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Psicoterapia normale e rivoluzionaria – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Anche nell'ambito della psicoterapia è possibile parlare di rivoluzione e questo accade quando avviene un cambiamento improvviso nella mente del paziente

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 30 Nov. 2016

Ritengo che entrambe le psicoterapie “normale” e “rivoluzionaria” abbiano la loro ragione d’essere. Addirittura mi viene da dire che quella normale necessiti di competenza, impegno e pazienza superiore, mentre perchè si verifichi il cambiamento di paradigma caratteristico dell’altra devono entrare in gioco una serie di fattori molti dei quali imperscrutabili e certamente poco controllabili. Per dirla in altri termini si deve creare una particolare alchimia in cui la fortuna e il caso hanno la loro parte.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Psicoterapia normale e rivoluzionaria (Nr. 13)

 

Psicoterapia contro le regole “classiche”: violazione del setting o opportunità?

Mi è stato insegnato e continuo tuttora ad insegnare che la psicoterapia è un format preciso che inizia con la richiesta di una persona sofferente ad uno specialista, che i due formulano un contratto preciso che stabilisce obiettivi, ruoli e impegni reciproci cui segue il lavoro psicoterapeutico vero e proprio nello studio accogliente e asettico del professionista che termina con una chiusura e arrivederci e grazie.

I due che si scambiano soltanto parole e soldi, non dovevano conoscersi prima, non hanno altri rapporti durante il comune lavoro e tanto meno ne avranno dopo. Tutto il resto è violazione del setting in odore di eresia e talvolta motivo di scomunica dalle chiese di appartenenza. Il lavoro nel servizio pubblico che ha costituito l’asse portante della mia esperienza mi ha fatto più volte trasgredire queste regole ma l’ho sempre fatto sentendomi in colpa e pronto a scaricarla sulle condizioni esterne che mi impedivano di fare il lavoro “come si deve”. Solo la sfacciataggine dei vecchi mi permette ora a fine carriera di chiedermi senza dover ossequiare i maestri se davvero “si deve”: rifiutare richieste apparentemente improprie, non avere rapporti diversi oltre l’ora della seduta, evitare di conoscere la casa, i parenti e i vicini del nostro paziente, aiutarlo in modi diversi che non le parole.

Non sarà che ciò che con una cornice ristretta è interferenza e rumore di fondo se si ampia la cornice può diventare informazione preziosa e occasione terapeutica. Con una visita domiciliare spesso comprendete il paziente e le dinamiche in cui è immerso più che con 5 sedute dedicate al genogramma e alla storia di vita. Il setting è come il sabato ebraico: nasce per essere al servizio dell’uomo e finisce per renderlo schiavo.

Il setting nasce per favorire la psicoterapia ma a volte sembra che la psicoterapia abbia lo scopo di mantenere un setting corretto e ideale. Sento colleghi e talvolta pazienti (peggio se i due ruoli si sovrappongono) che mi chiedono se questa o quella cosa sia possibile farla. Tanto per esemplificare di cosa sto parlando mi riferisco a mangiare le caramelle presenti sulla scrivania o utilizzare il bagno dello studio che altri precedenti terapeuti hanno interpretato come evidente gesto aggressivo, darsi la mano ad ogni incontro o salutarsi se ci si incontra per caso in altri ambienti. Spiego normalmente che l’essere in un contesto terapeutico non sospende nè il codice penale e civile, nè il galateo e la buona educazione e che troverei invece aggressivo mi defecasse sulla tappezzeria e soprattutto dannoso per il lavoro passasse il tempo concentrato sul controllo degli sfinteri mentre gli parlo di mamma e papà.

Insomma un po’ di normalità in più e qualche sega mentale in meno giovano enormemente alla salute. Oggi quando guardo l’elenco dei pazienti che ho avuto in trent’anni mi accorgo di alcune cose che la vergogna non mi impedisce più di dire anche se ancora mi manca una riflessione teorica che gli dia una cornice unitaria e le trasformi da eccezione appena tollerabile ad un operare corretto, a modo più ampio ma altrettanto legittimo di lavorare.

