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Ghost in the shell: cyborg, coscienza e bioetica tra oriente e occidente

Arriva nelle sale cinematografiche Ghost in the Shell, produzione americana nonostante il marchio Giapponese. E' la crisi della Fantascienza occidentale?

Di Mauro Bruni

Pubblicato il 03 Apr. 2017

Da fine marzo sul grande schermo l’attesissimo Ghost in the Shell, prodotto nientemeno che dai colossi californiani Dreamwork e Paramount Pictures, nonostante il marchio sia Giapponese. E’ evidente che stiamo assistendo alla crisi dello Sci-Fi Occidentale.

 

D’accordo, un annuncio di questo genere non ha alcun senso. Lo avrebbe in Giappone, dove il marchio Ghost in the Shell è un romanzo, un manga, due film, due serie TV e videogioco. Celebre come Spiderman in occidente, fa la sua comparsa nel 1989 nel manga, o sarebbe meglio dire nel gekiga (Man-ga: immagini disimpegnate; Geki-ga: immagini drammatiche) disegnato da Masamune Shirow. Il primo adattamento per il cinema è del 1994, un film di animazione dall’architettura registica più vicina alla cinematografia in carne e ossa piuttosto che al cartone animato, con trame complesse e dialoghi di spessore.

 

Ghost in the Shell: trama

In un mondo sovrappopolato e iper tecnologico, le reti informatiche e il flusso delle informazioni hanno raggiunto ogni aspetto dell’esistenza. Protagonista di Ghost in the Shell, thriller fantascientifico dai toni cyberpunk un po’ retrò, è Motoko Kusanagi, il “Maggiore” della Sezione 9, divisione speciale della polizia che contrasta i crimini informatici. Il suo corpo è un contenitore per la coscienza, usato per le sue straordinarie doti tecniche e odiato perché limite all’espansione del Sé.

La storia narrata stuzzica il palato all’evoluzionismo darwiniano, sviluppandosi tra azione, tecnica investigativa ed esistenzialismo cibernetico, in un mondo dove la tecnologia non è nemica ma integrata -forse troppo- al punto da creare conflitti irrisolvibili tra spirito e corpo.

Proprio nel rapporto con il proprio corpo, vero fulcro emotivo di tutta la storia, sta l’elemento originale del franchise Ghost in the Shell, ed è probabilmente a questo che si deve il suo successo.

Ad arricchire il tutto, scontri a fuoco, spionaggio industriale, terrorismo informatico, arti marziali e diplomazia internazionale, tanto per non annoiarsi. Verrebbe da dire che non si tratta della solita fantascienza.

 

Il blocco creativo dello Sci-Fi Occidentale

Perché due colossi come Paramount Pictures Corporation e Dreamworks hanno scelto di acquistare i diritti di questa proprietà giapponese? Dalle immagini disponibili nei trailer di Ghost in the Shell, sembra proprio che lo sforzo di questa produzione si sia esaurito nel convertire l’anime giapponese del 1994 in una pellicola con attori in carne e ossa.

Chi ha visto l’originale riconosce immediatamente nelle scene in anteprima del film, le stesse immagini, come se si passasse dalle tavole disegnate al set cinematografico, ricreando le stesse inquadrature, ricalcando in tutto e per tutto la posizione dei personaggi all’interno della scena, i movimenti, i tempi, tutto. Se così fosse per gran parte del film si tratterebbe di un processo fotocopiativo raro nel mondo del cinema. Nel nuovo adattamento di Ghost in the Shell in uscita il 30 Marzo in Italia (regia di Rupert Sanders), la scelta di Scarlett Johansonn come protagonista scatenò diverse accuse di whitewashing dal momento che il personaggio originale del manga è di etnia asiatica. Il Whitewashing è una pratica che nel cinema assegna a un interprete bianco la recitazione di un ruolo che originariamente viene ricoperto da un attore di etnia non caucasica, al fine di rendere il personaggio più appetibile al grande pubblico. Le polemiche sono in seguito decadute.

Ghost in the shell cyborg coscienza e bioetica tra oriente e occidente -IMM 

Ghost in the Shell: in alcune scene del film è possibile riconoscere le stesse immagini dell’anime giapponese

 

Del resto l’ultimo trentennio della produzione fantascientifica americana, rivoluzionato ad ogni decade dal successo stratosferico di titoli del calibro di Blade Runner, Terminator e Matrix, attraversa una fase di stanca; sfruttato fino all’osso anche il filone dell’esplorazione spaziale (Prometeus, Gravity, Cloud Atlas, l’eccezionale Interstellar, The Martian), la crisi delle idee è evidente.

In Giappone, le case di produzione dei soli anime sono 430 e sono in aumento. Il costo per un episodio di 20 minuti si aggira sugli 80.000 euro; il tutto da moltiplicare per migliaia di titoli. Se quella occidentale è un’industria cinematografica dominata da poche majors con azioni di borsa e un grande fabbisogno di incassi, quella nipponica è multiforme, magmatica e più ispirata. Perché i giapponesi esportano la loro fantasia in tutto il mondo? Cosa hanno di diverso le loro opere, tanto da spingere uno come Steven Spielberg -non proprio l’ultimo arrivato in fatto di idee-, a pescare nell’immenso mare orientale dell’animazione?

