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Peaceful Mind & co: protocolli CBT per il trattamento dell’ansia nella persona con demenza

L'ansia della persona con demenza riguarda spesso la reazione degli altri alla diagnosi, il timore di perdere varie abilità. La CBT offre un valido aiuto.

Di Elena Lo Sterzo

Pubblicato il 10 Gen. 2017

La persona con demenza manifesta vissuti di confusione e disorientamento che inducono in loro un senso di vulnerabilità, infatti all’incirca tre malati su quattro sperimentano sintomi di ansia e, tra questi, uno su cinque presenta disturbi d’ansia significativi

Elena Lo Sterzo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

La demenza è al giorno d’oggi una delle più significative problematiche emergenti di salute globale. Le prospettive epidemiologiche prevedono un aumento esponenziale di nuove diagnosi (è stato stimato un raddoppiamento ogni 20 anni), e la stima per l’anno 2030 è che all’incirca 65.7 milioni avranno la demenza (Prince et al., 2013).

Grazie allo sviluppo di metodiche di indagine avanzate e, conseguentemente, alla possibilità di effettuare diagnosi di demenza più precoci, aumenta la necessità di interventi terapeutici che permettano alle persone con questa sindrome e ai loro familiari/caregiver di affrontare al meglio le sfide psicologiche e pratiche associate alla malattia.

 

Il trattamento della persona con demenza: oltre i farmaci

Dal momento che i trattamenti farmacologici attualmente disponibili sono esclusivamente sintomatologici, ed hanno oltretutto risultati limitati e di breve durata (Birks, 2006), c’è un crescente interesse agli approcci psicosociali di supporto alle persone con demenza ed alle loro famiglie, allo scopo di stabilizzare il benessere soggettivo e, qualora possibile, rallentare la progressione della malattia. In base alle evidenze di applicazione su altre malattie degenerative (Dennison & Moss-Morris, 2010), gli interventi psicoterapeutici che includono l’abilità di elaborare la perdita di funzione cognitiva e la depressione concomitante sembrano essere promettenti.

La ricerca sui trattamenti psicologici per le persone con demenza di Alzheimer (AD) di grado lieve e moderato ha evidenziato che, in particolare, tre tipologie di intervento si sono dimostrate più efficaci: 1) la riabilitazione cognitiva, con effetti benefici sulla memoria e l’umore (Wilson, 2002), 2) la terapia della reminiscenza, che riduce la depressione e migliora il benessere e la memoria autobiografica (Cotelli et al., 2012) e 3) la terapia cognitivo-comportamentale, che riduce significativamente la depressione in persone con AD lieve che vivono a casa con i caregiver (Teri et al., 1997).

A causa dell’ampio spettro di deficit cognitivi, comportamentali e di disturbi dell’umore, le revisioni sistematiche sui trattamenti per persone con AD hanno indicato che gli interventi devono essere “tagliati” sulle necessità individuali del paziente (Brodaty & Burns, 2012) e devono prevedere un piano di trattamento multimodale (Carrion et al., 2013). Un elemento di cruciale importanza per l’efficacia del trattamento, che emerge da tutti gli studi citati, è il coinvolgimento del caregiver.

 

L’ansia nella persona con demenza

La persona con demenza manifesta vissuti di confusione e disorientamento che inducono in loro un senso di vulnerabilità, infatti all’incirca tre malati su quattro sperimentano sintomi di ansia, e, tra questi, uno su cinque presenta disturbi d’ansia significativi (Seignourel et al., 2008). Le tematiche ansiose riferite dalle persone con demenza riguardano spesso la reazione degli altri alla diagnosi di demenza, il timore di perdere la memoria ed altre abilità, e le preoccupazioni legate al fatto di diventare un “peso” per la famiglia.

L’ansia contribuisce ad esacerbare ed amplificare le difficoltà neurocognitive, e le sue manifestazioni comportamentali, quali l’agitazione, l’evitamento ed il continuo monitoraggio possono dare l’impressione che la persona abbia deficit cognitivi più severi di quelli che avrebbe senza questi fattori psicologici. A causa della limitata efficacia e degli importanti effetti collaterali dei trattamenti farmacologici per l’ansia (tra cui depressione e deterioramento cognitivo), sono necessarie delle alternative di trattamento psicologico per i sintomi ansiosi: una crescente mole di studi evidence-based  evidenzia che le persona con demenza può imparare e sviluppare nuove abilità, anche quando hanno deficit cognitivi di grado moderato (Spector et al. 2003).

