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Metacognizione nei Disturbi di Personalità: il contributo della Terapia Metacognitiva Interpersonale

La metacognizione consiste nel riconoscere e padroneggiare gli stati mentali interni propri e altrui e presenta diverse componenti. 

Di Matteo Anderlini, Valentina Venturelli

Pubblicato il 02 Nov. 2016

Aggiornato il 04 Ott. 2019 12:50

Il concetto di “metacognizione” ha conosciuto diverse definizioni a seconda dell’ambito di studio all’interno del quale è stato elaborato. Nell’accezione originaria, metacognizione significava “cognizione della cognizione” (Ganucci, Cancellieri et al., 2013). Per indicare questo nuovo campo di interesse sono stati utilizzati, spesso come sinonimi, i termini “metamemoria” e “metacognizione“. Infatti, le prime ricerche sulla metacognizione furono compiute su bambini di età prescolare, con l’obiettivo di esaminare la capacità di valutare le proprie abilità mnemoniche (Flavell et al., 1970).

Anderlini Matteo, Venturelli Valentina, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Metacognizione: definizioni

La prima definizione generale di metacognizione venne elaborata da Flavell, che la intese come ogni conoscenza e attività cognitiva che prende come oggetto, o regola, ogni aspetto di qualsiasi impresa cognitiva (Flavell, 1976, 1981; Flavell et al., 1993).

Nella prospettiva della Terapia Metacognitiva Interpersonale -TMI- (Semerari et al., 2003; Semerari et al., 2008; Carcione et al., 2010; Dimaggio e Lisaker, 2010; Dimaggio et al., 2013), la metacognizione può essere definita come un insieme di abilità che consentono all’individuo di:
– identificare e attribuire stati mentali a sè e agli altri, sulla base delle espressioni facciali, degli stati somatici, dei comportamenti e delle azioni;
– pensare, riflettere e ragionare sugli stati mentali propri e altrui;
– utilizzare le conoscenze e le riflessioni sui propri ed altrui stati mentali per prendere decisioni, risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali e, infine, padroneggiare la sofferenza soggettiva.

In linea con i lavori di Carcione et al. (1997), è opportuno sottolineare la distinzione tra contenuti metacognitivi e funzioni metacognitive. Per contenuti metacognitivi intendiamo le idee e le convinzioni con cui vengono interpretati e valutati i contenuti e i processi mentali. Per funzioni metacognitive intendiamo quell’insieme di abilità che ci consentono di comprendere i fenomeni mentali, di operare su di essi per la risoluzione di compiti e per padroneggiarli (Carcione e Falcone, 1999).

Questo modo di intendere la metacognizione coincide in gran parte con le funzioni analizzate da diversi autori: per esempio negli studi sulla Teoria della Mente (Baron-Cohen, Leslie e Frith, 1985; Premack e Woodroof, 1978), sulla Cognizione Sociale (Brüne et al. 2007), sull’Alessitimia, ossia la mancanza di consapevolezza emozionale (Taylor, Bagby e Parker, 1997; Vanheule, Verhaege e Desmet, 2011) e sulla Mentalizzazione (Allen, Fonagy e Bateman, 2008; Fonagy, Gergely, Jurist et al., 2002).

Nonostante sia presente una parziale sovrapposizione, esistono diversi aspetti che permettono di distinguere la metacognizione da questi costrutti (Dimaggio et al., 2013; Semerari et al., 2012).
Ad oggi, molti autori sono concordi nel definire la metacognizione come un sistema complesso composto da diversi sottosistemi in interazione tra loro (Semerari et al., 2003). Studi che giungono dal campo delle neuroscienze sembrano portare evidenze a favore di questa concezione, mettendo in luce aspetti specifici della metacognizione -autoriflessività e comprensione degli stati mentali altrui- relativamente indipendenti l’uno dall’altro, ma tra loro collegati in network funzionali (Ganucci Cancellieri et al., 2013; Mitchell et al., 2006; Saxe et al., 2006).
La definizione di metacognizione include un insieme eterogeneo di funzioni e di abilità: ciò risulta utile sia per un fine prettamente diagnostico, sia per la pianificazione del trattamento, che può essere modulato ed orientato a quelle dimensioni che risultano effettivamente compromesse nel paziente.