 

Immaginario cristiano vs immaginario shinto

I riferimenti delle opere nipponiche di fantasia sono gli stessi che si ritrovano negli altri medium espressivi: shintoismo, buddismo, bushido, sono il substrato culturale del costume che inevitabilmente permea ogni opera, imprimendo ai personaggi quell’etica di fondo, fiera e marziale, che fa della resilienza e della disciplina le virtù in cui da spettatori ci identifichiamo più volentieri.

I giapponesi, maestri dell’estetica e dell’armonizzazione, danno vita molto più spesso di quanto non avvenga altrove, a opere che elogiano la bellezza attraverso l’integrazione e l’equilibrio, con curiosità e piacere, laddove noi occidentali mostriamo una netta tendenza alla separazione e alla rimozione come mezzo di regolazione entropica.

La costante nell’immaginario occidentale fantascientifico –basta pensare ai titoli già citati-, sta nel fatto che macchine e cyborg sono oggetti pensati per sostituirci, per fare il lavoro sporco, e solo successivamente, quando per errore acquistano una volontà propria ribellandosi al loro creatore, la trama diventa invariabilmente quella della lotta tra esseri umani e macchine.

Da trent’anni la nostra fantasia associa al progresso tecnologico un esito infausto, come se “l’uomo che progetta l’uomo” infrangesse un taboo scatenando profondi sensi di colpa. I giapponesi invece non sembrano subirli, al contrario, hanno inventato un genere a sé (mecha); a milioni in tutto il mondo siamo cresciuti appassionandoci ai loro robot, esempio perfetto di integrazione e dell’alleanza tra uomo e macchina.

In quale rapporto si trovano il desiderio, o meglio la capacità dell’uomo di infrangere i propri limiti -pensiamo all’eugenetica o alla clonazione cellulare- e la filosofia repressiva e punitiva del mondo occidentale? Esserci sostituiti a Dio, riparati dal vetro di un laboratorio o dai confini di carta di un romanzo, può essere l’elemento che impone alla fantasia un mondo popolato da esseri ostili, punitivi e ritorsivi? Forse possiamo fare ancora un passo indietro.

La prima opera del genere fantascienza –Frankenstein di Mary Shelley-, esprime in pieno la paura dell’essere umano per lo sviluppo tecnologico, per il diverso, e la condanna della società per l’aberrazione etica che ha dato vita a un mostro. Dunque è già dal XIX secolo, cioè dall’epoca del grande balzo tecnologico dell’uomo, che inizia a manifestarsi la tendenza dei prometei occidentali, cristiani e sacrileghi, a sentirsi decisamente colpevoli?

Diversamente, la religione autoctona giapponese, non riconosce nell’istinto una fonte di peccato. Se in occidente il “male” è proiettato all’esterno e collocato in un nemico da cui psicologicamente è più facile difendersi –potremmo aggiungere…all’insegna di una purezza e di una bontà d’animo, a sua immagine e somiglianza-, nella tradizione shintoista nessuna azione è codificata come peccaminosa di per sé; bene e male sono conseguenze secondarie alle scelte di vita del singolo di perseguire la via della pace e della purezza (bushido), oppure quella della dannazione.

Un ultimo elemento che vale la pena accennare riguarda la differenza, sempre tra gli autori orientali e occidentali, nel modo di rappresentare gli elementi perturbanti; il livello di violenza delle produzioni giapponesi supera di gran lunga quello delle opere occidentali tanto che gli anime, esportati in tutto il mondo, subiscono una censura dalla maggioranza dei paesi importatori.

Lo stesso vale per gli impulsi di natura sessuale: se nel nostro mondo l’esibizione plateale del corpo arriva quasi ad irritare il senso della vista, l’oriente –ancora il Giappone in particolar modo- si dedica alla rappresentazione della sessualità in maniera trasversale, riconoscendone la naturale importanza anche nei confronti delle generazioni più giovani e con modalità spesso distanti dal voyerismo nudo e crudo, cercando una seduzione più raffinata, dominata dall’alternanza tra desiderio e rinuncia. La vista esplicita dei caratteri sessuali è sostituita da altri elementi: il tono della voce, la postura, il tatto, l’olfatto, secondo quella tradizione filosofica della seduzione che va sotto il nome di iki.

Eccoci dunque. C’è sempre un po’ da temere quando “Hollywood” decide di riportare in vita vecchi miti, leggende popolari o successi d’oltreoceano, perché con la sua immensa macchina è in grado di creare capolavori indimenticabili, così come prodotti dalle meccaniche incerte, senza anima. Questa volta, come nel caso di Ghost in the Shell, si affida al lavoro compiuto da altri, e all’intuito, nel tentativo di riaccendere l’interesse di un pubblico annoiato da scontri tra uomo e macchina e dal solito replicante ribelle da “mettere a posto” solo perché diverso.

 

GHOST IN THE SHELL – GUARDA IL TRAILER:

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Mauro Bruni
Mauro Bruni

Psicologo Psicoterapeuta

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