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Intimità

Lucia è stata la prima donna in presenza della quale ho scoreggiato. Non ho mai scoreggiato prima in presenza di una donna...

Di Guest

Pubblicato il 18 Nov. 2016

Aggiornato il 21 Nov. 2016 08:32

Lucia è stata la prima donna in presenza della quale ho scoreggiato. Non ho mai scoreggiato prima in presenza di una donna. Non ho mai capito come fanno uomini e donne a dormire insieme, a vivere insieme, dal momento che questo implica inevitabilmente fare le scoregge in presenza dell’altro.

Questa è probabilmente una delle ragioni principali per cui, prima di Lucia, non sono mai rimasto legato a una donna per il tempo sufficiente a far accadere una cosa del genere. E anche con Lucia, questo aspetto ha pilotato da un luogo sotterraneo il percorso verso il fisiologico raggiungimento dell’intimità. Prolungandolo, rendendolo tortuoso. È passato più di un anno dall’inizio del nostro rapporto prima che riuscissi a trascorrere un’intera notte con lei. Evitavo accuratamente.

Quando si presentava l’occasione, che ovviamente proveniva da lei, a casa sua, quando i genitori non c’erano, fuggivo verso le tre di notte. Mentre lei dormiva profondamente. Avevo imparato alla perfezione i ritmi del suo sonno. Verso le tre di notte era completamente soggiogata dal sonno. Riusciva al massimo ad emettere un gemito di protesta priva di determinazione quando allentavo il lucchetto dell’abbraccio in cui mi aveva serrato addormentandosi, e scivolavo via. Ma non riusciva a svegliarsi. La scusa, quando ci saremmo sentiti più tardi, era sempre la stessa. Non ce l’avevo fatta a lasciare solo mio padre per tutta la notte. Era troppo forte l’angoscia legata al pensiero che proprio quella notte si sarebbe potuto svegliare stringendo il pugno sul pigiama all’altezza dello sterno (per chi non lo sa, è il gesto tipico di chi ha un infarto), chiamandomi con voce strozzata. All’inizio la intenerivo, poi ha iniziato a far finta di crederci. Fatto sta che almeno per un anno ho procrastinato.

Tutto questo – sempre, prima di Lucia, e almeno per un anno con lei – per evitare il momento più pericoloso. Il risveglio. Insieme. Trascorrere la notte con una donna aumenta esponenzialmente la probabilità di avere un testimone al mattino, quando il mio tubo di scappamento rivendica con più intensità la massima libertà di espressione. E quello è sempre stato un momento molto intimo, di intesa totale con me stesso, di autoassoluzione. Un momento refrattario a qualsiasi forma di inibizione. Al mattino devo scoreggiare biblicamente per venire a patti con la mia fragilità di essere umano cui è capitata la condanna della coscienza e di un tubo digerente. E prima di Lucia non ce l’ho mai fatta a farlo davanti a una donna. Non era pensabile per me. Non riuscivo a immaginarlo. Non che non ci provassi, ad immaginarlo. Mi dicevo:

ok, è già la quarta volta che con, che so, Giovanna, siamo a letto insieme. Già per tre volte sono scappato nel cuore della notte come un ladro. Una volta anche da un albergo con spa in cui lei, per sorprendermi, aveva prenotato caparbiamente quello che gli alberghi con spa chiamano week end romantico, (o peggio fuga romantica), dicendole che mio padre si era sentito male. Ora siamo sotto il piumone (non so perchè, ma in questi esercizi dell’immaginazione è sempre inverno). Magari abbiamo fatto l’amore o ci siamo sbaciucchiati mentre siamo ancora tiepidi di sonno. Poi rimaniamo abbracciati. Sento per la prima volta l’odore che lei ha al mattino. Una miscela di tracce sbiadite: cosmetici, il suo sesso asciugato e rappreso qua e là sul mio corpo, l’eco dell’odore che doveva avere da bambina appena sveglia. E io che faccio? Mi lascio scappare una puzza? E che faccio mentre mi scappa e subito dopo? Guardo da un’altra parte facendo finta di niente, come se ci fosse arrivato un rumore strano dai vicini? Oppure ridacchio come un bambino che ha fatto una marachella? E che faccio con il tanfo (che qualche volta ha stupito pure me). Lascio che ci raggiunga filtrando dagli interstizi tra il piumone e i nostri corpi? Oppure sollevo un lembo del piumone dal lato opposto a lei nella speranza infantile che il gas abbia lo stesso comportamento dell’acqua sotto pressione, defluendo dalla prima apertura che le si offre. E se lei – mentre veniamo inghiottiti dalla miscela di azoto, ossigeno (da non credersi, ma nelle scoregge c’è ossigeno), metano, biossido di carbonio e solfuro di idrogeno – fa la cosa più umiliante di tutte: finta di niente? Magari peggio: finta di niente mentre una smorfia appena percepibile le contrae le narici e le sopracciglia. A quel punto verrebbe giù la maschera, senza possibilità di appello.

