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Il ruolo della regolazione emotiva nell’utilizzo di sostanze

L'uso di sostanze si associa ad una difficoltà nella regolazione emotiva e avviene spesso per alleviare emozioni negative.

Di Chiara Paris

Pubblicato il 16 Feb. 2017

Aggiornato il 13 Mar. 2019 13:32

Regolazione emotiva e uso di sostanze: L’ uso di sostanze consente di alterare lo stato corrente; possono aumentare la percezione di emozioni positive, così come alleviare quella di stati negativi. Questa spiegazione è stata resa centrale nella teoria di Khantzian (1985), definita “Sel-medication Hypothesis” ed è costituita da due assunti: la presenza di stati affettivi negativi predispone all’ uso di sostanze e la scelta fra le stesse non è casuale.

Chiara Paris, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

Regolazione emotiva

La regolazione emotiva viene definita come l’insieme di comportamenti, capacità e strategie consci e inconsci, automatici o che richiedano uno sforzo attivo nel modulare, inibire o aumentare l’esperienza e l’espressione emotiva (Calkins, 2010). Tale capacità è ritenuta, ad esempio, uno degli aspetti centrali coinvolti nel disturbo borderline di personalità (Linehan, 1993) ed ha un ruolo centrale in numerose altre psicopatologie, come il disturbo d’ansia generalizzata (Mennin et al. 2002) o il disturbo post traumatico da stress (Cloitre, 1998).

Il modo in cui si sviluppa la regolazione emotiva -ed i processi coinvolti nell’acquisizione delle competenze ad essa correlate- costituisce tuttora un interessante tema di ricerca in evoluzione; paiono tuttavia determinanti un coinvolgimento del contesto familiare e sociale, così come l’interazione tra fattori interni ed esterni, oltre a quelli motivazionali e temperamentali (Gross, 2007; Morris et al.2007). Le abilità di regolazione emotiva vengono sviluppate sin dal primo anno di età e un fallimento nelle stesse comporta difficoltà precoci che riguardano, ad esempio, l’area sociale o l’adattamento al contesto (Eisenberg & Fabes, 2006).

Diverse ricerche hanno poi associato la  mancanza di regolazione emotiva ad una maggior esposizione rispetto allo sviluppo di psicopatologie (Calkins & Dedmon, 2000; Cichetti et al. 1995) con caratteristiche anche molto dissimili tra loro, come i disturbi d’ansia (Cisler et al. 2010) o dell’alimentazione (Sassaroli et al., 2010).

Alcune concettualizzazioni della regolazione emotiva si sono occupate di sottolineare il ruolo dell’esperienza e dell’espressione delle emozioni, in particolare, il controllo di quelle negative e la riduzione dell’arousal emotivo (Kopp, 1989). Altri autori hanno invece evidenziato la natura funzionale delle emozioni, ritenendo che un’incapacità nello sperimentare e distinguere le varie emozioni sia disadattiva tanto quanto il discontrollo nella modulazione di stati negativi (Paivio & Greenberg, 1998). Gratz e Roemer (2004) hanno proposto una visione più articolata di regolazione emotiva, comprensiva di sei dimensioni separate in cui si possono manifestare delle specifiche difficoltà: mancanza di consapevolezza delle emozioni, ridotta trasparenza nella risposta emotiva, mancata accettazione della risposta emotiva, accesso limitato alle strategie di regolazione emotiva percepite come efficaci, difficoltà nel controllo degli impulsi quando si sperimentano emozioni negative e ridotte capacità nel mettere in atto comportamenti efficaci quando si sperimentano stati emotivi negativi.

 

Uso di Sostanze

Il Disturbo da Uso di Sostanze, così come concepito dal DSM-5 (2014), si caratterizza per la presenza di sintomi che includono tolleranza, astinenza, uso continuato (nonostante il desiderio di interrompere e le ormai note conseguenze negative), oltre ad una mancanza di controllo nel craving e nel successivo uso di sostanze.

La difficoltà di inquadramento delle patologie connesse all’abuso di sostanze rispetto a queste tematiche aumentano sensibilmente se si pensa che la co-occorrenza rispetto alla diagnosi di disturbo di personalità viene stimata a partire da una media del 44% per la dipendenza da alcol e del 79% in quella da oppiacei (Ball, 2005); una precedente ricerca riscontrava invece che, in generale, la maggior parte di chi abusa di sostanze (70%) rientrava anche nei criteri per la diagnosi di uno o più disturbi di personalità, prevalentemente di Cluster B e C (Rounsaville et al., 1998).

Parlare di abuso di sostanze in generale risulta particolarmente difficoltoso per diversi motivi: tra questi, il fatto che la scelta di una sostanza piuttosto che un’altra si rivela importante per delineare le caratteristiche della persona che ne fa uso e, d’altra parte, il poliabuso è diventato sempre più comune, con la dimostrazione di forti differenze, ad esempio tra chi consuma solo cocaina e chi la associa anche ad altro (McCormick et al., 1998).

