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La sindrome del cuore felice: effetti paradossali nella ricerca della felicità

La ricerca della felicità può avere effetti controproducenti e talvolta generare delusione o disturbi dell'umore quando gli obiettivi non vengono raggiunti.

Di Barbara Valenti

Pubblicato il 10 Nov. 2016

Aggiornato il 02 Ott. 2019 15:47

La ricerca della felicità sarebbe particolarmente controproducente per coloro che vi attribuiscono un valore elevato, questo perché più una persona stabilisce alti standard più si espone al rischio di non riuscire a raggiungerli, incrementando così la probabilità di sperimentare sentimenti di delusione che paradossalmente portano ad allontanarsi ancor di più dall’obiettivo.

Barbara Valenti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Lo diceva già Seneca [blockquote style=”1″]tutti vogliono vivere felici, ma […] è così difficile raggiungere una vita felice che più la si ricerca con affanno più ci se ne allontana.[/blockquote]

Nulla sembra più naturale che il voler essere felici. La felicità è considerata un ingrediente fondamentale della vita umana, indispensabile per il benessere e la salute, e sono varie le ricerche che dimostrano che le persone felici hanno più amici, più successo lavorativo e vivono una vita più lunga e sana rispetto a coloro che lo sono meno (Fredrickson, 1998; Lyubomirsky, King & Diener, 2005). Non sorprende quindi che la felicità sia un valore altamente condiviso, in particolar modo nelle culture occidentali dove i messaggi che ne promuovono la ricerca provengono un po’ da tutte le fonti: dalla Costituzione Americana (Articolo I: “a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità”) allo spot della Coca Cola.

Siamo quindi spinti a tendere verso il raggiungimento della felicità convinti che sia l’atteggiamento più giusto e che il solo fatto di inseguirla ci porterà a star bene.

 

Gli effetti controproducenti e gli errori alla base della ricerca della felicità

E se invece non fosse così, se la ricerca della felicità avesse effetti controproducenti?

Questo è quello che si sono chiesti Gruber, Mauss e Tamir in uno studio pubblicato nel 2011, arrivando a concludere che l’essere felici non sempre si rivela la cosa migliore, anzi, ci sono alcune condizioni in cui l’essere felici risulta dannoso, ovvero:
1) L’essere troppo felici. Oltre una certa soglia di felicità si assiste a un calo nella creatività (Davis, 2009) e alla messa in atto di comportamenti rigidi (Fredrickson & Losada, 2005) o rischiosi, come l’abbuffarsi, il bere o il far uso di sostanze (Cyders & Smith,2008; Martin et al., 2002). La relazione tra felicità e conseguenze positive dunque non è lineare.
2) Il mostrarsi felici nel momento sbagliato. Quando tutto va bene, provare emozioni positive ci aiuta a incrementare le risorse e i legami sociali, al contrario in presenza di problemi sperimentare emozioni negative può offrire importanti benefici. Pensiamo all’espressione della rabbia, che in caso di negoziazione si rivela particolarmente utile perché induce l’altro a concessioni più generose di quanto non farebbe se ci limitassimo ad esprimere emozioni positive (Van Kleef, De Dreu, Pietroni & Manstead, 2006).
3) L’essere felici in modo ingiustificato o non conforme alle aspettative culturali. È il caso dell’orgoglio arrogante (la felicità per il raggiungimento di benefici non meritati), che pur essendo un sentimento positivo per chi lo sperimenta si associa a comportamenti aggressivi o antisociali (Baumeister, Smart & Boden, 1996; Tracy, Cheng, Robins & Trzesniewski, 2009). Anche il provare un grado di felicità incongruo con le aspettative culturali non aiuta, e questo è vero sia per coloro che valorizzano il raggiungimento di stati positivi ad alta attivazione (eccitamento) come europei e americani, sia per chi preferisce quelli a bassa attivazione (contentezza) come i cinesi, poiché in entrambi i casi la discrepanza tra lo stato ideale e quello effettivo correla con la depressione (Tsai, Knutson & Fung, 2006).