 

La terapia cognitivo comportamentale (CBT) per il trattamento dell’ansia nella persona con demenza

La terapia cognitivo comportamentale (CBT) è il trattamento di prima scelta per l’ansia nella popolazione generale adulta e anziana. I primi studi controllati randomizzati sul trattamento CBT nelle persone con demenza che presentano sintomi di ansia evidenziano l’applicabilità e l’efficacia di tale intervento anche in questa popolazione (Stanley et al., 2013).

L’approccio CBT presentato nello studio di Charleswort e colleghi del 2015 segue la tradizione degli interventi basati sulla concettualizzazione del modello cognitivo classico di Beck e Clark (1997) per l’ansia generalizzata. Tale modello enfatizza la triade cognitiva di credenze tipiche dell’ansia, ovvero il senso di sé come vulnerabile, il mondo come caotico e il futuro come incerto. Lo scopo della terapia basata su questo modello è la riduzione dell’ansia attraverso la ricerca di alternative ai comportamenti di evitamento e l’aumento delle sensazioni di sicurezza e autoefficacia.

I criteri di inclusione dei soggetti in questo studio sono stati: risiedere a casa (non in strutture), avere una diagnosi da lieve a moderata, presentare livelli clinici di ansia, con o senza sintomi depressivi in comorbidità. I criteri di inclusione richiedevano anche che il soggetto avesse la volontà di partecipare ad una terapia che prevede la discussione su pensieri ed emozioni, e la presenza e disponibilità di un familiare a partecipare al trattamento come caregiver/persona di supporto. Venivano esclusi i partecipanti con sintomi psicotici, disturbi dell’apprendimento congeniti o comportamenti disfunzionali che avrebbero impedito un coinvolgimento proficuo nel trattamento.

La terapia proposta in questo studio prevedeva tre fasi, sviluppate nell’ambito di 10 incontri a cadenza settimanale. Nell’ambito di un trattamento breve e limitato nel tempo, il terapeuta può sentire la pressione di dover completare il protocollo, tuttavia, specialmente con questa tipologia di pazienti, è fondamentale tenere a mente il principio “less is more”: la quantità di materiale presentato e discusso in ogni sessione dev’essere in linea con le abilità del paziente, e un’adeguata quantità di tempo dev’essere dedicata alla ripetizione e al riassunto degli aspetti affrontati. Lo stile di trattamento deve avere, in linea con l’approccio CBT, il carattere di collaborazione e adattamento delle tempistiche al paziente, un agenda di attività centrata sulla persona, e l’attribuzione di compiti a casa.

  • Fase uno: socializzazione al modello, gestione/superamento degli ostacoli alla partecipazione, condivisione degli obiettivi e della formulazione

Come in ogni protocollo CBT, le prime sessioni prevedono la costruzione di una buona alleanza terapeutica, la socializzazione col modello cognitivo, l’elucidazione delle potenziali difficoltà e la determinazione di obiettivi. Per tutti gli elementi della terapia, è importante fornire materiale scritto di supporto alle conversazioni durante la terapia. In aggiunta alla classica psicoeducazione sull’ansia, che prevede ad esempio l’introduzione ai meccanismi “fight or flight”, altri argomenti da affrontare sono i circoli viziosi di mantenimento della preoccupazione e dei problemi di memoria.

E’ necessario individuare le principali aree di preoccupazione del paziente e del caregiver e il grado in cui le abilità del paziente sono compatibili con quelle considerate necessarie per l’appropriatezza della CBT a breve termine. E’ infatti importante determinare quali abilità preliminari alla terapia necessitano di essere sviluppate prima di svolgere un lavoro cognitivo vero e proprio. Pochissime persone che hanno una comorbidità di demenza e ansia sono in grado di accedere ai pensieri automatici, hanno consapevolezza delle emozioni e l’abilità di etichettarle correttamente, hanno la capacità di notare le fluttuazioni  nelle emozioni, focalizzare, stabilire dei collegamenti e generalizzare i concetti. Inoltre, è facile che la persona con demenza non utilizzi un linguaggio psicologico o emotivo per esprimere le loro difficoltà, ma piuttosto fisico o comportamentale (malessere, irrequietezza, apatia). E’ molto utile identificare le rappresentazioni di malattia del paziente e del caregiver poiché ciò aiuta nella comprensione delle reazioni emotive alla demenza, delle abilità percepite di fronteggiare la malattia, e della capacità di distinguere i concetti di ansia e di demenza. I pazienti che sono in grado di distinguere tra i sintomi attribuibili ai deficit di memoria e quelli dovuti all’ansia saranno in grado di effettuare dei cambiamenti più rapidamente.