 

Uso di Sostanze ed emozioni

In letteratura, dipendenza e abuso vengono spesso definiti semplicemente sulla base di criteri comportamentali, mentre meno attenzione viene posta rispetto al perché si ricorra alle sostanze.

Visti gli effetti davvero molto diversificati delle sostanze, quasi qualsiasi sensazione negativa, dalla noia all’ansia può associarsi all’abuso: la ricerca di Sanchez-Craig (1984) ha dimostrato che, su 297 episodi legati all’assunzione di alcol, l’80% aveva come scopo il bisogno di gestire diverse esperienze soggettive, come, appunto, emozioni negative. Questo dato consente peraltro di inquadrare meglio la frequente associazione tra disturbi dell’umore o d’ansia e uso di sostanze, che avrebbe proprio lo scopo di ridurre sensazioni indesiderate o abbassare il livello di attivazione (Mirin et al., 1987).

Un altro dato rilevante in questo senso è l’elevata incidenza dell’abuso di sostanze tra chi è vittima di episodi o esperienze traumatiche (Polusny e Follette, 1995).

Ricorrere alle sostanze costituisce una strategia molto efficace, anche se a breve termine, per determinare un cambiamento nell’esperienza percepita e chi abusa sembra maggiormente fiducioso negli effetti rispetto agli altri: nell’alcolismo, per esempio, il paziente assume che l’alcol aumenti le sensazioni di piacere e riduca quelle legate allo stress (Conners et al. 1986).

Concepire l’abuso di sostanze come una strategia di coping maladattiva (Gratz e Roemer, 2004) introduce l’esistenza di un evitamento esperienziale in soggetti che soffrono di questo disturbo: il comportamento impulsivo avrebbe l’obiettivo di alterare uno stato emotivo negativo attraverso una strategia di evitamento di esperienze emotive indesiderate (per es. Brown, Comtois, Linehan, 2002; Wagner e Linehan, 1999).

Una possibile conferma di questo si evince ad esempio dal fatto che i soggetti con diagnosi di disturbo borderline di personalità e abusatori di sostanze risulterebbero più impulsivi ed avrebbero una maggiore probabilità di utilizzare strategie di fuga/evitamento rispetto ai borderline non abusatori (Kruedelbach et al., 1993). Strategie di evitamento esperienziale focalizzate sull’emozione (ad esempio, evitare di pensare ad eventi spiacevoli) risultano predittive rispetto a numerosi outcome negativi, tra cui proprio l’uso di sostanze, e un sottogruppo di chi abusa delle stesse tende a ricorrere abitualmente all’evitamento esperienziale (Hayes, 1996). In generale, questo concetto si applica sia all’utilizzo di deprimenti che di stimolanti, se si assume che l’astensione dagli stessi possa generare sensazioni avversive o di noia (Hayes, 1996). In altre parole, anche quando la persona che abusa di sostanze non comincia con il fine di un evitamento esperienziale, gli effetti dell’eccessivo utilizzo – che contemplano anche stati di umore disforico e astinenza –concorrono nel mantenimento del circolo vizioso della dipendenza (Sher, 1987).

Le sostanze consentono quindi di alterare lo stato corrente; possono aumentare la percezione di emozioni positive, così come alleviare quella di stati negativi (pensiamo, ad esempio, all’effetto dell’alcol o di psicofarmaci come lo Xanax sull’ansia, oppure a quello di cocaina e metamfetamine su abbassamenti nel tono dell’umore). Questa spiegazione è stata resa centrale nella teoria di Khantzian (1985), definita “Sel-medication Hypothesis” ed è costituita da due assunti: la presenza di stati affettivi negativi predispone all’utilizzo di sostanze e la scelta fra le stesse non è casuale. A rinforzarne l’utilizzo sono invece gli effetti, che in qualche modo migliorano gli stati pre-esistenti nell’assuntore. L’autore suggerisce che individui con alti livelli di aggressività e rabbia sarebbero più predisposti all’utilizzo di oppiacei o alcol per la regolazione emotiva, mentre il ricorso a cocaina e amfetamine risulterebbe più probabile in chi “reagisce” a stati depressivi (Sarnu & Maderno, 2007). Chiaramente, un comportamento di questo tipo conduce ad un inevitabile circolo vizioso legato agli effetti astinenziali della sostanza.

Alcune tra le evidenze a supporto di questa teoria sono la frequente co-occorrenza di disturbi psichiatrici, in particolare disturbi d’ansia e dell’umore, oltre alla maggior probabilità di sviluppare un Disturbo da Uso di Sostanze in chi ha già una diagnosi psichiatrica (Kessler et al., 2005): una persona che ha già delle difficoltà nella regolazione emotiva sarà più propensa quindi a cercare ed utilizzare sostanze.