Le componenti della metacognizione

Dimaggio e colleghi (2013) passano in rassegna queste diverse abilità:

1. Requisiti basici
Sono abilità basilari e trasversali alle diverse capacità metacognitive superiori. Tali requisiti permettono agli individui di essere consapevoli di possedere stati mentali propri ed indipendenti, che nascono all’interno della propria mente. Tali prerequisiti includono, quindi, la capacità di distinguere la nostra mente da quella degli altri, i quali possiedono stati mentali autonomi e il cui comportamento è portato avanti da intenzioni e motivazioni proprie. Comprendono, inoltre, la capacità di considerarsi come attori attivi, orientati alla risoluzione dei problemi e al padroneggiamento della sofferenza emotiva.
Tali requisiti di base risultano carenti in diverse patologie come la schizofrenia (Lysaker et al., 2013).

2. Autoriflessività
Comprende le seguenti sottofunzioni:
a) Monitoraggio. Si riferisce alla capacità di identificare e definire le componenti di uno stato mentale in termini di pensieri, desideri, emozioni (Identificazione) e di comprenderne i nessi causali (Relazione tra Variabili). Possiamo distinguere tra un’identificazione cognitiva (pensieri e desideri) e un’identificazione emotiva (emozioni). La prima si riferisce alla capacità di identificare e attribuire cognizioni e intenzioni: “Io credo che…”, “Ho il desiderio di…”; la seconda fa riferimento alle emozioni: “Mi sento allegro…”, “Provo rabbia…”.
Inoltre, fa riferimento al riconoscimento e al monitoraggio delle proprie funzioni cognitive superiori, come la memoria, l’attenzione e l’apprendimento: “Mi rendo conto che non sono preparato bene per l’esame …Sotto pressione ho difficoltà di concentrazione…”.
Dopo aver identificato un’emozione o un pensiero, la componente Relazione tra Variabili, permette di ragionarvi, compiere inferenze su cosa mette in relazione il comportamento con intenzioni, cognizioni ed emozioni, sul modo in cui le scelte sono guidate da presupposti psicologici e su come gli stati mentali siano influenzati dagli stimoli sociali.
b) Differenziazione, ovvero la capacità di riconoscere la natura rappresentazionale del pensiero, distinguendo tra realtà interna ed esterna, cogliendo la differenza esistente tra diversi tipi di rappresentazioni (sogni, fantasie, credenze e ipotesi), tra rappresentazione e realtà. Inoltre, questa dimensione permette di cogliere la natura ipotetica e soggettiva del proprio pensiero, assumendo una prospettiva dalla quale vedere le proprie idee come ipotesi e non come certezze (Fonagy e Target, 1996; Rachman e Shafran, 1999).
Il concetto di differenziazione, cioè la capacità di assumere distanza critica dalle proprie convinzioni, è simile ad altri costrutti della terapia cognitiva, quali la defusion (Hayes, Strosahl, Wilson, 2013) e l’insight cognitivo (Beck, Baruch, Balter et al. 2004).
c) Integrazione. Si riferisce alla capacità di mantenere una visione unitaria del sé indipendentemente dal fluire e dall’alternarsi nella coscienza di stati mentali diversi (anche contraddittori) e indipendentemente dalla variabilità dei nostri comportamenti in contesti differenti. Integrare significa descriversi in modo completo e coerente all’interno di una narrazione che tenga conto di come tali stati mentali possono evolvere e modificarsi nel tempo.
Significa quindi essere consapevoli di come ci siamo evoluti, descrivere chi siamo oggi rispetto al passato, per esempio, come siamo cambiati durante la terapia o dopo eventi di vita dal profondo significato personale.

