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Belle balle: quando la propria rappresentazione della realtà fa soffrire – Ciottoli di psicopatologia

Il paziente arriva in terapia spesso perchè soffre a causa della sua rappresentazione della realtà e del modo in cui interpreta la sua storia.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 11 Gen. 2017

Nel caso dei pazienti non deliranti troviamo narrazioni nelle quali il protagonista non piace affatto al narratore che per questo motivo viene da noi. Sappiamo come diceva già Epitteto che non sono le cose a farci stare bene o male ma quello che pensiamo di esse. La realtà esiste ma resta sullo sfondo e noi lavoriamo sulle molteplici possibili rappresentazioni di essa come provetti sceneggiatori per far si che il protagonista piaccia al suo narratore nostro cliente.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Belle balle: quando la propria rappresentazione della realtà fa soffrire (Nr. 19)

 

Il delirio: quando la propria realtà non è plausibile

A motivo di alcuni miei passati scritti sul tema del delirio e delle psicosi e forse anche per la mia storia di psichiatra territoriale e ruspante del servizio pubblico anche allo studio privato mi arrivano spesso pazienti molto gravi con deliri allo stato nascente o ben strutturati. Non voglio qui ripetere la mia spiegazione del senso del delirio, della sua genesi e del mantenimento ma prendere spunto da esso per reinterpretare la terapia di qualsiasi paziente come la costruzione di un delirio utile e benevolo.

La visione che ciascuno ha di se stesso è il risultato, l’epilogo della narrazione che si fa delle vicende della propria vita. Ognuno è il protagonista, positivo per chi sta bene e negativo per chi soffre, della storia che si racconta. Ciò vale anche per aggregati sovraindividuali come le famiglie o i popoli. Ma questa è un’altra storia, anzi è proprio la Storia e riguarda gli storici. Non ha alcuna importanza che questa storia corrisponda effettivamente alla realtà. I vincoli nella sua costruzione sono piuttosto la coerenza interna e la plausibilità. Quando la realtà propone dati apparentemente contraddittori con essa vengono ignorati o distorti per diventare delle conferme invece che delle invalidazioni (in questa operazione consiste il delirio che appunto si differenzia dal salutare autoinganno solo quantitativamente e non qualitativamente “fanno quello che facciamo tutti ma diavolo, non si regolano”).

Le rappresentazioni della realtà: quando generano sofferenza

Nel caso dei pazienti non deliranti troviamo narrazioni nelle quali il protagonista non piace affatto al narratore che per questo motivo viene da noi. Sappiamo come diceva già Epitteto che non sono le cose a farci stare bene o male ma quello che pensiamo di esse. La realtà esiste ma resta sullo sfondo e noi lavoriamo sulle molteplici possibili rappresentazioni di essa come provetti sceneggiatori per far si che il protagonista piaccia al suo narratore nostro cliente.

Detto in termini più pedestri: se è vero che “ognuno se la canta e se la sona”, mentre nel delirante il problema è che lo fa in un modo così personale e originale che gli altri non lo capiscono e nessuno lo va a sentire, perché il “nevrotico” (passatemi questo termine preDSM) lo fa in un modo che non piace proprio a lui? Se fossi un sistemico penserei che quella brutta storia dolorosa sia funzionale e coerente ad una narrazione familiare o culturale più vasta. Per rimanere più cognitivista potrei ipotizzare che il confermazionismo prevale sul cambiamento e, in termini piagetiani, l’assimilazione sull’accomodamento, in nome della coerenza ad un nucleo di sé originario alla cui definizione concorrono fattori genetici e ambientali/relazionali precocissimi. In altri termini ci si mette in testa un’idea di sé e del mondo da come ti trattano i genitori e poi ci si affeziona ad essa e la si conferma sempre. Se in questa paralisi conoscitiva il premio nobel spetta al delirante la grande schiera dei testardi e la più ristretta cerchia dei nevrotici sono lì a insidiarne il primato.

