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Perché ci preoccupiamo? Il modello cognitivo e i suoi sviluppi – Report dal Seminario con G. M. Ruggiero, Genova 10 Dicembre 2016

Sabato 10 dicembre si è svolto a Genova l'incontro “Perché ci preoccupiamo? Il modello cognitivo e i suoi sviluppi” con il dott. Giovanni Maria Ruggiero

Di Cecilia Domenichetti

Pubblicato il 20 Gen. 2017

Aggiornato il 03 Lug. 2019 13:02

Perché ci preoccupiamo? Ci preoccupiamo perché vi sono dei rischi e si teme di non riuscire a tollerare la propria stessa ansia. Sabato 10 dicembre, presso il Centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova, l’ incontro “Perché ci preoccupiamo? Il modello cognitivo e i suoi sviluppi” con il dott. Giovanni Maria Ruggiero.

 

Sabato 10 dicembre si è svolto a Genova presso il Centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva il quarto e ultimo incontro del ciclo “Di sabato, la psicoterapia a Genova”. A parlare del “Perché ci preoccupiamo? Il modello cognitivo e i suoi sviluppi” il dott. Giovanni Maria Ruggiero.

Partendo da una panoramica dei primi sviluppi della terapia di stampo psicanalitico di Freud, il dott. Ruggiero si è focalizzato su A. Ellis, fondatore della terapia cognitiva che inizia ad agire intorno agli anni ’50 del secolo scorso. I pazienti che prevalentemente trattava Ellis con una metodologia psicanalitica erano ansiosi. La sensazione di base di questi pazienti è quella di “non sentirsi protetti” e si può lavorare con loro in due modi: focalizzandosi sul passato (e questo lo fa anche la terapia cognitiva) oppure prestare attenzione al presente ovvero Ellis ritiene che il paziente si preoccupi poiché tende a sopravvalutare il pericolo a cui può andare incontro e sottovalutare la propria capacità di affrontarlo.

Quest’ultimo aspetto affonda le sue radici nella propria storia personale. I pensieri immediati che generano preoccupazione arrivano da un passato remoto e sono coscienti, ovvero possono essere trattati nel “qui ed ora” senza per forza capire da dove arriva tutta questa fragilità personale. Per Ellis già solo rivolgere la domanda al paziente: “Lei di che cosa è preoccupato?” “Qual è il pericolo che lei corre?” oppure “Quali sono le sue risorse?” è un’operazione terapeutica poiché si incrementa l’esame di realtà senza necessariamente scavare nel passato in quanto per molti pazienti ansiosi non è necessario farlo. Proprio perché in questo tipo di pazienti l’esame di realtà rispetto ai pericoli è alterato, possono trarre giovamento incrementandolo attraverso una focalizzazione su che cosa li preoccupa all’interno di uno stato di preoccupazione che essi percepiscono come generico.

Negli anni sessanta del secolo scorso, A. Beck raffinò questo tipo di terapia e la rese elettiva per il disturbo d’ansia e adatta alle diagnosi psichiatriche di questi stessi disturbi, consentendone una più precisa classificazione. La persona ansiosa ha comunque una sua storia di ambiente familiare ansioso che gli è stata trasmessa durante l’infanzia. In termini relazionali l’ansioso è una persona che si sente poco protetta, si sente fragile come anche la persona depressa. La sostanziale differenza tra i due però è che mentre la persona ansiosa teme di perdere l’amore, il depresso è “senza amore”, ha avuto un ambiente affettivo-relazionale freddo, distanziante, desertico, da qui ne ricava che la vita non ha senso. In questo senso la terapia si colloca come un’esperienza emotivo-affettiva tra paziente e terapeuta che aiuta il paziente ansioso ma anche il paziente depresso ad acquisire un miglior esame di realtà.

Il trattamento cognitivo in Italia lo portò C. De Silvestri, la cui base è il disputing che non è una discussione con il paziente in cui l’operatore deve “aggiungere” qualcosa di intelligente per mostrare al paziente il suo errato esame di realtà ovvero non bisogna dare un’idea migliore che gli consenta di esaminare la realtà bensì incoraggiarlo a mettere in discussione ciò che pensa. Una volta individuati questi pensieri lo si invita ad allenarsi durante la settimana: deve riconoscere le situazioni in cui mette in atto questi pensieri disfunzionali, individuarli e poi attivamente metterli in discussione provando a valutare se non è possibile pensare qualcosa di diverso.