3. Comprensione della mente altrui
Comprende le seguenti sottofunzioni:
a) Monitoraggio. Comprende le sottocomponenti dell’Identificazione e della Relazione tra Variabili relativamente alla comprensione della mente altrui. Corrisponde alla capacità di attribuire agli altri intenzioni, motivazioni, desideri ed emozioni (identificazione cognitiva ed emotiva) -“È deciso a …”, “Ha un viso triste…”- e all’abilità di inferire alcuni contenuti mentali dell’altro dal suo comportamento verbale e non verbale. Una volta identificati gli stati mentali altrui, l’individuo può, quindi, ipotizzare nessi causali che spieghino quali processi cognitivo-affettivi portino gli altri ad agire.

b) Decentramento. Corrisponde alla capacità di descrivere il funzionamento mentale dell’altro formulando ipotesi indipendenti dalla propria prospettiva mentale e dal proprio coinvolgimento nella relazione. Significa, quindi, adottare la prospettiva dell’altro mettendosi nei suoi panni. Ad esempio, il paziente che adotta una prospettiva egocentrica, incapace cioè di differenziare il proprio punto di vista da quello altrui, attribuisce costantemente agli altri meccanismi propri del suo stesso funzionamento mentale e delle sue prospettive: esamina cioè i dati dal suo punto di vista scartando ogni possibile alternativa (Dimaggio e Semerari, 2003).

4. Mastery
Consiste nell’utilizzare intenzionalmente le conoscenze psicologiche per prendere decisioni, formulare strategie per fronteggiare la sofferenza soggettiva, risolvere conflitti interpersonali, realizzare i propri desideri, aiutare gli altri e cooperare.
La Mastery è riconducibile a strategie che si differenziano tra loro per livelli crescenti di complessità ed efficacia:

a) Strategie di primo livello. Implicano una modificazione dello stato mentale intervenendo direttamente sull’organismo, facendo ricorso all’ evitamento o al supporto interpersonale.
b) Strategie di secondo livello. Comprendono l’autoinibizione di una condotta o la distrazione volontaria.
c) Strategie di terzo livello. Comprendono la critica razionale a credenze disfunzionali, l’uso delle conoscenze sugli stati mentali altrui per risolvere problemi interpersonali e l’accettazione matura dei limiti personali.

Le strategie di mastery di primo livello sono le più semplici da un punto di vista metacognitivo in quanto richiedono, per lo più, la messa in atto di comportamenti senza rilevante impegno riflessivo. Fanno parte delle strategie di primo livello:

– L’azione diretta sul corpo. La persona cerca di agire direttamente sullo stato problematico modificando lo stato generale dell’organismo attraverso l’assunzione di farmaci, alcol, droga o facendo attività fisica. Un problema che può sorgere è l’uso sregolato di farmaci e sostanze, la sessualità compulsiva per placare l’ansia, o diete e iperattività fisica per calmare la tensione o regolare l’autostima.

– L’evitamento. La persona previene le condizioni di insorgenza dello stato problematico evitando attivamente e consapevolmente la situazione temuta.
– La ricerca di coordinamento interpersonale. La persona si rivolge agli altri per ottenere aiuto e supporto. I problemi, in questo caso, includono la difficoltà a chiedere aiuto agli altri, l’incapacità di capire che gli altri sarebbero disponibili ad aiutarci se lo chiedessimo o la tendenza a non fidarsi di se stessi e chiedere aiuto all’esterno alla minima difficoltà senza avere valutato attentamente se l’altra persona è disposta o in grado di darlo.