Innanzitutto moltissimi pazienti continuano ad intrattenere rapporti saltuari con me da vari decenni. Mi ricercano di tanto in tanto in momenti difficili della loro vita e la richiesta non è di un loro cambiamento ma di un sostegno per affrontare snodi cruciali del ciclo esistenziale o improvvise emergenze esterne. Sento già i critici e i Pierini dirmi che evidentemente non erano terapie riuscite e ben concluse con la risoluzione del contratto ed è indubbiamente vero. Se ci mettiamo poi l’aggravante che probabilmente ci siamo un po’ reciprocamente affezionati e non perdermi di vista li fa sentire meno soli; ecco che sento il calore delle fiamme dell’inferno dei terapeuti (come sarà? denso di ingegneri e farmacologi trinariciuti?) lambirmi le chiappe e l’odore di zolfo penetrare i lobi frontali.

 

Terapie di sostegno e psicoterapie vere e proprie

Prima di fare la fine dello stoppino allora allargo il discorso al tema più teorico delle cosiddette “psicoterapie di sostegno”. Cosa sono? In che si differenziano da una terapia vera e propria e in che rapporto stanno con la consulenza. Quest’ultima è la più facile da definire: consiste nella lettura della domanda (problemi e risorse del richiedente), restituzione allo scopo di aumentarne la consapevolezza e restituire agentività e indicazioni di possibili strade di intervento per la risoluzione dei problemi evidenziati.

La psicoterapia vera e propria, invece, consiste nell’evidenziazione e nel cambiamento di quegli scopi/antiscopi e di quelle strategie di perseguimento/fuga che mettono il paziente in un ricorsivo stato di invalidazione dei propri obiettivi esistenziali provocando emozioni negative. Il compito è dunque un cambiamento la cui vastità e profondità non è un valore in sé ma anzi deve limitarsi a garantire la risoluzione possibilmente stabile dei problemi che il paziente avverte come tali. Non si tratta, infatti, di cambiare totalmente il paziente e convertirlo all’ideale di uomo del terapeuta: che Dio ci protegga da santoni e guru d’ogni genere soprattutto se camuffati da terapeuti. Direi che l’immagine che meglio rappresenta il terapeuta è quella dello specchio naturalmente non accondiscendente come quello della regina matrigna di Biancaneve, anzi. Se dovessi definire in due parole il lavoro psicoterapeutico userei “invalidazione controllata” atta ad accomodare gli schemi.

Infine nella terapia di sostegno lo specchio rimane ma si ingentilisce e cerca semplicemente di adattare gli schemi ai nuovi eventi che il soggetto si trova a fronteggiare perché possano essere assimilati e le due parole d’ordine diventano “validazione critica”. Spesso ho avuto l’impressione che i pazienti vengano, prendano ciò che gli serve in quel momento e poi se ne vadano salvo poi ritornare al bisogno identificandoci come una base sicura (scusate se è poco) e ignorando i nostri bisogni di definizione contrattuale, diagnostica e procedurale. Se ne infischiano dei nostri bei progetti e fanno ciò che gli pare e credono gli serva.

Un altro motivo di avvilimento retrospettivo e di preoccupazione per i colleghi giovani è che fin quando si tratta dell’assessment e della ricostruzione del disfunzionamento del paziente andiamo forte e con soddisfazione, mentre quando poi si tratta di operare il cambiamento le difficoltà e il senso di inefficacia si affacciano. Da sempre imbranato nell’utilizzo degli utensili di ogni genere e forse per difesa erroneamente portato a ritenere che aver compreso un problema significhi averlo risolto ( garantisco che non è così) mi aspetto molto per gli altri ma poco per la mia personale pratica dall’avvento delle tecniche della terza ondata ed in particolare di quelle bottom up che arrivano là dove gli approcci top down corticali si mostrano inefficaci.

Tempo fa, a scopo consolatorio, avevo pensato ad una forma di psicoterapia che per “statuto” si limiti espressamente all’assessment ed alla restituzione di consapevolezza lasciando poi al paziente l’onere di immaginare e realizzare eventualmente un cambiamento. Lo avevo addirittura giustificato come una forma estrema di rispetto dell’individualità del paziente.

Altre psicoterapie si pongono dichiaratamente l’obiettivo di aumentare la conoscenza di sé del paziente (prime fra tutte le varie psicoanalisi) e non mettono esplicitamente il sintomo nel mirino lasciando alla nuova consapevolezza del paziente unita alla definizione dei propri valori esistenziali il compito di trovare soluzioni adattive alla realtà che sta vivendo facendo a meno del sintomo sia esso un’ ossessione o un delirio.

