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Giustizia e forza: come entrano in gioco nella psicoterapia – Ciottoli di psicopatologia

In psicoterapia il concetto di giustizia entra spesso in gioco in quanto i pazienti tendono a sentirsi vittime di ingiustizie e poco compresi dagli altri.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 28 Dic. 2016

Ma il concetto di giustizia ha qualche interesse per la psicoterapia? Non certo decisivo ma su due questioni può aiutare. In primo luogo penso a tutti quei pazienti che sperimentano rabbia per essere trattati ingiustamente e si lamentano per il mancato intervento di una giustizia immanente che sta solo nelle loro aspettative e dovrebbe premiarli per quanto sono buoni mentre continua ad approfittarsene.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Giustizia e forza (Nr. 17)

Giustizia e forza secondo gli eventi della storia

La nostra tradizione culturale figlia del cattolicesimo e del diritto romano ci fa presupporre un primato della prima sulla seconda, al punto che ci sembra che la seconda sia accettabile solo al servizio della prima da cui la possibilità di punire anche pesantemente chi trasgredisce la giustizia e le cosiddette guerre giuste. Ma questo è un auspicio piuttosto che la realtà. La lotta per la sopravvivenza evolutiva del più forte se ne fotte della giustizia e se la utilizzassimo per capire le relazioni tra umani e gli stati molti fenomeni che ci sembrano inspiegabili e ci costringono all’elaborazione di sofisticate teorie sarebbero pressochè ovvi: se uno può prevaricare con prepotenza lo farà certamente, altrimenti bisogna negoziare e fare accordi. Il concetto lo troverete su You Tube magnificamente espresso da Alessandro Baricco nella Palladium lectures dal titolo: “Tucidite: sulla giustizia

Il rapporto addirittura sembra invertito: è il più forte, il vincitore a stabilire ciò che era ed è giusto. Avete mai pensato all’altra storia che ci sarebbe stata se avessero vinto i nazisti ? chi sarebbe stato sul banco degli imputati a Norimberga. Del resto non esiste un arbitro esterno che giudica in posizione di terzietà, nè un regolamento condiviso. Allora la giustizia non serve a nulla? No essa entra in gioco quando le forze in campo sono pari. Per dirla in altri termini il sistema agonistico e di rango è prevalente e ciò è vantaggioso. Quando il verdetto è di parità e le forze in campo si equivalgono allora si può attivare il sistema di collaborazione tra pari regolato anche dalla giustizia ma è un ripiego come quando dopo i supplementari si arriva ai rigori.

Dire che immaginare l’uomo come sostanzialmente egoista sia una visione pessimistica è affermazione che parte dalla premessa accettata acriticamente e condivisa nella nostra cultura che l’altruismo sia migliore. Premessa talmente radicata che non riusciamo ad osservare dal di fuori.

 

Il concetto di giustizia nell’ambito della psicoterapia

Ma tutto questo ha qualche interesse per la psicoterapia? Non certo decisivo ma su due questioni può aiutare. In primo luogo penso a tutti quei pazienti che sperimentano rabbia per essere trattati ingiustamente e si lamentano per il mancato intervento di una giustizia immanente che sta solo nelle loro aspettative e dovrebbe premiarli per quanto sono buoni mentre continua ad approfittarsene come fossero, invece, “coglioni”.

Non ci sono più degli accudenti genitori che li premiano e pensano a tutto se solo loro si comportano bene. E’ utile comprendano che coglioni lo sono davvero e che se non sono loro stessi a farsi rispettare nessuno lo farà al loro posto. Spetta a loro raggiungere quell’equilibrio di forze con l’interlocutore che gli dà potere negoziale e consente l’attivazione delle regole della giustizia.

Pensiamo ad esempio a come l’indipendenza economica sia premessa necessaria anche se insufficiente per l’autonomia psicologica tra genitori e figli e tra i partner di una coppia. In sintesi mi sembra, da un lato, che si tratti di non assecondare il vittimismo dei nostri pazienti e, pur riconoscendo la presenza di difficoltà oggettive, restituirgli un senso di forte agentività nella costruzione della propria storia. La favola del carnefice e della vittima è una semplificazione eccessiva ( tranne casi estremi in cui la disparità delle forze in campo è strutturale ed evidente ed in cui infatti per legge è data per scontata la violenza: adulto versus bambino; insegnante versus allievo; curante versus paziente) e non aiuta a modificare le situazioni avverse.

Dall’altro che sia opportuno legittimare la ricerca del potere come premessa per costruire rapporti paritari di collaborazione, superando pregiudizi buonisti. La seconda questione riguarda direttamente la relazione terapeutica. Si dichiara apertamente che l’ideale è che sia paritaria e collaborativa e dopo queste riflessioni potremmo dire meglio che sia paritaria per poter essere collaborativa. Ma questo appunto è l’ideale non certo il punto di partenza.

Un elemento che ristabilisce un po’ la parità è il pagamento da parte del paziente che lo rende il datore di lavoro del suo terapeuta con facoltà di licenziamento in tronco. Il paziente ha bisogno del terapeuta per le sue competenze nel migliorare le sue sofferenze e il terapeuta ha bisogno dei soldi del paziente per migliorare la qualità della sua vita. La correzione è solo parziale perché un singolo paziente tranne che nel caso di terapeuti giovani ad inizio carriera incide ben poco sul reddito complessivo del terapeuta ma, tuttavia, può molto sull’immagine professionale. Credo comunque che quando lo squilibrio esiste non ne riduca gli effetti il negarlo ma sia opportuno riconoscerlo e tenerne conto. Concordare sul fatto che non stiamo alla pari può essere la prima affermazione davvero prioritaria. In ambito formativo il concetto di supervisione andrà superato con quello più ricco di intervisione.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

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