Perché queste strategie di primo livello siano considerate metacognitive è essenziale che il soggetto abbia deciso deliberatamente e volontariamente di utilizzarle per gestire lo stato mentale problematico.
Facciamo l’esempio di un ragazzo che ha litigato con la sua fidanzata. Egli utilizzerà strategie di primo livello se, per far fronte al dispiacere e alla delusione, si prenderà una sbornia, eviterà i luoghi in cui può incontrarla o chiederà al primo amico disponibile di fare una passeggiata insieme per parlare. Per utilizzare queste strategie non è necessario essere particolarmente riflessivi, ma è sufficiente essere consapevoli, anche facendo riferimento all’esperienza passata, che un certo comportamento è in grado di modificarli positivamente, anche solo temporaneamente.

Le strategie di mastery di secondo livello richiedono un maggiore impegno riflessivo e sono finalizzate a ottenere una regolazione autonoma dell’assetto mentale.
Fanno parte delle strategie di secondo livello:

– Imporsi o inibire volontariamente un comportamento. Pazienti con Disturbo di Personalità (DP) fanno fatica a imporsi di concentrarsi, a compiere azioni funzionali o ad astenersi da azioni che riconoscono come dannose. Il paziente in stato di stress può non ricordare che l’attività fisica lo aiuta a ridurlo, e quindi resta chiuso in casa a rimuginare improduttivamente.

– Modificare attivamente l’attenzione e la concentrazione sul problema intrapsichico o interpersonale. Il paziente che rimugina sull’idea di essere abbandonato non riesce, ad esempio, a spostare attivamente l’attenzione dal pensiero disturbante, e non riesce a tenere in considerazione che se lo facesse la portata emotiva del problema si ridurrebbe.

Le strategie di secondo livello non contemplano una conoscenza mentalistica sofisticata dell’altro, si limitano a usare una teoria generale del funzionamento della mente altrui, a volte stereotipata, ma dotata di un certo grado di efficacia. Manca un’analisi attenta e individualizzata di cosa le persone con cui si interagisce sentono e provano. Per poter utilizzare queste strategie il soggetto ha bisogno di identificare i suoi pensieri e le sue emozioni e di avere un’idea chiara dei contenuti dai quali vuole distrarsi, deve, inoltre, essere capace di autoesortarsi o autoimporsi dei comportamenti.
Tornando al ragazzo che ha litigato con la sua fidanzata, mancando di una strategia di secondo livello, il paziente potrebbe dire: “Sono stato tentato più volte di telefonarle e alla fine l’ho fatto. Mi ha attaccato, era rabbiosa e ostile”. Se il paziente si fosse ricordato che in momenti di nervosismo la ragazza non aveva mai dato segni di comprensione, si sarebbe astenuto dal telefonare e quindi non avrebbe sperimentato delusione e rifiuto.

Le strategie di mastery di terzo livello richiedono un elevato impegno e comprendono:

– L’uso di una conoscenza approfondita e critica del proprio stato mentale problematico e del proprio funzionamento ordinario nella gestione della sofferenza psichica e nella soluzione dei problemi. Il paziente con disfunzioni in quest’area non riesce a pensare: “Sono un tipo irritabile e perdo le staffe facilmente quando sono deluso e ferito. Meglio che non la chiami, non sarei in grado di accettare le sue spiegazioni”. Ancor più, il paziente con DP non riesce a dire: “Sento che non mi ama abbastanza e mi trascura, ma il problema è che sono io a essere troppo esigente e non mi accontento mai di quello che gli altri mi danno”.

– L’uso di un’adeguata conoscenza della mente altrui nella soluzione di problemi interpersonali. Il paziente che sta fronteggiando la litigata con la partner non riesce a pensare: “Lei quando si sente ingiustamente attaccata, reagisce in modo impulsivo con insofferenza e rabbiosità. Devo aspettare che le passi per poterle parlare con calma e spiegare quello che è successo”. Al contrario, il paziente tenderà a fronteggiare la rabbia della partner tentando, inutilmente, di spiegare le sue ragioni, pensando di calmarla o sottomettendosi per evitare l’abbandono, dimenticando che nessuna di queste strategie ha mai funzionato con questa persona.