Un’altra prova a favore della teoria di Khantzian, sarebbe quella costituita dal maggior ricorso di soggetti sani (senza diagnosi di DUS) a droghe considerate legali, ad esempio il tabacco o l’alcol, in momenti emotivamente negativi.

Infine, è documentato come stati negativi –naturalmente sperimentati o indotti- causino un aumento del craving, dell’utilizzo e delle ricadute (Sinha & Li, 2007). Questo fenomeno è stato oggetto di un filone di studi che ne hanno trovato ampia conferma; per esempio, Childress e colleghi (1983) hanno dimostrato come sensazioni di ansia, depressione e rabbia costituirebbero dei trigger nel suscitare craving e astinenza in pazienti con diagnosi di dipendenza da oppiacei in fase di disintossicazione. In questo studio, si ipotizzava che determinati stati emotivi –da soli, o con altri stimoli legati alla sostanza –fossero in grado di determinare craving per l’oppiaceo, astinenza e, quindi, un potenziale utilizzo successivo. I risultati mostravano che la sola emozione negativa senza altri stimoli era in grado di elicitare sintomi astinenziali anche molto specifici; questo si determinava in particolare per stati legati a depressione e ansia, molto meno per la rabbia. Al contrario, uno stato di euforia, nonostante la forte attivazione psicofisiologica, abbassava nettamente la possibilità di provare desiderio per la droga. Altri autori hanno sostenuto queste conclusioni mostrando come l’utilizzo di strategie funzionali a livello emotivo consenta l’abbassamento del craving e quindi meno possibilità di ricaduta (O’Connell et al. 2007; Westbrook et al. 2013).

Il ruolo della disregolazione emotiva nello sviluppo del disturbo da uso di sostanze è stato confermato anche da una serie di studi longitudinali, tra i quali quelli di Mischel e colleghi (2011), che avevano sottoposto ad alcuni bambini con meno di sei anni un compito inerente la gratificazione emotiva: i partecipanti all’esperimento potevano scegliere tra un dolcetto da mangiare subito, o due dolci se avessero aspettato. I bambini che erano stati in grado di posticipare la gratificazione avevamo più abilità nella padronanza emotiva in adolescenza e meno probabilità di utilizzare cocaina in età adulta. Questo dato trova conferma nell’elevato rischio di sviluppare delle problematiche legate alle sostanze per quei soggetti che nell’infanzia hanno avuto una diagnosi di ADHD, piuttosto che di disturbo oppositivo provocatorio (August et al. 2006), problematiche peraltro accomunate da un deficit emotivo.

Anche i modelli di Beck e Ellis riservano alle emozioni un ruolo importante nello sviluppo e nel mantenimento della dipendenza: alcune situazioni trigger vengono legate a specifiche reazioni emotive grazie ad un processo di condizionamento. Tali associazioni sarebbero poi facilitate ed evocate tramite pensieri disfunzionali e credenze inerenti la sostanza e il suo utilizzo (Rigliano e Bignamini, 2009).

 

Trattamento

In un’ottica trattamentale, le indicazioni in letteratura sono decisamente varie. Quasi tutte condividono l’importanza che hanno avuto i vissuti del paziente nello sviluppo del disturbo o nel determinarsi della ricaduta. Tendenzialmente, l’intervento si divide in tre fasi (disintossicazione, ricovero e prevenzione della ricaduta); limitandosi a considerare la parte inerente la competenza emotiva, numerosi approcci pongono l’obiettivo di limitare l’evitamento esperienziale tramite tecniche di gestione dell’ansia o riduzione dello stress e con la farmacoterapia; la psicoterapia cognitivo comportamentale risulta efficace, per esempio, nelle esposizioni guidate rispetto all’emotività negativa e nel rinforzo tramite l’esplorazione di quella positiva.

La CBT si concentra inoltre sull’individuazione di situazioni “a rischio” per il paziente e nell’implementazione di strategie per farvi fronte e per gestire il craving e gli stati negativi. Altri studi hanno utilizzato stimoli avversivi condizionati nella ricerca, nell’utilizzo o anche solo nell’immaginazione della sostanza, in modo da utilizzare la strategia di evitamento in favore dell’astensione (Rigliano & Bignamini, 2009).

I trattamenti basati sull’accettazione e il non giudizio, come la Mindfulness, invece tentano di alterare l’impatto che hanno emozioni e pensieri cambiando l’approccio che ha la persona con gli stessi piuttosto che ridurne direttamente l’intensità, la frequenza ecc. Ciò ha l’obiettivo di limitare agiti automatici e impulsivi e consentire una reazione diversa ad ansia, stress, dolore ecc. Le tecniche di MBTs focalizzano infatti l’attenzione del paziente sul momento presente, inclusi stati negativi o episodi di craving (Childress et al., 1983; Hayes et al., 1996; Gross, 2007).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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