expand_lessAPRI WIDGET

Terapia della Gestalt e Gestalt Dialogica: il contatto è sufficiente a determinare il cambiamento della personalità?

Riesaminando la teoria della terapia della Gestalt, ci si è chiesti se il contatto è sufficiente a determinare il cambiamento della personalità umana

Di Roberto Minotti

Pubblicato il 12 Feb. 2017

Aggiornato il 24 Mag. 2017 15:19

In questi ultimi anni, riesaminando la teoria della terapia della Gestalt, ci si è posti la domanda se un approccio stadiale fosse ancora contemporaneo e soprattutto se potesse rispondere alle seguenti istanze: il contatto è sufficiente a determinare il cambiamento e l’accrescimento della personalità umana?

L’uomo è spirito. Ma che cos’è lo spirito? Lo spirito è L’io. […] L’uomo è una sintesi dell’infinito e del finito, del temporale e dell’eterno, di possibilità e necessità, insomma, una sintesi.

(Kierkegaard S.)

Ogni cosa realizzata dall’uomo rappresenta una sintesi, e non c’è novità più vitale nel mondo che la sua presenza creativa attraverso la sua attività.

 

In questi ultimi anni, riesaminando la teoria della terapia della Gestalt, descritta nel suo testo fondamentale del 1951 da Perls F., Hefferline R. F. e Goodman P., ci si è posti la domanda se un approccio stadiale, focalizzato essenzialmente sul confine di contatto tra organismo e ambiente, fosse ancora contemporaneo e soprattutto se potesse rispondere alle seguenti istanze: il contatto è sufficiente a determinare il cambiamento e l’accrescimento della personalità umana? Che differenze ci sono tra “contatto” e “relazione” e in che rapporto sono tra loro?

Verificando in questi ultimi anni i numerosi casi clinici osservati durante le psicoterapie, si è giunti alla convinzione che l’approccio stadiale, le interruzioni al contatto e il concetto stesso di contatto, non potevano chiarire molti comportamenti dell’individuo e soprattutto non erano in grado di cogliere tutta la freschezza creativa che possiede la persona, le sue risorse e la sua competenza trasformativa che soltanto la relazione con l’altro può attivare.

Per giungere a tali considerazioni, si è seguito il criterio che tuttora si crede essere il più puntuale e rigoroso possibile, ovvero esporre le integrazioni teoriche attraverso i casi clinici, così da coniugare la teoria con la prassi terapeutica, per elaborare un metodo il più possibile analitico ed esplicativo.

 

Terapia della Gestalt: da una teoria stadiale ad una visione dinamica

La terapia della Gestalt del PHG (sono le iniziali degli autori del già menzionato testo: Teoria e pratica della terapia della Gestalt) considera il sé come la funzione di stabilire contatto col presente reale e transitorio. Il sé, quindi, non è né una forma rigida né tanto meno un’istanza psichica, ma una funzione. Infatti, l’attività del sé è un processo temporale inserito in stadi che vanno dal contatto preliminare al contatto, e dal contatto finale al post-contatto.

Durante questo processo, il sé può interrompere il contatto creativo con l’ambiente attraverso la confluenza, l’introiezione, la proiezione, la retroflessione e l’egotismo.

Per chiarire il più possibile il funzionamento dell’organismo in situazione, la terapia della gestalt introduce tre tipicità particolari che il sé utilizza ogni qualvolta vuole soddisfare degli scopi speciali. Tali funzioni sono: l’Es, l’Io e la Personalità.

L’Es rappresenta, nello stadio iniziale, lo sfondo costituito dalle eccitazioni organiche, la percezione indistinta dell’ambiente, le primissime sensazioni che collegano l’organismo al suo ambiente. Stiamo parlando degli aspetti corporei e sensoriali, perlopiù inconsapevoli, nello stadio del rilassamento.

La funzione dell’Io è quella d’identificare o di alienare le varie possibilità, intensificando o riducendo il contatto e mobilizzando le risorse necessarie per aggredire l’ambiente.

La Personalità è l’ultima tipicità del sé e rappresenta gli atteggiamenti assunti nei rapporti interpersonali ed è l’assunzione di ciò che l’individuo è. La visione stadiale appena descritta, con la perdita delle funzioni dell’Io e le modalità di interruzione al contatto, spesso in terapia non trova un’applicazione coerente ed efficacie, in quanto la relazione è imprevedibile e difficilmente ordinabile in stadi prestabiliti.

Anche per tale ragione, a questa visione, si è pensato di integrare una prospettiva evolutivo/dinamica con le strutture relazionali.

Tali strutture (il sé metabolico, simbolico, espressivo, metacognitivo e sincronico) sono continuamente in interazione tra loro, non sono stadi che si attivano appena quello precedente ha completato la sua maturazione, ma l’evoluzione avviene in una crescita globale e armonica. Le strutture dinamiche del sé si mescolano e si combinano tra loro creando altre strutture, senza un ordine prestabilito, ma secondo il contesto e l’interazione tra l’individuo e il suo ambiente. Usando una metafora, tale armonizzazione è come quella che accade tra i colori e i suoni, che tendono ad accordarsi o legarsi tra loro poiché questa è la loro natura, una natura relazionale. Ogni colore ha una sua identità, ma è nello stesso tempo il risultato dell’insieme di altri colori. Il singolo elemento esiste per dare forma al tutto, il quale a sua volta tende a realizzare la sua forma poiché è il tutto che determina le parti.