– L’accettazione matura dei propri limiti nel poter influenzare il cambiamento proprio e altrui e influire sugli eventi. Elaborando l’esempio della partner gelosa, il paziente potrebbe avere sollievo se pensasse: “Ho un grosso problema di insicurezza, la mia gelosia nasce da questo e non riesco proprio a controllarla. Purtroppo, per quanto lei si comporti in maniera esemplare e cerchi di farmi capire quanto mi ami, non posso pensare che si chiuda in casa! Però, se le lascio i suoi spazi e non le impedisco di uscire, la mia gelosia non la allontanerà. Se poi riesco a non insospettirmi per ogni cosa, lei non si sentirà controllata e attaccata, sarà più predisposta a comprendere e non si arrabbierà a sua volta”.
Oppure, un altro esempio può riguardare la difficoltà di un paziente di accettare i limiti altrui, capendo che, se l’altro è timido, non è utile criticarlo per non essere un brillante oratore o un animale sociale, ma lo si può stimare per tante altre qualità.

– La capacità di formulare previsioni sull’effetto che le nostre azioni avranno su di noi e sugli altri. Una buona mastery di terzo livello può essere così esemplificata: “Se le telefonassi ora, penserebbe sicuramente che sono in torto e che ho qualcosa da farmi perdonare e assumerebbe un atteggiamento ancora più difensivo. A quel punto io mi innervosirei e la discussione degenererebbe”. Invece, una scarsa mastery mentalistica lascia il paziente preda dell’azione impulsiva: “Mi ha riposto scherzando quando le ho chiesto di dirmi se mi amava. Non le parlo per tre giorni, così impara”. Il paziente da un lato non usa la differenziazione (ovvero non discute l’ipoteticità della propria assunzione), dall’altro dimentica che il proprio comportamento di chiusura avrà un impatto negativo.

Il dominio della mastery è particolarmente importante, carenze in questo ambito sono quelle che di solito creano più problemi ai pazienti con DP, i quali non riescono ad usare la conoscenza mentalistica in modo pragmatico e con finalità di coping e problem solving. La mastery risulta, infatti, compromessa in vario grado in tutti i DP (Carcione, Semerari, Nicolò et al., 2011).

La metacognizione nei pazienti con disturbi di personalità

Le ricerche sulla metacognizione, realizzate utilizzando strumenti specifici come la Scala di Valutazione della Metacognizione (SVaM; Carcione, Dimaggio, Conti et al., 2010; Semerari, Carcione, Dimaggio et al. 2003) e l’Intervista per la Valutazione della Metacognizione (IVaM; Semerari, Cucchi, Dimaggio et al., 2012), hanno tentato di verificare quattro ipotesi principali:

l) che la metacognizione abbia la struttura ipotizzata e sopra descritta;
2) che pazienti con DP più grave presentino un funzionamento metacognitivo più compromesso;
3) che diversi DP abbiano differenti profili di disfunzione metacognitiva;
4) che la metacognizione migliori nel corso del trattamento e ne predica 1 outcome.

1) In uno studio su un campione non clinico condotto usando la SVaM è emerso che la metacognizione sembra essere composta da due soli fattori distinti: la comprensione dei propri stati mentali e la capacità di comprendere gli stati mentali degli altri (Semerari, Cucchi, Dimaggio et al., 2012). Altre analisi preliminari su campioni clinici sembrano invece confermare una struttura a quattro fattori: monitoraggio, differenziazione, integrazione e comprensione degli altri/decentramento (Semerari, Colle, Pellecchia et al., 2014). Nel campione non clinico, inoltre, è emerso che la capacità di differenziare, ovvero di assumere una distanza critica dalle proprie convinzioni, è correlata più alla comprensione della mente dell’altro che della propria (Semerari, Cucchi, Dimaggio et al., 2012; Semerari, Colle, Pellecchia et al., 2014). Probabilmente questo è dovuto al fatto che, per mettere in discussione le nostre idee, dobbiamo assumere una prospettiva distaccata, mettendoci nei panni degli altri. Assumere distanza critica sembra quindi essere, in un certo grado, un inizio di assunzione del punto di vista dell’altro.

