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Il cinema o l’uomo immaginario. Saggio di antropologia sociologica (2016) – Recensione

Si tratta di un saggio di antropologia sociologica di Edgar Morin che descrive le caratteristiche del cinema secondo un approccio antropologico. 

Di Giovanni Coppolino Billé

Pubblicato il 13 Set. 2016

Aggiornato il 04 Ott. 2019 14:16

La ripubblicazione italiana di questo importante studio del 1956 (dopo le traduzioni per Silva nel 1962 e per Feltrinelli nel 1982) testimonia ancora una volta l’interesse particolarmente vivo per la statura intellettuale e il pensiero di Edgar Morin, in particolare verso un approccio culturale inedito di tipo antropologico nello studio del cinema (e dei media in generale), inaugurato proprio da questo libro.

 

Il rapporto tra reale e immaginario nel cinema

La domanda iniziale dell’autore riguarda infatti la possibilità del cinema di risuscitare l’universo arcaico dei doppi e la metamorfosi tipici delle credenze arcaiche sulla sopravvivenza post mortem, già analizzate dettagliatamente nell’antropologia dell’immaginario del precedente libro del 1951, intitolato L’uomo e la morte (ripubblicato da Erickson nel 2014), a cui questo si ricollega. Il tema centrale dell’immagine cinematografica indaga contemporaneamente il rapporto tra reale e immaginario e quello tra modernità e arcaismo, che consentono a Morin di descrivere il fenomeno per cui l’illusione di realtà di cui noi abbiamo perfetta coscienza nel cinema non è mai disgiunta dal senso della realtà che ci permette di vivere direttamente delle esperienze come se fossero reali, pur avendo la consapevolezza che non lo siano.

Il focus centrale della sua analisi è la fase di passaggio dal cinematografo delle origini al cinema vero e proprio grazie alla crescente spettacolarità delle immagini proiettate sullo schermo. Il cinematografo era l’unità indifferenziata dell’irreale e del reale, mentre il cinema ne è l’unità dialettica, cioè l’unità nella distinzione che avviene nel passaggio dal fantastico alla fantasia, che non è altro che la sua progressiva razionalizzazione.

All’inizio il cinematografo Lumière suscita la curiosità degli spettatori con immagini che rispecchiano la realtà (come l’uscita degli operai dalla fabbrica o l’ingresso di un treno alla stazione) restando pur sempre immagini. Subito dopo, prendendola a prestito dalla fotografia, ma potenziandola con quelle tipologie di immagini in movimento che suscitano un particolare coinvolgimento emotivo, il cinematografo diventa cinema grazie alla fotogenia (il cui maggiore teorico è il regista e teorico dell’avanguardia francese Jean Epstein), in cui l’immagine, in quanto «presenza vissuta» e «assenza reale» recupera il tema arcaico della sopravvivenza e dell’immortalità sotto forma di doppio. Una prima definizione di fotogenia, senza alcuna pretesa di esaustività, proposta dall’autore è la seguente: [blockquote style=”1″]La fotogenia è quella qualità complessa e unica di ombra, di riflesso e di doppio che permette alle potenze affettive proprie dell’immagine mentale di fissarsi sull’immagine, frutto della riproduzione fotografica[/blockquote] (p.42).

La sopravvivenza del doppio e la morte-rinascita dell’animismo proprio della coscienza arcaica si trovano simbioticamente associate nella metamorfosi dell’universo fluido del cinema, in cui interagiscono nello stesso tempo il microcosmo umano e il macrocosmo.

 

La metamorfosi del tempo e dello spazio nel cinema

Oltre al doppio, il cinematografo delle origini riprende anche l’altro polo della magia, la metamorfosi, intesa come morte-rinascita. Entrambi, doppio e metamorfosi, rappresentano il bisogno di immortalità della mentalità arcaica e non a caso il primo ad operare la metamorfosi dal cinematografo al cinema con i suoi trucchi fantastici fu, secondo Morin, proprio George Méliés.