 

Contatto e relazione nella terapia della Gestalt

Leggendo il testo fondamentale della terapia della Gestalt, già menzionato, la parola contatto si ripete per 456 volte, quella organismo/ambiente 346, mentre il termine relazione soltanto 36. Senza dubbio, il contatto è un momento topico per la terapia della Gestalt, ma come vedremo in seguito, tale esperienza non è in grado da sola a spiegare lo sviluppo poliedrico e polifonico del sé ( il termine polifonico è una creazione di Margherita Spagnuolo Lobb, che descrive lo sviluppo dei domini come la complessità che anima il fare contatto nel presente attraverso diverse competenze armonizzate tra loro).

Se per il PHG l’unità di misura è il contatto, secondo la presente prospettiva essa è rappresentata dalla relazione. Che differenza c’è tra «contatto» e «relazione»? Perché l’essere umano è relazionale? Da dove ha origine l’intenzionalità relazionale, la tensione al «tra»? Cosa avviene e cosa diviene l’essere umano in rapporto con l’altro? Cosa ci rende persone, ovvero esseri pensanti capaci di discernere?

Per cercare di rispondere a tali questioni ci si potrà avvalere del noto avvenimento di Victor, il ragazzo selvaggio dell’Aveyron alla periferia di Parigi nel 1800.

Victor rappresenta un caso davvero molto raro ed interessante di un essere umano cresciuto senza nessun tipo di relazione con i propri simili. Affidato alle cure di Jean Itard, un medico francese, che tentò attraverso un programma di rieducazione di introiettare nel ragazzo quei tratti culturali tipicamente umani (come il linguaggio e saper discernere tra bene e male) che non poteva aver appreso senza la relazione con altri esseri umani. Dopo circa cinque anni di tentativi, Itard fu costretto ad abbandonare l’impresa e Victor non imparò mai a parlare.

Questo particolarissimo evento ci mostra chiaramente che il contatto con l’ambiente non basta a determinare il salto evolutivo necessario allo sviluppo delle nostre funzioni psichiche superiori. L’ambiente ci stimola ad un tipo di adattamento molto limitato rispetto a quello offerto dalla relazione con l’altro, poiché è soltanto la relazione a tradurre in atto ciò che nel nostro profondo è ancora in potenza. Il rapporto con l’ambiente non è sufficiente a determinare la crescita esponenziale che può trasformate un essere vivente in persona con una cultura e una storia.

La differenza tra contatto e relazione è immensa: il primo è in grado di far sviluppare le nostre capacità fisiologiche, conducendoci sulla soglia dell’intelletto, ma è la relazione a fornire l’energia necessaria per superare la nostra stessa soggettività, attivando la creatività del pensiero umano.

 

Segno, simbolo e pensiero

Quali sono le radici del pensiero e come si sviluppa la mente creativa? Osserviamo, ad esempio, il bambino di alcuni mesi: egli vede per la prima volta un oggetto, lo indica spontaneamente alla madre, con la tensione del braccio e delle dita della mano, perché lo vuole raggiungere.

L’intenzionalità, la coscienza “rivolta a …” è già presente, ma le sue conoscenze sono ancora incomplete. Lui vede l’oggetto di fronte a sé, ma questo ancora non ha un senso, poiché non ha nome. L’oggetto concreto – il bicchiere per esempio– rappresenta la cosa in sé, qualcosa che ancora non può essere concepito dal bambino perché non è concepibile; il piano della conoscenza si rivoluziona quando l’adulto indicando o prendendo l’oggetto, gli assegna un nome: bicchiere. La cosa in sé diviene la cosa per l’altro (per la madre), e lo rende conoscibile al bambino per mezzo di una etichetta verbale. L’oggetto-bicchiere si unisce così al segno-parlato che l’adulto ha prodotto, rendendolo identificabile. Ma è soltanto nell’ultimo passaggio, in cui la cosa per l’altro diviene la cosa per sé, cioè quando il bambino introietta la parola pronunciata dalla madre, che ciò che era esterno e senza significato, diviene interno e simbolico (sìmbolo s. m., dal lat. symbŏlus e symbŏlum, gr. σύμβολον «accostamento», «segno di riconoscimento», «simbolo», der. di συμβάλλω «mettere insieme, far coincidere»; comp. di σύν «insieme» e βάλλω «gettare»), psicologico e pensabile. In questa fase, il bambino non solo incomincia ad acquisire un codice linguistico, ma interiorizza simboli (vocaboli) contenenti un frame, un’icona relazionale. Per usare una metafora, possiamo immaginarci la parola come un treno con tanti vagoni di cui uno di essi è sempre costituito dalla relazione.