Nel complesso l’idea che emerge da queste prime ricerche è coerente con gli studi di neuroimaging (Mitchell et al., 2006; Saxe et al., 2006) che mostrano come riflettere su di sé o sugli altri coinvolga aree cerebrali specifiche e parzialmente indipendenti pur afferendo allo stesso network.
L’implicazione principale è che sia utile concentrare l’azione clinica sul dominio metacognitivo che appare complesso e tentare di promuoverlo, senza però aspettarsi che il successo si estenda ad altri domini metacognitivi. In altre parole, gli apprendimenti dominio-specifici non verranno generalizzati automaticamente: prendendo l’esempio di una persona che ha difficoltà a descrivere sia gli stati interni (monitoraggio), che a differenziarli, il lavoro sul monitoraggio non apporterà miglioramenti alla differenziazione, ma sarà necessario dedicare un lavoro specifico anche a questo altro dominio.
In altre ricerche, gli studi sulla struttura della metacognizione, mostrano come la mastery abbia a sua volta un certo grado di indipendenza (Lysaker, Erickson, Ringer et al., 2011), supportando l’idea che la comprensione mentalistica non si traduca automaticamente in un coping funzionale, sul quale è necessario lavorare in modo specifico.

2) Riferendoci alla seconda ipotesi (tanto più grave è la patologia di personalità complessiva, tanto più compromessa è la metacognizione), essa sembra essere confermata. Pazienti che soddisfano un numero maggiore di criteri per i vari DP, ovvero che hanno maggiori tratti disfunzionali di personalità, presentano un funzionamento metacognitivo peggiore (Semerari, Colle, Pellecchia et al., 2014).

3) All’inizio degli studi sulla metacognizione (Semerari, 1999) si ipotizzava che ogni DP avesse uno specifico profilo di disfunzioni metacognitive. Ad oggi, la ricerca mostra che le differenze metacognitive tra i singoli disturbi non appaiono così nette. Tutti i DP, a diversi livelli, hanno difficoltà nel distanziarsi in modo critico dalle proprie convinzioni, nell’assumere un punto di vista decentrato rispetto agli altri e nell’usare la conoscenza psicologica per padroneggiare i problemi interpersonali e la sofferenza soggettiva (Dimaggio, Carcione, Conti et al., 2009; Carcione, Semerari, Nicolò et al., 2011).

Se allarghiamo il campo alle ricerche realizzate per studiare costrutti affini alla metacognizione (alessitimia e mentalizzazione), emergono alcune associazioni tra specifici DP e precisi profili metacognitivi. Ad esempio, è emerso che i pazienti con disturbo evitante di personalità hanno difficoltà nel riconoscere e descrivere le proprie emozioni, integrarle nella propria rappresentazine di sé e padroneggiale (Dimaggio, Procacci, Nicolò et al., 2007; Honkalampi, Hintikka, Antikainen et al., 2001; Nicolò, Semerari, Lysaker et al, 2011; Gullestad, Johansen, Høglend et al, 2013).

Tali difficoltà sono intrinseche al funzionamento dell’evitante e non sembrano dipendere da uno stato depressivo, al contrario di ciò che accade nel disturbo dipendente, nel quale, in momenti di depressione è possibile che l’appiattimento e l’abbattimento riducano la capacità di esplorare con successo il mondo delle emozioni (Nicolò, Semerari, Lysaker et al., 2012).