La prima “vera” rivoluzione tecnica fu però apportata dal montaggio, che fece acquisire dei caratteri spaziali e temporali nuovi al sistema di immagini animate che ancora nel cinematografo seguivano un tempo rigorosamente cronologico. Il tempo diventa fluido grazie alla compressione e alla dilatazione, al ralenti e all’accelerazione delle inquadrature, la cui successione discontinua ed eterogenea viene ordinata proprio in sede di montaggio.

Il tempo del cinema diventa reversibile, con il salto all’indietro dal presente al passato tramite la dissolvenza normale (che comprime il tempo) e la dissolvenza incrociata (che comprime lo spazio), il flash-back e il cut back. Insieme al tempo, abbiamo anche la metamorfosi dello spazio, con il movimento della macchina da presa mediante la panoramica e la carrellata, che consentono la metamorfosi degli oggetti. Morin, nei capitoli centrali (il terzo e il quarto) e indubbiamente più interessanti del suo lavoro, coglie perfettamente nella metamorfosi magica riesumata dal cinema la mescolanza tra il cosmomorfismo dell’uomo (il volto diventa paesaggio) e l’antropomorfismo degli oggetti (il paesaggio diventa volto).

L’antropo-cosmomorfismo emerge in particolare nel doppio processo di proiezione e di identificazione del cinema, che determina la partecipazione affettiva degli spettatori, da cui deriva “la realtà semi-immaginaria dell’uomo” (la definizione è ripresa da Gorkij). Il cinema ha messo in campo, oltre a quelle cinestesiche “normali”, anche altre tecniche per suscitare la partecipazione affettiva, come la mobilità della macchina da presa, la successione di piani, la musica, l’accelerazione e il ralenti, il primo piano, l’illuminazione e il gioco di luci e ombre, gli angoli di ripresa (inquadratura dall’alto e dal basso), la rappresentazione delle emozioni ecc. Avviene così la congiunzione tra il film e lo spettatore, tra cinestesi (movimento) e cenestesi (soggettività, affettività). I più importanti fenomeni di simbiosi prodotti dal cinema sono l’identificazione con un personaggio dello schermo (in base alle somiglianze fisiche o morali), in particolare con i personaggi privilegiati dello star system, il cui fenomeno è stato analizzato dettagliatamente nel libro successivo I divi (1957, tradotto da Garzanti nel 1977), che è il pendant di questo saggio.

 

Le proiezioni e identificazioni con i personaggi

Morin descrive anche le proiezioni-identificazioni polimorfe, che permettono di identificarsi con individui totalmente diversi da noi (e di solito odiati, disprezzati o evitati nella vita quotidiana), come neri, gangster, prostitute, assassini ecc. L’identificazione con il diverso mette in luce il nostro lato più nascosto (maledetto, dice l’autore) e i desideri più inconfessabili, ma traccia al tempo stesso una linea di separazione netta con la vita quotidiana. Oggi questa conclusione mi sembra che sia diventata piuttosto problematica, in quanto l’aumento esponenziale della fruizione di immagini porta inevitabilmente alla tendenza progressiva, seppur circoscritta, alla manifestazione di fenomeni di emulazione che ibridano l’immaginario con i modi di essere e i comportamenti della vita reale condizionandoli talvolta negativamente. Nella sua analisi sociologica Morin dimostra con esempi concreti che l’ego-involvement riguarda tutti i generi di film e la partecipazione polimorfa e affettiva non si limita soltanto ai personaggi, ma anche agli oggetti che assumono un’anima. In altri termini, la partecipazione affettiva è a suo avviso «lo stadio genetico» e «il fondamento strutturale» del cinema, come dimostrano ad esempio il close up e il primo piano del volto.