L’approccio cognitivo comportamentale, probabilmente per trovare spazio in un mercato già denso, si è accreditato come semplice (ed è stato frainteso spesso come sempliciotto), breve (ed è stato inteso spesso come miracoloso), mirato alla rimozione del sintomo (il che è stato interpretato come superficiale e scarsamente efficace). Per tutte queste cose i guai maggiori sono stati causati dal mondo anglosassone con il suo pragmatismo.

Credo che sia più corretto dire con veltroniana moderazione, che l’approccio cognitivo comportamentale utilizza spiegazioni del comportamento umano simili a quelle che abbiamo innate (psicologia scopi/credenze), che tende a limitarsi al minimo tempo necessario e non è un percorso infinito, che parte dal motivo concreto della sofferenza e dunque dal sintomo ma si estende a quegli aspetti della personalità che ne sono la causa per modificare i quali si occupa della storia anche infantile che ha concorso a plasmarli. Insomma l’obiettivo e il file rouge da seguire è il sintomo ma lo scopo una modificazione, più che profonda direi come nelle ricette q.b. della personalità che lo produce.

Ricorderete Kunh l’epistemologo che parlava di paradigmi scientifici, di nucleo metafisico della conoscenza e di cintura protettiva. Se non lo ricordate o non lo avete mai letto fatelo. Lui parlava di “scienza normale” quando ci si muove all’interno di un paradigma scientifico consolidato e condiviso e se ne sviluppano tutte le potenzialità e di “scienza rivoluzionaria” quando il vecchio paradigma impatta con una anomalia inspiegabile che costringe a sostituirlo con uno nuovo che, in genere include il vecchio come caso particolare e spiega l’anomalia irrisolvibile.

Nel percorso della scienza basta pensare alla rivoluzione copernicana che, appunto, è diventata sinonimo di cambiamento radicale o alla relatività di Einstein, la teoria dei quanti e così via. In ogni scienza troverete dei passaggi improvvisi “on-off” tra un prima e un dopo e altrettanto nella storia: la venuta di Cristo, la scoperta dell’America (non tutti i cambiamenti sono positivi). la rivoluzione francese, la caduta del muro di Berlino. Per i più pigri che non vogliono leggersi Kunh la scorciatoia su questo concetto è una Palladium lecture di Baricco su “you tube” dal titolo “il gusto: Kate Mosse in cui racconta tre passaggi rivoluzionari nella storia sportiva con l’arrivo di fousbory sulle pedane del salto in alto, nella storia della bellezza e della moda con l’affermarsi di Kate Mosse, nella lirica con il trionfo della Callas.

Ogni volta si tratta di un vero e proprio cambio di paradigma inaspettato e in un tempo brevissimo e tutto ciò che c’era prima non è semplicemente superato e migliorato, diviene improvvisamente antico, preistorico. Pensate ad esempio alla rivoluzione informatica. Ieri sera ho tentato di spiegare a mio figlio 22enne cosa fosse la carta carbone. Stentava a crederci e quando l’ho mostrata ha creduto stessi facendo una magia. I PC diventano ogni giorno più potenti e sofisticati facendo cose incredibili ma siamo sempre dentro lo stesso paradigma poi un giorno chissà “flop” e tutto questo ci sembrerà desueto.

E’ chiaro che stando dentro un paradigma non possiamo immaginarci il prossimo, solo grandi geni innovatori ne sono capaci e infatti restano incompresi se non più o meno metaforicamente lapidati. Pensate anche alla politica ed a come noi vissuti nel ‘900 dobbiamo sempre ridurre tutto al paradigma destra/sinistra che esplicativo e utile un tempo, ora imprigiona le nostre menti. Fine della divagazione chi vuole approfondire lo faccia per proprio conto.

 

Psicoterapia normale e psicoterapia rivoluzionaria

Torno alla psicoterapia. Ho l’impressione che anche in psicoterapia si possa parlare di una “psicoterapia normale” e di una “psicoterapia rivoluzionaria”. Nella psicoterapia normale restano inalterati gli assetti di fondo della personalità, i sintomi vengono grandemente ridotti, si trovano strategie alternative più adattive di fronteggiare la realtà e ciò che non cambia viene accettato (a proposito credo che il ruolo dell’accettazione sia gravemente sottovalutato riducendola a mesta rassegnazione, ma ciò meriterebbe un discorso a sè). Insomma il panicoso agorafobico riesce a condurre una vita perfettamente normale libera da evitamenti ma pur sempre panicoso resta.