Ciò che si vuole dire è che la crescita della persona e delle sue funzioni psichiche superiori può avvenire solo in relazione con un altro essere umano e soltanto il rapporto intersoggettivo può attivare gli aspetti peculiari che gli sono propri; la creatività, che permette all’individuo, in modo deliberato e completamente affrancato da necessità vitali, di produrre difficoltà e problematicità per bisogni di fatto “non-bisogni”, non è determinata dal contatto con l’ambiente, ma dalla relazione con un proprio simile. Ogni essere vivente ha come scopo quella di adattarsi al proprio ambiente per sopravvivere, ma soltanto il soggetto umano può mettere in atto comportamenti creativi che non hanno nulla a che fare con tali necessità. Egli crea per il piacere di creare, e tali attività sono il mezzo per comprendere se stesso e la sua esistenza.

I contatti creati dall’interazione con l’ambiente esterno (problematicità oggettive), derivanti dai nostri bisogni primari, ci permettono di adattarci al contesto, ma quelli che si attuano in rapporto a rappresentazioni mentali, cioè a “problemi” creati ad hoc ed esclusivamente umani, s’instaurano soltanto con il rapporto con l’altro, attivando le strutture dinamiche relazionali che, grazie al costante rapporto intersoggettivo, divengono sempre più complesse.

L’edificazione di questi ultimi determina lo sviluppo degli altri, in un rapporto evolutivo, in cui quelli “inferiori e più vecchi nella storia dello sviluppo non vengono messi da parte, ma continuano a funzionare in un contesto più comprensivo, come istanze subordinate sottoposte al dominio di quelle superiori” (Vygotskij L. S., 1931, Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori), specializzandosi sempre più.

È la relazione che precede il contatto, non viceversa: il rapporto intersoggettivo dà origine allo sviluppo di particolari capacità adattive che, esperienza dopo esperienza, si “complessificano” fino a trasformarsi completamente.

Il contatto avrebbe in sé un valore secondario, se non ci fosse la relazione umana, tale da trasformarlo da semplice adattamento in “molecola creativa” relazionale. In conclusione, per quanto riguarda l’individuo il processo adattivo e quello creativo sono capacità separate e con uno sviluppo altrettanto indipendente; il primo, come per tutte le altre specie viventi è determinato dal contatto con l’ambiente, l’altro dalla relazione con un altro essere umano.

VAI ALLA SECONDA PARTE DELL’ARTICOLO

Si parla di:
Categorie
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Dostoevskij F. (1988). Delitto e Castigo. Torino: Einaudi
  • Ducci E. (a cura di). (2004). Aprire su paideia. Roma: Anicia
  • Ducci E. (2002), Essere e Comunicare. Roma: Anicia
  • Jung C.G. (1954). L’archetipo della madre. Torino: Bollati Boringhieri
  • Kierkegaard S. (2002). La malattia mortale. Mondadori: Milano
  • Nietzsche F. (2003). La Gaia scienza. Milano: Adelphi
  • Perls F., Hefferline R.H. & Goodman P. (1997). Teoria e pratica della terapia della Gestalt. Ed. Astrolabio: Roma.
  • Perls F. (1980). La teoria Gestaltica parola per parola. Ed. Astrolabio: Roma
  • Pessoa F. (1986). Il libro dell’inquietudine. Milano: Ed. Feltrinelli
  • Spagnuolo Lobb M. (2012). “Quaderni di Gestalt”, Rivista Semestrale di Psicoterapia della Gestalt”, vol. XXV, 2012/2, titolo del fascicolo “La prospettiva evolutiva in psicoterapia della Gestalt”. Milano: Franco Angeli
  • Spagnuolo Lobb M. (2011). Il now-for-next in psicoterapia. La psicoterapia della Gestalt raccontata nella società post-moderna. Milano: Franco Angeli
  • Vygotskij L. S. (1934), Pensiero e Linguaggio. Firenze: Giunti – Barbera
  • Vygotskij L. S. & Lurija A. (1931). Strumento e segno nello sviluppo del bambino. Bari: Laterza
  • Vygotskij L. S. (1931), Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori. Firenze: Giunti
  • Tronick E. (2008). Regolazione emotiva. Nello sviluppo e nel processo terapeutico. Cortina Raffaello: Milano
CONSIGLIATO DALLA REDAZIONE
Gestalt: la teoria e la terapia della Gestalt
Teoria della Gestalt – Introduzione alla Psicologia

Il termine Gestalt si riferisce sia alla teoria della Forma degli anni '20 sia alla terapia della Gestalt di indirizzo psicoanalitico degli anni '50. 

ARTICOLI CORRELATI
Psicopatologia della consapevolezza (2023) di Fritz Perls - Recensione
Psicopatologia della consapevolezza (2023) di Fritz Perls – Recensione

L’argomento centrale del saggio "Psicopatologia della consapevolezza" è un capitolo sulla consapevolezza, che per Perls diventa l’aspetto più importante

Morte psichica come prendersene cura in terapia il ruolo della relazione
Prendersi cura della morte psichica

L'incontro terapeutico con un individuo avviluppato dalla morte psichica è un'esperienza limite per entrambi i soggetti coinvolti: paziente e terapeuta..

WordPress Ads
cancel