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Più umano di te…o solo migliore: come funziona il processo di auto-umanizzazione?

Nel processo di auto-umanizzazione verrebbe prima il vedere se stessi come speciali e buoni e solo successivamente come umani, difetti compresi.

Di Ilaria Loi

Pubblicato il 06 Apr. 2017

Auto-umanizzazione: secondo un recente studio la nostra motivazione a pensare di essere persone buone surclassa il nostro desiderio di sentirci umani. 

 

Un recente studio mette in discussione l’idea secondo cui l’essere umano sarebbe così motivato a credere nel suo essere essenzialmente umano da sostenere ed approvare con piacere anche le parti più riprovevoli della condizione umana.

La maggior parte di noi possiede un’idea, seppur vaga, di cosa voglia dire essere umani. La ricerca mostra come sembri esistere un certo grado di accordo circa il fatto che tratti di personalità come l’essere socievoli, gelosi o impazienti sarebbero più tipicamente “umani” di altri quali, ad esempio, l’essere freddi e impassibili o, dall’altro lato, pii e misericordiosi.

Inoltre, in generale, all’essere umano sembrerebbe piacere il considerarsi effettivamente umano, attribuendo a se stesso più tratti di personalità “umani”, rispetto a quanti non ne attribuisca agli altri. In altri termini, ci auto-umanizzeremmo, rivendicando per noi stessi sia gli aspetti positivi sia quelli negativi, ma solo fintanto che questi sono in grado di enfatizzare la nostra stessa umanità.

 

Auto-umanizzazione: cosa si intende con il termine “umano”?

Proprio in questo senso, con il termine auto-umanizzazione (dall’inglese self-humanization) ci si riferisce in generale alla presupposta tendenza di ognuno di noi a vedersi come essenzialmente più umano degli altri (ad es. Haslam et al., 2005).

In generale, il concetto di “umanità” viene usato in riferimento ad una serie di caratteristiche che possono appartenere esclusivamente al genere umano (ad es. essere educati, meticolosi o scortesi) o, al contrario, essere anche attribuiti agli animali (ad es. essere curiosi, attivi, impulsivi).

Questi ultimi tratti vengono percepiti come largamente diffusi a livello della popolazione, si ritiene che emergano precocemente durante lo sviluppo ontogenetico e che siano cross-culturalmente universali. I tratti esclusivamente dell’uomo, invece, sono ritenuti relativamente poco prevalenti ed universali e si pensa emergano più tardivamente nel corso dello sviluppo (Haslam et al., 2005).

 

Auto-umanizzazione: sentirsi umani implica un’alta immagine positiva di sé?

Recentemente, però, un nuovo studio, condotto da Cypryańska e collaboratori dell’Università di Varsavia e di Berna, ha aperto la strada alla messa in discussione della reale esistenza di questo fenomeno, se non altro per come è stato definito in passato.

Infatti, una consistente mole di evidenze mostrerebbe come l’essere umano sia profondamente propenso a proteggere e conservare un’immagine di sé altamente positiva, anche grazie all’utilizzo di bias cognitivi che permettono l’attribuzione della colpa per i propri fallimenti alle circostanze e quella per i fallimenti altrui alle loro carenze e mancanze. Viene così da chiedersi se effettivamente l’essere umano abbia la tendenza a sovrastimare i propri aspetti negativi, pretendendo così di proclamarsi più umani, pregi e difetti compresi. In base alla ricerca, pubblicata dal Journal of Social Psychology, questa sembrerebbe essere una mera semplificazione: quando si tratta di caratteristiche umane considerate sgradite e indesiderate, le persone tenderebbero a vedersi come essenzialmente simili a tutte le altre.

Per poter giungere a questa conclusione, Cypryańska e collaboratori hanno portato avanti uno studio che ha visto coinvolti 250 studenti universitari in Polonia, Corea ed Italia. Ai soggetti partecipanti, in media di 23 anni, è stato chiesto di valutare se stessi sulla base di 40 diversi tratti di personalità in relazione agli altri studenti. Alcuni di questi tratti erano altamente associati alla natura umana, come empatico o geloso, mentre altri, come l’essere freddi e impassibili o altruisti, non lo erano.

Le ricerche presenti in letteratura hanno generalmente studiato il processo di auto-umanizzazione tramite la messa in atto di confronti di tipo sociale. Alle persone viene chiesto di valutare su scala Likert (che va da “più degli altri” a “meno degli altri”) se ritengono di possedere certi tratti di personalità in livelli maggiori, minori o simili agli altri (ad es. “Quanto ti valuti amichevole in confronto alla media degli altri studenti universitari?”). Misurandola in tal modo, l’ auto-umanizzazione viene definita come la tendenza ad attribuire al sé più caratteristiche umane degli altri. Inoltre, secondo alcuni studi, tale attribuzione sembrerebbe essere più marcata in caso di tratti considerati indesiderabili (Haslam et al., 2005).

Secondo Cypryańska e collaboratori, però, una tale linea di ricerca risulterebbe essere abbastanza problematica a causa delle scale di misurazione utilizzate e di come sono state usualmente interpretate. Infatti, secondo quanto da loro sostenuto, tali conclusioni circa la natura dell’ auto-umanizzazione sarebbero scaturite dall’aver erroneamente ritenuto che un giudizio di sé relativamente sopra la media rappresentasse necessariamente l’attribuzione di maggiori caratteristiche al sé piuttosto che agli altri.

Gli autori hanno così revisionato e replicato gli studi precedenti in cui era emersa una significatività a livello dell’ auto-umanizzazione con tratti negativi. Ciò che hanno notato è che in realtà i soggetti partecipanti agli studi hanno raramente dichiarato di possedere maggiori tratti “umani” negativi, ma dichiaravano solo in modo meno marcato di possederne meno. Quindi le evidenze in realtà non dimostrerebbero che le persone siano effettivamente motivate ad apparire più umane a tal punto da approvare e ad abbracciare anche le parti più riprovevoli della natura umana.

D’altra parte, i partecipanti si sono spesso valutati superiori alla media per quanto riguarda i tratti positivi. Piuttosto che confermare che l’essere umano associ se stesso sia a vizi sia a virtù tipicamente umane, quanto rilevato da Cypryańska e collaboratori sarebbe facilmente associabile al ben noto effetto Better-Than-Average (in italiano “Migliore della media”; Alicke et al., 1995), che si riferisce alla tendenza a ritenere di avere molte più caratteristiche positive che non negative e, in generale, di essere migliori della popolazione media.

Secondo questo studio, quindi, in ordine di importanza verrebbe prima il vedere se stessi come speciali e buoni e solo successivamente come umani, difetti compresi.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Alicke, M. D., Klotz, M. L., Breitenbecher, D. L., Yurak, T. J., & Vredenburg, D. S. (1995). Personal contact, individuation, and the better-than-average effect. Journal of Personality and Social Psychology, 68, 804–825. doi:10.1037/0022-3514.68.5.80
  • Cypryańska, M., Nezlek, J. B., Jaskółowska, A., & Formanowicz, M. M. (2017). Reconsidering research on self-humanizing: The importance of mean comparative judgments. The Journal of Social Psychology.
  • Haslam, N., Bain, P., Douge, L., Lee, M., & Bastian, B. (2005). More human than you: attributing humanness to self and others. Journal of personality and social psychology, 89(6), 937.
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