Non solo la felicità non fa sempre bene, ma nel ricercarla tendiamo a commettere diversi tipi di errori (Schooler e colleghi, 2003):
1) Non sempre siamo in grado di stabilire con esattezza il nostro grado di felicità, essendo questo influenzato da fattori situazionali come la condizione meteorologica (Schwarz & Clore, 1983) o i risultati di una partita di calcio (Schwarz et al., 1987).
2) Nel monitorare quanto siamo felici ne indeboliamo il grado. Le persone più felici sono infatti quelle meno introspettive (Lyubomirsky & Lepper, 1999; Veenhoven, 1988) mentre quelle più infelici riportano maggiore autoriflessività, attenzione focalizzata su di sé e pensiero ruminativo (Ingram, 1990; Musson & Alloy, 1988). Le persone meno felici tendono quindi a riflettere maggiormente sulle proprie reazioni, riducendo in questo modo il grado di piacere dell’esperienza stessa che viene confrontata con uno stato ideale irraggiungibile.
3) Tendiamo a valutare in modo inaccurato cosa può farci felici, e a non cogliere i momenti che ci rendono tali. Ad esempio, alcuni pensano che arricchirsi sia un modo per essere più felici, ma questo è vero solo in parte, poiché un miglioramento della condizione economica produce un incremento di felicità che è solo temporaneo e che con il tempo tende a svanire (Brickman & Cambell, 1971). In aggiunta, ci facciamo sfuggire momenti di felicità perché consideriamo le attività in cui siamo impegnati come un mezzo e non come un fine: nel spostare l’attenzione verso l’obiettivo ultimo – essere felici – non ci godiamo il momento presente – un concerto, una cena, un film, etc.

La ricerca della felicità sarebbe particolarmente controproducente per coloro che vi attribuiscono un valore elevato, questo perché più una persona stabilisce alti standard più si espone al rischio di non riuscire a raggiungerli, incrementando così la probabilità di sperimentare sentimenti di delusione che paradossalmente portano ad allontanarsi ancor di più dall’obiettivo. Uno studio di Mauss e colleghi (2011) dimostra che i soggetti spinti a valorizzare la felicità e poi a sperimentarla riportavano un livello di felicità inferiore rispetto a coloro che non erano stati precedentemente indotti a farlo. In aggiunta, la spasmodica ricerca della felicità sembra portare ad un maggior grado di solitudine, soprattutto nelle culture dove l’essere felici viene valutato in termini di raggiungimento personale e gli individui si focalizzano più su se stessi che sugli altri, rischiando di danneggiare le relazioni sociali (Mauss et al, 2012).

 

La ricerca della felicità e i disturbi dell’umore

Ulteriori ricerche si sono spinte oltre. Ford e colleghi (2013) sono giunti alla conclusione che la tendenza a dare estremo valore al raggiungimento della felicità si associ a depressione, questo sulla base di due studi: il primo, condotto su un campione di 98 soggetti con sintomi depressivi in remissione, mette in evidenza come all’aumentare dell’importanza data al raggiungimento della felicità aumenti anche la gravità dei sintomi depressivi; il secondo, che confronta 31 pazienti con sintomi depressivi in remissione e 30 soggetti sani, dimostra nei soggetti depressi la tendenza a dare maggiore importanza all’essere felici.

Il dare un estremo valore alla felicità sembra un fattore di rischio anche per il disturbo bipolare. Ford e colleghi (2015) sostengono questa tesi sulla base di tre ricerche da loro svolte: secondo la prima, condotta su un campione di 510 studenti universitari, all’aumentare dell’importanza data alla felicità aumentano i sintomi depressivi ed il rischio di sviluppare un disturbo bipolare; la seconda, che allarga l’indagine a un campione di 241 soggetti differenti per età, scolarità, etnia, status socio-economico e condizione lavorativa e relazionale, replica gli stessi risultati della prima; infine la terza, che ha messo a confronto 32 soggetti con Disturbo Bipolare (DB) di tipo I in remissione e 31 soggetti sani, conferma la tendenza dare maggior enfasi alla ricerca della felicità tra i soggetti con DB. Secondo le conclusioni degli autori l’eccessiva valorizzazione della felicità rappresenterebbe un fattore di rischio per tutti i disturbi dell’umore.

La felicità, oltre che per i disturbi mentali, sembra un fattore di rischio anche per la salute fisica. È infatti da poco stata identificata la cosiddetta sindrome del cuore felice, caratterizzata da sintomi cardiocircolatori transitori (come dolore toracico, dispnea, etc. ) conseguenti al verificarsi di un qualche evento felice o socialmente desiderabile, come lo sposarsi, il diventare genitori o nonni, il vincere molti soldi, etc. (Ghadri et al., 2016). Questa patologia rappresenterebbe un ampliamento della sindrome di takotsubo, o sindrome del cuore infranto, che si verifica in conseguenza di eventi altamente stressanti come lutti, divorzi, etc (Akashi et al., 2008).

 

Conclusioni

In conclusione, per essere davvero felici dobbiamo smetterla di affannarci ad esserlo, ricordandoci che la felicità fa bene se moderata e se calibrata al contesto, dobbiamo smetterla di domandarci se lo siamo perché troppa introspezione fa male, dobbiamo fare lo sforzo di orientarci al presente per dar valore alle cose quando accadono, e sopratutto, non dobbiamo mettere la felicità al centro della nostra vita – pena l’infelicità o peggio ancora un disturbo dell’umore.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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