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Sala e Raggi: Psicologia del politico sotto accusa

Nel dibattito su se abbia fatto meglio Sala a dimettersi o la Raggi a rimanere al suo posto, gli aspetti giuridici e politici prevalgono. Ma la psicologia ..

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 19 Dic. 2016

Mentre infuria il dibattito su se abbia fatto meglio Sala a dimettersi o la Raggi a rimanere al suo posto, lo psicologo fa bene a mantenersi defilato. Gli aspetti giuridici e politici prevalgono, giustamente. Lo scenario delle accuse è diverso a Roma e Milano, e diverse sono le conseguenze politiche.

Un articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta.

Nessuno ha la sfera di cristallo, nessuno sa se ne uscirà meglio Sala con la sua rapida auto-sospensione (lungimirante? Affrettata?) o Raggi con la sua attesa (inetta? Lungimirante?). Nessuno ha una verità morale e nemmeno giuridica da condividere con il mondo: la corruzione della politica ormai si contrappone a un potere giuridico che inizia a sua volta a essere sospettato di nascondere talvolta un secondo fine, un desiderio di potere. La psicologia non illumina la politica e viceversa.

Un’azione come quella di Sala potrebbe essere davvero affrettata –per non dire isterica- e nonostante questo rivelarsi una mossa vincente. Se le accuse rientrassero in breve tempo Sala potrebbe tornare a fare il sindaco con forza accresciuta. Oppure no, la procedura giuridica si impantanerà in un iter pluriennale alla fine del quale Sala -che beffa- sarà magari assolto ma svuotato politicamente. L’azione della Raggi può essere un lungimirante muro di gomma, un tirare a campare che non fa mai tirare le cuoia o solo l’inerzia di una politica inetta. Inutile chiedere lumi alla psicologia sul finale di partita, essa non è una scienza esatta e predittiva.

 

Il politico è un capro espiatorio

Qualcosa però si può dire su cosa deve affrontare emotivamente un politico. Che esso ceda o resista, il suo scenario interiore è identico. Il politico è un capro espiatorio fin dall’inizio, una figura che accetta di ricevere su di sé l’odio e il rancore delle moltitudini. Fin da quando nutre l’ambizione di ottenere la fiducia di larghi gruppi di persone, di coordinarle e di dirigerne le decisioni (un tempo si sarebbe detto: di comandarle e di decidere) egli si assume questo carico. Il capro espiatorio può essere non solo l’anello debole, ma anche quello forte della catena.

Una volta fatta questa scelta, nei confronti del politico scatta il meccanismo relazionale del potere, il cosiddetto ciclo interpersonale dell’agonismo. Non lo dice solo la psicologia, lo dicono anche la filosofia e la storia. È la dialettica del padrone e dello schiavo di Hegel, è la riflessione sul potere ad Atene di Tucidide. Una volta che una persona sia stata capace di convincere altri che egli, o lei, sia in grado di coordinarne gli sforzi meglio di chiunque altro, il rancore e il sospetto inizieranno a crescere. Non inganni la terminologia edulcorata di noi moderni: coordinare suona più dolce all’orecchio di comandare, ma il succo rimane aspro e forte. Sarà lo stesso politico a covare il drago mentre scalda il suo popolo con la sua protezione. Quel calore fa crescere la forza del sospetto di chi comunque, anche nella migliore delle politiche, sta sotto. Cittadino suona meglio di suddito e la gerarchia rimane nascosta, ma vivente e corrosiva. Una persona che accetti di farsi coordinare da un’altra è comunque qualcuno che ha accettato di assumere una posizione inferiore. Se non rabbia, se non rancore, se non invidia, almeno dispetto coltiverà il cuore del cittadino verso l’inevitabile arroganza del politico. Quale maggiore e insopportabile prepotenza è quella di colui che avanza la pretesa di sapere decidere meglio di noi al posto nostro? Egli si arroga una maggiore capacità di capire e di dirigere le nostre stesse azioni.

 

Politico e cittadini: come madre e figli

Secondo Melanie Klein, la veneranda e terribile allieva di Freud, perfino la madre deve rassegnarsi all’invidia del bambino, perché la madre esercita comunque un potere e un controllo che genera rancore. Un potere ancora più pervasivo di quello del padre, e per questo Melanie Klein aveva sostituito la dialettica della rivalità edipica del padre con quella ancora più feroce della liberazione dal controllo della madre, che più del padre ha legittimamente potere di vita e di morte sull’infante. La madre combatte contro un infante inetto, il padre contro un adolescente già quasi adulto e forte. Una lotta molto più sbilanciata e più feroce, più capace di generare odio inestinguibile.

La dialettica del potere tra politici e cittadini somiglia più al rapporto tra madre e bambino che a quella tra vecchi e giovani. La cittadinanza, il popolo, e ancora peggio le masse, le folle e infine la gente -in un crescendo di indifferenziazione del corpo dei comandati- sono descritti come un essere infantile. Ricordate Gustave le Bon e la psicologia delle folle? Ma anche il disprezzo di Tucidide per il popolo di Atene con quel discorso apologetico messo in bocca a Pericle e strambamente diventato un elogio della democrazia, quando invece tutto quello che dice Pericle è un avvertimento: ad Atene l’assemblea del popolo non fa disastri solo perché c’è una classe di politici in grado di dirigerla, di coordinarla. È Pericle che da sostanza razionale alle pulsioni del popolo.

 

Il potere e il sospetto per il ruolo politico

Perfino Pericle deve rassegnarsi a caricarsi del suo fardello di odio, invidia, e rancore. Finito lui, si scatena l’odio incontrollato. Prima e dopo Pericle Atene fagocita politici a un ritmo impressionante. E tutti attraverso un meccanismo di sacrificio e di espulsione che è giudiziario. Da Milziade ad Alcibiade tutti processati e fuggiti o esiliati. Il meccanismo è giudiziario perché il politico, in quanto detentore del potere, è intrinsecamente ritenuto corrotto, strutturalmente marcio. È la sua stessa scelta, non tanto le sue azioni, a condannarlo.

Insomma, il politico deve rassegnarsi a essere considerato un individuo moralmente sospetto. Egli si arroga di gestire la cosa pubblica, non solo il denaro, ma l’intero bene pubblico. Come il ladro e il mercante, egli ha in mano qualcosa che lui stesso non ha prodotto. E a questo destino egli deve rassegnarsi. Può essere stato un tecnico, un burocrate, un imprenditore, un demagogo, un incorruttibile o perfino un rivoluzionario, ma appena accede alla soglia del potere egli si deve rassegnare a ricevere il sospetto che ricade su colui che gestisce le nostre risorse, che ce le elargisce o ce le nega secondo il suo giudizio.

Può essere talvolta amato, ma sarà al tempo stesso sempre odiato. Al di fuori della democrazia è possibile cavarsela facendosi temere. In democrazia no. E quindi solo questo può raccomandare lo psicologo a Sala: che la sua decisione di autosospendersi abbia un significato solo morale e politico nella quale le ragioni psicologiche siano messe da parte. Non speri mai il politico di sottrarsi al rapporto ambiguo che egli avrà sempre con la cittadinanza a cui rende conto. Sarà sempre un rendere conto fondato sull’insoddisfazione e sul sospetto, un giudizio intriso di rancore e di colpa, un giudizio che passa quindi per un altro potere, anch’esso carico di significati: il tribunale, il potere giudiziario. Non a caso Tucidide sosteneva che la democrazia si svolge sia nell’assemblea che nei tribunali.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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