Perchè per me era impensabile, fino a Lucia, scoreggiare davanti a una donna che hai sedotto come seducevo io. Dopo aver sedotto col modus operandi di uno psicopatico ad altissimo funzionamento cognitivo. Va spiegato, questo modus operandi, così verrà da sè il senso della sua incompatibilità con qualsiasi atto che rimandi all’esistenza di funzioni escretrici dell’organismo. Il primo incontro, magari a cena di amici, a una festa. Conoscevo una donna, ci conversavo per tutta la serata, l’attenzione totalmente paralizzata su di lei, come se gli altri presenti fossero solo suppellettili di scena. Più che parlare, ascoltavo, intervenendo solo poche volte, ma con la scelta di tempo giusta per alimentare il ritmo dei pensieri di lei, che probabilmente si sentiva veramente ascoltata forse per la prima volta in vita sua. Mettevo in scena il pressocchè totale autoannullamento al servizio dell’altro. Non ascoltavo semplicemente con la massima attenzione. Diventavo attenzione. E mi identificavo totalmente con l’altro. Poi, all’improvviso, facevo detonare frasi che riproponevano il contenuto di quanto lei mi aveva detto in una veste nuova, che la lasciava attonita. Di quelle frasi che iniziano con apparente umiltà, “quindi mi stai dicendo che…”, e poi scavano un solco nella coscienza dell’altro. Insomma, ero dotato di una forma di empatia pericolosissima. Quella che serve a ottenere qualcosa. Quell’empatia che non è guidata dal fine di prestare aiuto emotivo, trasmettere vicinanza, quanto da quello di vedersi firmare dall’altra un’ipoteca sulla sua futura perdita di coordinate interne. Il rapido determinarsi nella sua mente dell’impossibilità di non pensare a me.

Se l’altra si mostrava disponibile a darmi tutto la sera stessa, io declinavo. Ma non, banalmente, per rendermi più desiderabile. Semmai il contrario: trovavo banale avere un rapporto sessuale la sera del primo incontro. Al punto che in quel primo incontro non trovavo dentro me alcuna traccia di desiderio sessuale. Piuttosto, mi facevo dare il suo numero. Così, dopo l’intera serata trascorsa a parlare, dopo aver praticamente stordito l’altra toccandola nella sua zona più vulnerabile, quella che non risparmia nessuno – il bisogno di essere finalmente, totalmente vista – poche ore dopo averla salutata con un’espressione grata, comunicandole senza parole che per me tutto quello che di meglio può accadere tra un uomo e una donna era appena accaduto, le inviavo un sms (odio whatsupp, non sono nemmeno sicuro che si scriva con due p finali!).