Tra i pazienti con doppia diagnosi -DP e abuso di sostanze- che presentano alessitimia, la scarsa mastery correla con tratti preminenti del Cluster C (Lysaker, Olesek, Buck et al., 2014). Nel disturbo narcisistico di personalità sono state ipotizzate, e poi identificate, difficoltà nella comprensione sia della propria mente sia di quella degli altri (Dimaggio, Semerari. Falcone et al., 2002; Given-Wilson, McIlwain e Warburton, 2011). Non solo i pazienti narcisisti presentano la tendenza a descrivere le proprie esperienze in maniera ipergeneralizzata, astratta e teorizzante, ma hanno anche difficoltà ad indagare i propri stati affettivi. In particolare, quando provano un’emozione, manca sistematicamente la comprensione del trigger interpersonale, cioè l’evento attivante che si gioca a livello relazionale. Nella sequenza ABC (antecedent, belief, consequence: situazione, pensiero, conseguenza emotiva e comportamentale), possono descrivere bene il B, discretamente il C, ma l’A manca del tutto.

In una popolazione non clinica l’uso dell’ IVaM ha mostrato che il narcisismo è correlato con difficoltà nella descrizione dei propri stati mentali, coerentemente con l’idea che tali pazienti abbiano soprattutto problemi nella descrizione del proprio mondo interno prima ancora che difficoltà nel comprendere gli altri (Semerari, Cucchi, Dimaggio et al., in preparazione).

Riguardo l’empatia è emerso che, nel narcisismo, la capacità di comprendere i pensieri degli altri è preservata, mentre è la risonanza emotiva ad essere più compromessa. Ritter, Dziobek e colleghi (2011) investigando con l’uso della fMRI le aree cerebrali sottese alle abilità empatiche, mostrano che persone con narcisismo tendono a pensare di essere empatiche, ma di fatto non lo sono.

In una recente ricerca di Semerari e colleghi (2015) sono stati messi a confronto due campioni clinici, il primo di pazienti con diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità, il secondo di pazienti con altri DP. Da tale studio è emerso che i pazienti con disturbo borderline mostrano difficoltà in due aspetti: differenziazione e integrazione. Tali risultati suggerirebbero una compromissione specifica per il disturbo borderline e, inoltre, tale compromissione apparirebbe fortemente connessa alla gravità della psicopatologia.

4) Infine, l’idea che la metacognizione migliori se il trattamento è effìcace sembra essere valida: utilizzando la SVaM nell’analisi di trascritti di seduta, le abilità metacognitive appaiono compromesse all’inizio della terapia, ma è presente una tendenza al miglioramento nel corso di terapie di successo (Carcione, Semerari, Nicolò et al., 2011; Dimaggio, Procacci, Nicolò et al., 2007; Dimaggio, Carcione, Conti et al., 2009).

Riguardo alla metacognizione come predittore di outcome, uno studio preliminare su pazienti con disturbo borderline ha mostrato come la metacognizione fosse associata alla gravità psicopatologica all’inizio del trattamento e lo scarso decentramento predicesse un peggior esito a tre mesi. Si tratta di uno studio su un piccolo campione e mancano dati su altri DP (Maillard, Kramer e Dimaggio, 2013), pertanto la correlazione tra miglioramento metacognitivo e miglioramento clinico è finora poco più che aneddotica.

Conclusioni

Concludendo, riteniamo che il modello proposto dalla Terapia Metacognitiva Interpersonale sia un valido e utile contributo al lavoro psicoterapeutico, in particolar modo per il possibile impiego nella pratica clinica, sia nella procedura di assessment sia nel lavoro in seduta.

Nonostante i dati ottenuti siano molto incoraggianti e sembrino confermare le ipotesi proposte dagli autori, la gran parte della ricerca effettuata finora, al di là dei dati sui disturbi evitante e narcisistico, ha avuto prevalentemente come oggetto il disturbo borderline. Resta alta la necessità di investigare gli altri disturbi di personalità sviluppando ulteriori studi che vadano a indagare le variabili considerate su popolazioni cliniche più numerose, attraverso l’ausilio di strumenti differenti, sia di tipo qualitativo che quantitativo.

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