essere uno dei fattori che contribuisce alla cronicizzazione di alcune condizioni di dolore.

La catastrofizzazione può essere considerata un buon indicatore per accresciute esperienze di dolore: alcune sue caratteristiche, come la sua relativa stabilità, la sua possibilità di misurazione e la grandezza del suo legame con il dolore e con gli outcomes legati al dolore rende la catastrofizzazione adatta alle ricerche sulla psicologia del dolore (Sullivan et al., 2001).

 

Componenti genetiche e psicologiche nella percezione del dolore

Seguendo le proposte del modello bio-psico-sociale, in anni recenti sì è dato spazio allo studio dell’aspetto biologico del dolore (Fillingim, 2015), in particolare al contributo della componente genetica, con il tentativo di individuare geni associati alle risposte al dolore sia clinico che sperimentale (Fillingim et al.,2008; Diatchenko et al., 2013), apportando nuove informazioni riguardo al circuito biologico che contribuisce all’esperienza di dolore. Ma l’influenza della componente genetica e di quella psicologica sulla percezione del dolore è quasi sempre stata concettualizzata separatamente (Fillingim, 2015). Trost e collaboratori (2015), in uno studio condotto su gemelli monozigoti e dizigoti, ipotizzano che vi sia un substrato genetico che contribuirebbe alla sviluppo della tendenza a catostrofizzare, una delle variabili psicologiche che maggiormente correlano con il dolore.

L’idea che la catastrofizzazione sia in parte geneticamente determinata non stupisce, alla luce degli studi che già hanno dimostrato come molti fenotipici psicologici come la personalità, la depressione e le funzioni cognitive lo siano (Bouchard & McGue, 2003; Spangers et al., 2010). Nonostante tale evidenza, Trost e collaboratori (2015) sottolineano come la maggior quota di variabilità nella catastrofizzazione del dolore sia attribuibile a fattori ambientali: potrebbe esservi una predisposizione innata verso la catastrofizzazione la quale causerebbe un’elevata attenzione rivolta alle informazioni legate al dolore, ciò faciliterebbe l’apprendimento di una tendenza a prestare maggior attenzione agli outcome negativi correlati al dolore (Fillingim, 2015).

Questi risultati inoltre sottolineano come la nostra propensione a separare i fattori di rischio in diversi domini (ad esempio biologico vs psicologico) rappresenti una distinzione artificiale, basata principalmente bias e limitazioni delle ricerche scientifiche più che su di una accurata caratterizzazione di cosa influenzi la salute dell’uomo (Fillingim, 2015). I futuri studi sui correlati sociali, cognitivi, emozionali e fisiologici della catastrofizzazione contribuiranno in maniera sostanziale allo sviluppo e all’elaborazione di una teoria comprensiva, che affronti l’interazione tra i fattori psicologici e fisiologici che sono alla base dell’esperienza del dolore (Sullivan et al., 2001).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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