E’ di fondamentale importanza adattare la terapia alla presenza di eventuali deficit sensoriali (utilizzando ad esempio caratteri di scrittura grandi e chiari), ai problemi di mobilità (pensando all’organizzazione dei trasporti e prevedendo eventualmente visite a casa), alle difficoltà legate alla salute fisica (consentendo ad esempio alle persone con dolore cronico di avere momenti per muoversi durante la terapia), e alle differenze inter-gruppo  di familiarità con i costrutti psicologici e con i processi terapeutici (prevedendo ad esempio una fase di socializzazione alla terapia più ampia, con l’utilizzo delle parole del paziente stesso minimizzando il lessico “psicologhese”).

Le strategie per rendere il trattamento compatibile coi deficit neurocognitivi della demenza variano in base al profilo cognitivo individuale: ad esempio persone con demenza di Alzheimer presenteranno probabilmente deficit di memoria a breve termine e difficoltà a imparare materiale nuovo, mentre le persone con demenza vascolare avranno probabilmente una riduzione della velocità di elaborazione delle informazioni, mentre quelli con demenza fronto-temporale presentano tipicamente deficit nelle funzioni esecutive (come ad esempio difficoltà nella pianificazione, nell’organizzazione e nell’utilizzo di feedback).

La CBT standard prevede delle procedure che di per sé supportano la codifica e la ritenzione delle informazioni. Ad esempio, è molto utile dare al paziente, almeno ogni 10 minuti, brevi riassunti dei concetti presentati e chiarimenti dei nuovi elementi introdotti. E’ anche importante elicitare un feedback dal paziente, in modo da capire se il paziente ha avuto una buona comprensione delle informazioni discusse, e se esse hanno eventualmente attivato vissuti emotivi negativi nella persona. Non c’è una struttura rigida per quanto riguarda i compiti a casa, le linee guida generali da seguire sono che essi riguardino l’argomento trattato nella seduta e che siano utili per raggiungere gli obbiettivi terapeutici generali del paziente.

La concettualizzazione condivisa, che dev’essere il più possibile sintetica e semplice e con un numero di elementi che non ecceda la limitata capacità della memoria di lavoro della persona, può essere utilizzata come stimolo di memoria, per ricordare al paziente il piano di azione stabilito congiuntamente.

Il focus della terapia è il trattamento dell’ansia dalla prospettiva del paziente. Idealmente, il ruolo del caregiver è quello di fornire “appigli” e indizi di memoria  per aiutare il paziente a generalizzare il lavoro fatto in terapia alla vita quotidiana. E’ importante a questo scopo che il familiare comprenda e  concordi con il razionale cognitivo dell’intervento. Il terapeuta potrebbe accorgersi del fatto che la persona con demenza non è consapevole né riconosce i suoi vissuti di ansia come tali e, in tal caso, può essere utile identificare i punti di accordo e quelli di differenza tra il punto di vista della persona con demenza e quello del suo familiare/caregiver.

E’ importante “allenare” il paziente ad espandere il vocabolario emotivo e a differenziare tra pensieri, sensazioni fisiche ed emozioni. La consapevolezza di questi aspetti può essere incrementata attraverso semplici strumenti psicoeducativi di individuazione delle relazioni tra pensieri, emozioni e comportamenti, tramite domande del terapeuta che stimolino la curiosità e la riflessione, e piccoli esercizi di automonitoraggio sia durante la sessione, che a casa, come ad esempio compiti di osservazione, o il diario dei pensieri.  Il processo di automonitoraggio può facilitare l’abilità di assumere una distanza critica dal problema dell’ansia, introducendo una separazione tra la persona e la sua ansia.