Un altro aspetto che all’autore interessa mettere in evidenza, accanto al processo soggettivo di proiezione-identificazione affettiva, è l’altrettanto rilevante processo oggettivo di costruzione della percezione, mediante l’identificazione delle forme apparenti con la forma della costanza della Gestaltheorie, che risulta chiaramente presente nella visione cinematografica. Grazie al movimento della macchina da presa, con l’utilizzo di tecniche proprie come la carrellata, le inquadrature, il primo e primissimo piano, la panoramica verticale o orizzontale, una successione di inquadrature parziali contribuisce alla costruzione della percezione globale, proprio come avviene nella percezione della realtà in cui, in base al processo della costanza degli oggetti, ricostituiamo l’intero quadro spazio-temporale. È proprio lo spettatore che dà la visione globale, l’unità della visione psicologica nonostante l’apparente passività del suo atteggiamento di fronte alle immagini. La visione psicologica è, in altri termini, la stessa sia per la visione pratica, oggettiva, razionale che per quella affettiva, soggettiva, magica.

Morin dimostra, attingendo soprattutto alla ricostruzione storico-sociale di autori classici come Georges Sadoul, Béla Balász e André Bazin (determinanti per l’intera costruzione del libro) che il cinematografo delle origini presentato all’Esposizione universale del 1900 aveva già nelle sue potenzialità tecniche il sonoro, il rilievo, il colore, lo schermo panoramico, ma queste nuove tecniche furono sfruttate soltanto con le crisi finanziarie, soprattutto la Grande Depressione del 1929-1935 e la concorrenza televisiva del 1947-1953, per rilanciare il medium cinematografico aumentando l’affluenza al botteghino degli spettatori.

 

L’intelligibilità nel cinema

Oltre all’aspetto magico, l’autore tenta di giusticare parallelamente l’emergere dell’intelligibilità nel cinema, cioè i motivi per cui il sistema narrativo del film da mera struttura magica e di fantasia, in virtù della sua costruzione interna (soggetto, sceneggiatura, intrigo) diventi nello stesso tempo un discorso logico e dimostrativo. È a suo avviso con Ejzenštejn (in film come La corazzata Pötemkin e, soprattutto, negli scritti teorici sul montaggio) che le stesse immagini che suscitano la partecipazione affettiva fanno emergere le idee, tramite il simbolo che riunisce in sé con un doppio filo il segno astratto e il sentimento.

In questo modo il linguaggio cinematografico diventa totale e polifunzionale: il sentimento è un momento della conoscenza e le immagini diventano simboli della costruzione di un’ideologia. Il cinema, pur concettualizzando, tuttavia non ha concetti propri, ma utilizza le forme proprie dell’immagine fotografica per creare un linguaggio universale. Il limite del film (oggi decisamente più ridotto anche se non sarà possibile superarlo del tutto) è che non potrà mai essere del tutto intelligibile perché è un prodotto sociale determinato dalla cultura di un determinato gruppo sociale di appartenenza, i cui codici possono essere indecifrabili per altre culture. Tuttavia riconosce che già negli anni cinquanta del secolo scorso il cinema americano è riuscito a diffondere su scala planetaria un linguaggio mimico nuovo, fatto di temi e di gesti facilmente imitabili e dunque universalizzabili. Ha creato un nuovo immaginario collettivo (the american way of life) che, a maggior ragione oggi, ha contribuito in modo determinante a omogeneizzare l’intero pianeta.

 

Conclusioni

Il cinema è psichico (secondo la formula di Epstein) in quanto comprende il reale nella percezione e secerne continuamente l’immaginario che lo nutre. In altri termini, è formato dall’immaginario che viene sviluppato dal macchinario tecnico, è un’industria che confeziona una merce che utilizza un linguaggio universale per soddisfare i bisogni psicologici delle masse con il fatturato economico del capitale. Morin elabora volutamente un’antropologia genetica e una sociologia dell’immaginario che, pur presupponendola, rinuncia all’analisi sociologica della tecnica e dell’economia dell’industria cinematografica per «reintegrare l’immaginario nella realtà dell’uomo» (p.212), ma forse è riuscito meglio nel fare il contrario, contribuendo in modo determinante a farci comprendere l’importanza del cinema nella vita quotidiana di ciascuno di noi.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • E.Morin. (2016). Il cinema o l’uomo immaginario. Saggio di antropologia sociologica. Raffaello Cortina, Milano.
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