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Abbraccialo per me (2016). Un film di Vittorio Sindoni – Recensione

Abbraccialo per me è un film che tratta il tema della disabilità psichica, lo stigma e l' assistenza psichiatrica ospedaliera talvolta inadeguata.

Di Antonio Scarinci

Pubblicato il 21 Feb. 2017

Abbraccialo per me: In un contesto restio ad accettare la diversità si snoda la storia di un ragazzo affetto da un disturbo psichico. Stigma, cure inadeguate, una psichiatria che adotta come unica soluzione di trattamento il farmaco sembrano ricacciarci indietro nel tempo.

Abbraccialo per me (2016) RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #38

Antonio Scarinci. Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

Un  film  di  Vittorio  Sindoni  con  Stefania  Rocca,  Vincenzo  Amato, Moise Curia, Giulia Bertini, Pino Caruso.

Trama

Il film Abbraccialo per meè dedicato a tutte le persone che soffrono di disabilità mentale e alle loro famiglie che accanto a loro subiscono falso pietismo o indifferenza in attesa di cure e strutture che gli diano una speranza di vita migliore”.

Francesco vive in un piccolo centro con una madre iperprotettiva, che ha riorganizzato la propria vita intorno alle sue “stranezze”. Quando il disturbo mentale di Ciccio diventa sempre più evidente sarà costretta a prenderne atto. L’equilibrio familiare salta e il padre del ragazzo, dispotico, assente e anaffettivo abbandona moglie e figli al loro destino. La sorella di Francesco riuscirà a trovare una soluzione che permetterà al fratello di ricevere cure adeguate.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DI ABBRACCIALO PER ME:

 

Motivi d’interesse

In un contesto restio ad accettare la diversità si snoda la storia di un ragazzo affetto da un disturbo psichico. Stigma, cure inadeguate, una psichiatria che adotta come unica soluzione di trattamento il farmaco sembrano ricacciarci indietro nel tempo.

Quando Basaglia, dopo anni di lotte riuscì a far approvare la L. 180/1978 nel nostro paese si aprì la possibilità di curare la malattia mentale in un clima di umanizzazione, con l’obiettivo principale della recovery e dell’inclusione dei pazienti nel contesto comunitario di appartenenza, fuori dai manicomi, istituzioni totali più simili a lager che a luoghi di cura.

La riorganizzazione dell’assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale e il superamento della logica manicomiale rappresentava una svolta importante. L’intervento terapeutico e riabilitativo non era più impostato sulla medicalizzazione del paziente ma si apriva ai contributi della psichiatria sociale, alle forme di supporto territoriale, alle potenzialità delle strutture intermedie, e alla psicoterapia nei servizi pubblici.

La legge riconosceva, inoltre, il diritto ai malati di avere una vita di qualità nel contesto d’appartenenza, senza più essere soggetti a “deportazioni” forzate dai luoghi e dagli ambienti familiari.

A distanza di una quarantina d’anni i drammi che vivono tante famiglie sembrano cancellare gli avanzamenti che in una stagione storica ben precisa sono stati compiuti. L’intervento pubblico è sempre più asfittico, le risorse impegnate sempre più ristrette e la speranza di avere cure adeguate porta sempre più malati a rivolgersi al privato.

Nelle pieghe di una burocrazia malata, di norme e strutture carenti, di risorse impiegate male e spesso dissipate e malversate si intrecciano tragedie e disastri. Gli esempi da citare sarebbero tanti e percorrono l’intera penisola da Torino dove si muore in strada per un Trattamento Sanitario Obbligatorio a Salerno dove si muore legati ad un letto di contenzione in SPDC (servizio psichiatrico di diagnosi e cura).

Certo, negli ultimi anni si sono fatti notevoli progressi nella cura delle malattie mentali, ma chi usufruisce di quelle cure previste dalle linee guida e dai protocolli che le istituzioni e le associazioni scientifiche hanno messo a punto e che dovrebbero rappresentare interventi d’elezione e buone pratiche da adottare in termini universalistici?

Il film di Sidoni coinvolge e denuncia: le responsabilità degli operatori, le fragilità famigliari e personali, l’atteggiamento espulsivo e marginalizzante della comunità, ma dà anche speranza nella possibilità di ricevere aiuto. E’ possibile che quella diversità, che poi tutti affrontiamo come possiamo, che quelle stranezze, che anche ognuno di noi si porta dentro, possano essere comprese, accolte e magari anche trattate quando assumono connotati maladattivi in strutture che facciano del rispetto della dignità umana e della compassione i capisaldi di un percorso di cura anche tecnicamente appropriato.

Il film commuove, ci fa provare tristezza e rabbia, c’è disperazione e speranza e in definitiva ciò che emerge è la difficoltà di affrontare la complessità della psicopatologia. In questa situazione così problematica è la sorella di Francesco, Tania che mantiene la lucidità necessaria – l’amore incondizionato e cieco della madre è disastroso e patogeno – per trovare una soluzione che chiude il film con la speranza che nonostante non sia mai facile fronteggiare la malattia mentale, parafrasando Basaglia e un film di Giulio Manfredonia “si può fare”.

La denuncia di situazioni che tanti vivono quotidianamente in silenzio è l’occasione per ricordare che il problema va affrontato senza pregiudizi e con il coinvolgimento ampio di tutti, perché il livello di una civiltà si misura da come sono trattati i soggetti più svantaggiati e bisognosi.

 

Indicazioni di utilizzo

E’ un’ottima base di riflessione e discussione per promuovere un atteggiamento più aperto e meno stigmatizzante nei confronti della malattia mentale e per coinvolgere le istituzioni pubbliche e sollecitare una maggiore sensibilità a questi problemi da affrontare senza smantellare l’impostazione della L. 180/1978 che ha reso il nostro paese uno dei più avanzati nel campo della salute mentale.

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Antonio Scarinci
Antonio Scarinci

Psicologo Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale

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