Ero un maestro della comunicazione via sms. Ci sono persone che si fanno odiare via sms a causa della loro stringatezza, che li fa sembrare sempre irritati. Altre che non ne distinguono l’uso rispetto alla comunicazione orale, e risultano prolissi con entrambi i mezzi, solo che via sms quella prolissità, quella pretesa di dire tutto, ma proprio tutto, come se per l’altro fosse indispensabile saperlo, diventa grottesca. Io riuscivo via sms ad essere sintetico, essenziale, letale. Non dovevo pensare molto a cosa scrivere. Veniva fuori da sé, come prodotto di una formula matematica a due variabili: totale, crudele sintonizzazione con l’altro, e ritmo del linguaggio. Riuscivo a scrivere sempre la cosa giusta. Ciò che lei aveva bisogno che scrivessi nel momento in cui lei aveva bisogno che lo scrivessi. Dopo la prima sera, una settimana di scambi di sms. Senza chiederle di rivederla. A quel punto avevo creato nella sua mente la giusta combinazione di ossessività e paura. Io oggetto di entrambe.

Una volta, dopo una settimana di scambi del genere, inviai a una donna un sms: nome e l’indirizzo di un hotel a cinque stelle sulla costa, un giorno, un’ora. Al suo arrivo lei aveva trovato la porta della stanza socchiusa. Io mi ero nascosto. Era entrata. Con un telecomando avevo fatto partire l’impianto stereo a tutto volume. Whole lotta love dei Led Zeppelin. Ero uscito all’improvviso e l’avevo presa da dietro, premendola davanti allo specchio, costringendola a guardarsi. Aveva tremato a lungo dopo aver goduto. Avevo pagato il conto in anticipo. Me ne ero andato alle quattro del mattino. Come dicevo, il mattino dopo un numero come quello di Whole lotta love non si può scoreggiare. A stento si può tollerare l’avere organi interni. L’essere reale, e non solo un’idea nella mente di una donna.

Con Lucia, invece.

 

La prima notte che passammo insieme non fu certo per mia decisione. Come ho detto, stavamo insieme da poco più di un anno. Aveva organizzato una cenetta a casa sua. I suoi non c’erano. Aveva pensato a tutto. Anche al mio vino preferito. O meglio, quella sera aveva pensato anche ad insegnarmi quale fosse il mio vino preferito, visto che fino a quella sera non avevo un vino preferito. Fatto sta che bevvi troppo. Andammo a letto. Facemmo l’amore lentamente, poi fortissimo. Durante l’amplesso ci insultammo, ci picchiammo piano, ci fissammo continuamente, in preda allo stupore, urlandoci a vicenda con lo sguardo che eravamo fottuti ora che la nostra vita era totalmente nelle mani dell’altro. Che il sesso era l’unico mezzo a nostra disposizione ma, anche se così intenso, era inadeguato, insufficiente a farci entrare a vicenda l’uno nel corpo dell’altro in modo anche lontanamente simile a come si confondevano l’una nell’altra quello che per brevità chiamerò le nostre anime.

E poi ci addormentammo, esausti.

Il mattino seguente mi svegliai di soprassalto. L’imbarazzo iniziato subito prima di aprire gli occhi. Lei era vicino a me. Mi guardava, calma.

«Buongiorno.»

«Ciao», risposi, mandando una sonda nel mio intestino per monitorare il livello di pressione. Sapevo che da un momento all’altro avrei avuto bisogno di sganciarne una, e aspettavo il momento giusto per alzarmi e guadagnare il bagno.

«Dormito bene, tesoro?»

«Sì», risposi, stiracchiandomi.

Rimanemmo stretti. In silenzio. La sua testa sul mio petto e la sua mano lunga, affusolata sul mio sterno. Non so esattamente per quanto. In quella sospensione temporale e spaziale che avevo imparato con lei.

Dopo un po’ sentii aumentare la pressione, il gas farsi strada verso il basso. Trattenni. Stavo per scappare in bagno quando accadde l’unica cosa che non mi sarei mai aspettato. Un rumore stridulo, breve. Un peto delicatissimo, seguito da una risatina soffocata, la testa nascosta sotto il mio braccio per un imbarazzo provato solo a metà.

«Falla anche tu, dai! Per solidarietà». E rise di nuovo.

Insomma, me lo dico spesso: forse sto ancora con Lucia perchè quella mattina, abbarbicata a me, dopo aver dormito insieme, praticamente mi chiese di diventare il suo compagno di scoregge.

 

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