Il principio cardine della CBT della formulazione condivisa degli scopi della terapia dev’essere senz’altro rispettato anche nel caso della sua applicazione alla persona con demenza, con la possibilità in questo caso di coinvolgere nella formulazione anche il caregiver. E’ necessario porre attenzione alle eventuali aspettative e credenze irrealistiche sulla cura, come ad esempio che la demenza possa essere curata o fermata: in tal caso bisogna aumentare la consapevolezza del paziente che il target del trattamento è l’ansia, e non i problemi di memoria. Dal momento che, tuttavia, c’è spesso una sovrapposizione tra i sintomi di ansia e i sintomi della demenza, è utile in questa fase discutere dell’influenza importante che ha l’ansia sui problemi di memoria (e, di conseguenza, come il trattamento dell’ansia possa essere utile per gestire meglio le difficoltà mnestiche)

  • Fase 2: processi di cambiamento orientati allo scopo (indicativamente sedute dalla 3 alla 9)

1) Affrontare le reazioni autonomiche: lo scopo di questo modulo è di influenzare in maniera diretta la sensazioni di agitazione, percepite a livello viscerale, di cui fa esperienza la persona con demenza. Trattando le reazioni autonomiche è anche possibile ridurre il senso di vulnerabilità, aumentare il senso di autoefficacia nel controllo di tali reazioni ed aumentare la consapevolezza che i sintomi ansiosi siano separabili dai sintomi della demenza.

Oltre agli aspetti fisiologici dell’ansia è importante tener conto dei sintomi comportamentali (tra cui ad esempio l’aggressività e l’irritabilità), che possono essere letti come una reazione alla sensazione di essere fuori controllo, vulnerabili e ansiosi circa il futuro, essere spaventati dalle richieste che vengono loro fatte. La persona con demenza potrebbe pensare che i suoi comportamenti non abbiano una connessione con i vissuti ansiosi, o potrebbero non essere consapevoli dei loro sintomi comportamentali. Perciò il terapeuta, il paziente ed il caregiver devono lavorare collaborativamente per fare un’analisi funzionale di questi comportamenti per mettere in luce come l’ansia sia la causa e la spiegazione più appropriata di essi.

Le strategie per affrontare le reazioni autonomiche includono la psicoeducazione sulle manifestazioni fisiche e comportamentali dell’ansia, il rilassamento muscolare progressivo, l’identificazione e la messa in pratica di strategie per “sentirsi al sicuro” come ad esempio adattamenti ambientali, la creazione ed il mantenimento di routine, provare nuovi modi per aumentare la percezione di controllo, utilizzare degli stimoli visivi come dei biglietti con i “pensieri tranquillizzanti”. Alcune persone con demenza possono anche beneficiare di training di spostamento dell’attenzione e “consapevolezza mindful”.

2) Affrontare le reazioni strategiche alla minaccia percepita: le possibili minacce percepite dalla persona con demenza sono la diagnosi di una malattia terminale, l’insorgenza di menomazioni fisiche e cognitive e le preoccupazioni interpersonali e sociali. Le reazioni messe in atto per gestire queste paure sono ad esempio i tentativi di evitare o scappare da situazioni potenzialmente ansiogene, l’ipervigilanza agli indizi di pericolo e lo sviluppo di “comportamenti di sicurezza”. E’ importante comprendere i significati personali che sottostanno ai pensieri automatici negativi realistici, e poi mettere indurre la persona a mettere in atto strategie pragmatiche (più che di rilettura cognitiva), come ad esempio la distrazione da una ruminazione eccessiva, l’incoraggiamento di espressioni emotive e l’utilizzo della programmazione della attività per aumentare il controllo percepito.

3) Abbandonare i comportamenti di sicurezza e acquisire strategie di fronteggiamento utili. Alcune delle strategie comuni di fronteggiamento non sono utili poiché contribuiscono al mantenimento dell’ansia: evitare situazioni temute riduce l’ansia nell’immediato ma non permette alla persona di disconfermare le credenze ansiogene.

E’ importante innanzitutto identificare il significato e la funzione di un determinato comportamento, e poi chiedersi se la conseguenza temuta è basata su un’ erronea interpretazione catastrofica o su una reale possibilità che accada una catastrofe. Quando c’è una credenza erronea riguardo ad un potenziale catastrofe è utile intervenire per ridurre l’intensità con cui una persona crede alla possibilità che l’esito temuto si verifichi e potenziare invece la fiducia in un punto di vista alternativo.

