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La Carezza – Un racconto di Emiliano Avallone

Guardai verso il campo secondario e vidi un uomo in tuta con un ciuffo di capelli biondi su una testa ormai calva. Lo riconobbi subito.

Di Guest

Pubblicato il 11 Gen. 2017

Il bambino mi fissava spazientito dall’altro lato della strada. Assorbito da quel ricordo, avevo dimenticato di restituirgli il pallone. Lo calciai verso di lui. Lo fermò con il collo del piede e poi agitò la mano in segno di ringraziamento. Lo salutai e ripresi a camminare. Dentro di me sorridevo, ripensando a quella carezza di un giorno di maggio di cinquantasei anni prima.

Emiliano Avallone

 

Abito nel distretto di Tetuan dal 1957, a poche centinaia di metri dal Santiago Bernabeu. Il bar di Miguel si trova nel quartiere di Chamartin, dove sorgeva il vecchio stadio del Real Madrid. Mi fermavo al suo bar ogni pomeriggio a bere un’aranciata prima di andare alla Ciudad Deportiva a vedere gli allenamenti. A quei tempi Miguel aiutava suo padre dopo la scuola. Lo trovavo dritto dietro il bancone a pulire i bicchieri e a versare noccioline nelle ciotole, che i clienti avrebbero svuotato bevendo pinte di vino e cervezas ghiacciate. Lo conosco da più di cinquant’anni, eppure la nostra è sempre stata un’amicizia a distanza: quella del bancone del bar. Nessuno dei due ha mai oltrepassato quel confine, pur scambiandoci molte confidenze fin da quando eravamo adolescenti.

Continuo ad andarci ogni volta che posso. A sessantotto anni non bevi più aranciata ma caffè o brandy, e Miguel ora ha una lavastoviglie per i bicchieri, così abbiamo molto tempo per chiacchierare.

Quella mattina, mentre percorrevo la strada verso il bar, il pallone rotolò verso i miei piedi, interrompendo la mia camminata. Sorpreso, mi guardai intorno per capire da dove provenisse. La voce di un bambino, dall’altro lato della strada, attirò la mia attenzione. <<Senor!>> urlò, facendomi cenno con la mano di tirargli la palla. La presi, facendola girare tra le mani. Era di plastica, liscia e morbida. Non riconoscevo quell’oggetto che pure era tanto familiare. Cercavo la durezza del cuoio e le rughe delle cuciture. Provai ad annusarla, ma non sentii nulla che assomigliasse a un odore di erba o di cuoio.

Quel giorno del 19 maggio 1960 non era stato così. Ricordo che la sera prima il Real aveva vinto la sua quinta Coppa dei Campioni consecutiva, battendo in finale l’Eintracht per 7-3, con quattro reti di Kopa e tre di Di Stefano. Avevo visto la partita al bar di Miguel – a casa non avevamo il televisore – insieme a mio padre. Il mattino successivo mi svegliai presto per andare alla Ciudad Deportiva, sperando – ma forse era più un’illusione – di trovare i blancos ad allenarsi. Arrivai col fiatone e la maglietta zuppa di sudore. All’ingresso il custode non c’era. Scavalcai la staccionata laterale e mi diressi verso il campo principale di allenamento, senza trovare nessuno. Ero deluso.

Ad un tratto un pallone rotolò verso di me dopo alcuni sobbalzi sul terreno. <<Ehi, nino, tiramelo por favor!>> esclamò una voce. Guardai verso il campo secondario e vidi un uomo in tuta con un ciuffo di capelli biondi su una testa ormai calva. Lo riconobbi subito. Era Alfredo Di Stefano, detto la Saeta Rubia, che si allenava da solo su un vecchio campo polveroso. Raccolsi il pallone e lo rigirai tra le mani, sporcandomi con le macchie d’erba e sentendone le cuciture del cuoio. Ero bloccato, eccitato da quell’evento e allo stesso tempo incapace di fare alcun movimento. I battiti del cuore salivano fino in gola.

L’uomo corricchiò con leggerezza, raggiungendomi. Si fermò a pochi passi da me e sorridendo mi chiese se volevo giocare con lui. Iniziammo a scambiare dei passaggi, poi col pallone tra i suoi piedi mi invitava a sottrarglielo, sfidandomi in quei dribbling che tante volte gli avevo visto fare dalle gradinate del Bernabeu. Destro, sinistro, tunnel, finte, palleggi. La palla era incollata alle sue scarpe, i suoi movimenti erano come un tango, danzato da un uomo che, innamorato della sua donna, la conduce con sicurezza e passione. La palla era la sua amante, l’unica alla quale era davvero fedele.

Dopo una decina di minuti si fermò e, ringraziandomi per aver giocato con lui, domandò il mio nome. <<Pablo Morales Ruiz – risposi – ma tutti mi chiamano Pablito>>.

<<Bueno, Pablito. È stato un piacere allenarsi con te>> dichiarò sorridendo.

<<Posso chiederle una cosa, senor Di Stefano?>>

<<Dimmi pure>>

<< Lei è il più grande campione di tutti i tempi, perché è venuto ad allenarsi da solo? Ieri avete vinto la coppa, oggi tutti gli altri giocatori riposano o festeggiano!>>

Rise fragorosamente, compiaciuto della mia domanda. <<Vedi Pablito, il pallone è come una femmina che giura amore, sapendo di mentire. Se tu la trascuri, ti dimentica o, peggio, ti tradisce. Devi pensarci notte e giorno>> rispose col suo accento argentino. Poi mi salutò accarezzandomi la testa e scompigliandomi il mucchietto di capelli sulla fronte.

<<Senor>> sentii urlare ancora. Il bambino mi fissava spazientito dall’altro lato della strada. Assorbito da quel ricordo, avevo dimenticato di restituirgli il pallone. Lo calciai verso di lui. Lo fermò con il collo del piede e poi agitò la mano in segno di ringraziamento.

Lo salutai e ripresi a camminare. Dentro di me sorridevo, ripensando a quella carezza di un giorno di maggio di cinquantasei anni prima.

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