Nella psicoterapia rivoluzionaria invece avviene un cambiamento improvviso per crisi e il soggetto smette di essere panicoso non solo di comportarsi come tale. Assistere a questi passaggi è infrequente anche in una lunga carriera professionale. Si sentono invece spesso narrare e non ho motivo di dubitare con l’utilizzo di tecniche diverse che non si indirizzano direttamente alla neo corteccia. Sarà capitato anche a voi di ascoltare il resoconto di sedute EMDR in cui avviene un cambiamento improvviso, una netta discontinuità tra il prima e il dopo.

Al di fuori del contesto terapeutico tali esperienze assumono il carattere di conversioni e sono spesso connesse all’esperienza religiosa, mistica o comunque soprannaturale. Nel campo scientifico mi viene in mente l’intuizione della forma circolare della molecola del benzene che risolse in un attimo, addirittura riferito ad un sogno, il rompicapo su cui si lavorava da anni della mancanza degli atomi di carbonio. Molto simile è l’esperienza de “l’eureka” quell’intuizione istantanea ed evidente che pone fine all’angoscioso vissuto del wanstimmung e segna l’ingresso trionfale nel meraviglioso sconfinato e privato territorio del delirio.

Ritengo che entrambe le psicoterapie “normale” e “rivoluzionaria” abbiano la loro ragion d’essere. Addirittura mi viene da dire che quella normale necessiti di competenza, impegno e pazienza superiore, mentre perchè si verifichi il cambiamento di paradigma caratteristico dell’altra devono entrare in gioco una serie di fattori molti dei quali imperscrutabili e certamente poco controllabili. Per dirla in altri termini si deve creare una particolare alchimia in cui la fortuna e il caso hanno la loro parte.

E’ evidente che a tutti noi piacerebbe che tutte le nostre terapie fossero rivoluzionarie per sentirci come Gesù che ordina a Lazzaro “alzati e cammina!” e abbiamo provato irritazione nell’ascoltare la storiella secondo la quale il giovane già un po’ frollato rispondeva “con calma e per favore!”. Quando abbiamo sognato questo lavoro ci siamo immaginati come ipnotisti, maghi, guaritori santoni. Abbiamo immaginato di tirar fuori dal cilindro l’interpretazione definitiva, geniale che tutto spiega e libera da ogni sofferenza. Invece il più delle volte lavoriamo per mesi per ottenere modesti cambiamenti che magari il paziente attribuisce ad altro. Ci pensavamo Maradona e invece ci troviamo a fare i mediani. Ma, come ricorda Ligabue, al centro dello schieramento dell’Italia campione del mondo c’era Oriali. Il lavoro apparentemente meno nobile, lungo e faticoso della “psicoterapia normale” spesso è propedeutico al tempo breve e esaltante della “psicoterapia rivoluzionaria”, ma non sempre è così.
Vorrei concludere ponendo attenzione su due situazioni che incontrandosi potrebbero beneficiarsi a vicenda.

Da un lato la richiesta di psicoterapia è in costante aumento e non tanto o non solo per un aumento della psicopatologia ma per una crescente consapevolezza e aspirazione al benessere ed alla qualità della vita. Dall’altro le risorse destinate alla sanità pubblica sono ridotte e spalmate su un arco vitale sempre più lungo per cui sono pochi coloro che riescono ad ottenere un vero trattamento psicoterapeutico dal servizio pubblico e la terapia privata è accessibile solo ai privilegiati.

Per risolvere questo problema si stanno tentando vari esperimenti come quello della “psicoterapia solidale” che fa incontrare il bisogno di terapia di pazienti non abbienti con il bisogno di esperienza dei giovani terapeuti in formazione. Un’ altra possibilità potrebbe essere l’utilizzo dei mezzi informatici che intanto abbassano i costi eliminando gli spostamenti e poi possono mettere in contatto offerta e richiesta in un mercato unico globale con evidenti vantaggi per la concorrenza. Ai più vecchi ciò può risultare ancora inconsueto ma per i nativi digitali sarà strano il contrario.

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