Quando invece l’evento temuto potrebbe effettivamente accadere, è più efficacie lavorare su abilità di problem solving allo scopo di incrementare il senso di autoefficacia nel gestire la situazione. Ad esempio, se una persona con demenza evita di incontrare un amico, le strategie per affrontare la sua paura e l’evitamento saranno diverse a seconda che la preoccupazione principale sottostante sia “gli amici penseranno male di me quando verranno a sapere della mia diagnosi di demenza, oppure “potrei perdermi nel percorso per andare ad incontrarlo”. Nel primo caso, la persona non ha mai avuto l’opportunità di scoprire come gli amici effettivamente potrebbero reagire e perciò continua a convivere con un’ansia probabilmente non necessaria. Nel secondo caso invece potrebbero essere suggerite delle strategie pratiche per non perdersi durante il percorso oppure ipotizzare uno o più piani di azione nel caso si perda.

4) Aspetti interpersonali. La diagnosi di demenza ha un impatto importante anche sul sistema familiare in cui la persona è inserita. Sottolineare al paziente a al familiare le differenze nelle percezioni e nelle valutazioni di malattia facilita aiuta entrambi a “mettersi nei panni dell’altro”. Quando l’ansia sembra essere associata al significato della diagnosi o alla valutazione della prognosi, è utile esplorare il significato soggettivo e sociale della demenza, incluse le credenze ed i miti legati all’invecchiamento e alla demenza come “minaccia al sé”.

Ascoltare il punto di vista dell’altro e le sue reazioni emotive può ridefinire una relazione in cui si erano affermati cicli interpersonali dannosi come quello dell’ “attacco-attacco”, “Attacco-difesa” o “difesa-difesa”. Le domande di scoperta guidata possono facilitare la comunicazione, come ad esempio: “Cosa si prova ad avere la demenza?”, “Come ti senti quando il tuo familiare ti dice questo?” L’intervento può includere in questo caso la facilitazione del processo di negoziazione di significati e di compromessi riguardo a come ogni componente vorrebbe trattare l’altro, come vorrebbe essere trattato a sua volta, e rafforzare le due parti nel ruolo comune di alleate contro la demenza, piuttosto che l’una contro l’altra. E’ di fondamentale importanza qui esternalizzare la demenza dalla persona, differenziarla, per evitare che si crei l’identità tra i sintomi della demenza e la persona nella sua interezza.

  • Nella fase conclusiva (che dovrebbe occupare indicativamente le sedute dalla 8 alla 10), vengono  pensate e condivise delle modalità pratiche per mantenere le abilità acquisite, integrarle e generalizzarle  al meglio nella quotidianità.

Paukert e colleghi hanno sviluppato nel 2013 un protocollo di trattamento per i sintomi di ansia nelle persone con demenza, simile a quello sopra citato, chiamato “Peaceful Mind”, che in uno studio pilota (Stanley et al., 2013) ha dimostrato un miglioramento della qualità di vita riferito dai pazienti e una diminuzione dello stress del caregiver legato ai sintomi ansiosi del paziente.

La peculiarità di questo protocollo è la sua ottica community-based, in quanto prevede che gli interventi siano effettuati al domicilio del paziente, e che, dopo una iniziale fase di trattamento (9-12 sedute settimanali) effettuata da un clinico specializzato, il percorso sia continuato dai familiari/caregiver, con una supervisione telefonica costante da parte dello psicologo.

Questa metodologia consente di fornire il trattamento ad una fetta più ampia della popolazione, in quanto può superare barriere di tipo logistico (spostamenti) ed economico. “Peaceful Mind” è un protocollo che enfatizza maggiormente gli interventi comportamentali, rispetto a quelli cognitivi: vengono insegnate strategie per aumentare la consapevolezza, regolare il respiro, utilizzare auto-istruzioni tranquillizzanti, incrementare le attività piacevoli e migliorare l’igiene del sonno. Sono stati anche creati materiali psicoeducativi molto chiari e dettagliati che illustrano le varie fasi dell’intervento e forniscono il materiale di supporto per svolgerlo a casa, reperibile (per adesso in lingua inglese) al sito http://www.mirecc.va.gov/visn16/clinicalEducationProducts.asp (sezione”Anxiety”).

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Elena Lo Sterzo
Elena Lo Sterzo

Specializzanda in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale. Specialista in Neuroscienze

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