Il dott. Ruggiero si è poi soffermato sulle spiegazioni dell’origine dell’ansia che possono essere di diversa tipologia: evolutiva immediata, cioè sopravvalutazione dei pericoli e sottovalutazione delle proprie capacità personali;  evolutiva nel passato: aver avuto un’esperienza di crescita in cui si ha sperimentato una sensazione di pericolo (genitori preoccupati); evolutiva poiché nel cervello rettiliano le informazioni che si utilizzano non sono sofisticate e presuppongono una duplice reazione di attacco o fuga. In questo senso l’ansia non è semplicemente un’errata valutazione della realtà, è una mancata o errata valutazione di queste stesse reazioni. E’ per questo che le capacità metacognitive intervengono per aiutare ad interpretare sé stessi e la realtà.

In un particolare tipo di terapia cognitiva tali concetti metacognitivi rappresentano uno sviluppo recente: all’interno della seduta non ci si focalizza più sul “vediamo che cosa rischi veramente” ma su un piano metacognitivo del: “vediamo cosa provi in quel momento, come lo gestisci”. Tale metodologia pare avere una maggiore e comprovata efficacia terapeutica. Lo svantaggio pare essere quello che a volte i rischi definiti con il paziente si avverano realmente.

Perché dunque ci preoccupiamo? Ci preoccupiamo perché vi sono dei rischi e si teme di non riuscire a tollerare la propria stessa ansia e perché la propria mente ci ha insegnato non tanto a non tollerare i rischi ma l’emozione di ansia (ansia perché si ha paura dell’ansia). L’ansia in questo contesto si configura come il timore di non riuscire a tollerare la propria paura nelle situazioni che mettono alla prova.

Un apporto decisivo è stato dato da A.Wells con la terapia metacognitiva che si basa sull’idea che l’errore non sta nell’esaminare la realtà poiché questo genere di pensieri ansiosi, negativi e disfunzionali possiamo averli tutti, l’errore non è nemmeno non tollerare l’ansia ma sta nel fatto che siccome si ha una preoccupazione si ritiene sia corretto pensarci a lungo. Quindi con la definizione di rimuginio si sposta il quadro non sull’errore dell’esame di realtà ma sull’errore nella gestione degli stati mentali.

I problemi in realtà si risolvono pensandoci un po’ di tempo, non troppo tempo perché:

  • Pensare vuol dire passare in rassegna le soluzioni che si conoscono già e questo non porta via tanto tempo (una decina di minuti);
  • Implica prendere atto che c’è un problema e vedere che nel repertorio di soluzioni disponibili non c’è nulla di particolarmente errato;
  • Inventarsi qualcosa di nuovo ovvero farsi venire una buona idea non è frutto di un’attività di pensiero lunga e laboriosa ma è meglio lasciare la mente lavorare da sola cioè non tanto usare l’attenzione consapevole ma avere fiducia in un lavorio più spontaneo. A volte le soluzioni non sono ideali e si raggiunge una mezza soluzione (settimane, mesi). Impegnarsi attivamente per risolvere un problema serve per un periodo limitato di tempo (10 minuti) e poi occorre mettere forza e abilità nel non pensarci. Invece il rimuginatore è colui che di fronte ad una situazione ansiosa ritiene che sia giusto continuare a pensarci ad oltranza. Per Wells è proprio il non pensarci ad oltranza che crea l’ansia, è un errore di tipo funzionale. La soluzione è quella di spostare la propria attenzione da un argomento ad un altro: non è un evitamento poiché mettere da parte un pensiero che crea ansia non vuol dire scacciarlo, vuol dire non pensarci. L’evitamento rimuginativo comporta il pensiero: “non ci devo proprio pensare” e non “penso dopo a questa cosa”. Il rimuginio anche se sembra dare un piccolo sollievo iniziale poiché anche una soluzione inutile è una pseudosoluzione poi di per sé non aiuta a risolvere il problema perché non aiuta a creare soluzioni ma solo delle etichette di tipo autodenigratorio (es. “sono sbagliato”).

Per Wells è importante con il paziente ansioso non soffermarsi sull’argomento del rimuginio ma vedere perché continua a pensarci tanto. Attraverso la sua terapia col paziente ansioso improntata prima su una fase di discussione verbale, poi di esercitazione mentale per non rimuginare, Wells si prefigge di raggiungere l’obiettivo di aiutare il paziente a distinguere con chiarezza ciò che è controllabile da ciò che non lo è, poiché un’idea intrusiva è per forza incontrollabile e occorre accettare che periodicamente i pensieri fastidiosi ci vengano in mente non dandogli importanza, non agendo su di esso.

 


Psicoterapia e Scienza Cognitiva Genova

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