Torniamo alla psicoterapia come costruzione di un delirio utile e benevolo ed al terapeuta come sceneggiatore. Chi è disturbato dalla metafora cinematografica per l’idea di falsità che suscita, pensi alla situazione del pubblico ministero e della difesa in un processo indiziario. I fatti della realtà stanno lì ma la loro concatenazione e il loro significato sono proposti dagli avvocati. E’ utile notare che meno sono i fatti ineludibili che si impongono e di cui la storia deve dar conto, maggiore è la libertà creativa e interpretativa del narratore. L’aspetto teorico si impone con più facilità in carenza di dati. Se la teoria è debole i dati si impongono ad essa e sono loro a dettare legge, siamo in una situazione di massimo empirismo e di facile cambiamento. Al contrario se la teoria è forte e/o irrinunciabile, i dati sono asserviti ad essa che li ignora o li distorce a piacimento, siamo in una situazione di massimo dogmatismo. Non servono molte prove per edificare un delirio ma soprattutto un gran bisogno o meglio la necessità assoluta di pensarla in un certo modo. Si pensi a certe teorie complottiste che generano costruzioni enormi resistenti ad ogni critica che viene trasformata in una corroborazione, a partire da dati quasi inesistenti e solo da un’ intuizione.

Come utilizzare le storie sulla realtà in terapia

Credo che ciascuno per il proprio modo di conoscere potrebbe essere collocato lungo la dimensione empirismo- dogmatismo.
Il grado di certezza con cui crediamo ad una storia è dato ( Kaneman pag 220 e seg) dalla coerenza e dalla facilità di elaborazione della storia stessa che a sua volta è favorita dalla scarsità di elementi concreti perché si è più liberi di creare senza troppi vincoli. Anche le emozioni che suscita tendono a renderla credibile, nonché la somiglianza con vicende conosciute ( è possibile perché è già successo) ancor di più se prototipiche e archetipiche.

Questa teoria delle storie che creano la realtà in cui viviamo la utilizzo in due modi in terapia. Da un lato proprio con i deliranti che si fanno forti delle prove per sostenere il loro pensiero chiedendo loro di immaginare una storia che porti alla conclusione che io sia che so…… un pedofilo,…. un terrorista islamico od un frate di clausura ( non tutto insieme, una cosa per volta) a partire dagli elementi presenti nel mio studio. In genere ci riescono facilmente ed io integro con ulteriori esempi in modo da dimostrare che da tutto si può arrivare a tutto se lo si vuole (per la serie “ chi cerca trova, anche quello che non c’è). Con gli altri pazienti invece una volta ascoltata la loro descrizione dell’attuale situazione che vivono e della storia con cui si spiegano come ci sono arrivati ed il cui “protagonista” in genere non è un gran che, li invito a costruire altre narrazioni del tutto diverse che tuttavia arrivano alla stessa conclusione. Io stesso propongo alcune storie alternative che siano compatibili con i valori del soggetto e vedano un protagonista migliore.

Nelle storie che chiedo al paziente di elaborare a volte chiedo di introdurre obbligatoriamente degli elementi fissi. Ad esempio di fronte ad un uomo che si auto svaluta per il fallimento del suo matrimonio gli posso chiedere di raccontare come può arrivare a ciò un uomo in gamba, intelligente e sensibile. Di fronte ad un fallimento economico cosa potrebbe causarlo oltre l’incompetenza del soggetto. Ovviamente la realtà è così varia che fornisce spunti per costruire storie d’ogni genere, basta guardarsi intorno. Insomma tenendo fermo il punto di arrivo si va ad esplorare quante diverse strade possano condurre ad esso. La stessa procedura chiamata dai consulenti aziendali “post-mortem” è utilizzata per evitare che ci si avventuri, guidati dall’entusiasmo, in progetti rischiosi aiutando a vedere le possibili criticità. Essa consiste nell’immaginare che il progetto sia stato un fallimento totale e che ci si ritrovi sulle macerie fumanti per esaminarne le cause che impreviste prima appaiono ora assolutamente evidenti. Insomma ora che il fallimento c’è stato, a cosa è attribuibile che prima non abbiamo previsto? Al contrario in terapia stante che la situazione attuale è ineludibile, le cose stanno proprio così, quanti diversi percorsi possono aver condotto a ciò e quale versione sosterrebbe l’avvocato difensore dell’autostima del protagonista. Insomma la terapia tenta di sostituire la narrazione che il paziente fa della propria vita che prevede un protagonista negativo ai suoi occhi con un protagonista accettabile se non encomiabile.

 

 

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