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Psicorock. Storie di menti fuori controllo (2016) di Gaspare Palmieri – Recensione

In Psicorock Palmieri racconta di musicisti la cui strada ha incrociato la psichiatria: da Elvis a Syd Barrett, verso una comprensione della sofferenza...

Di Cristiana Chiej

Pubblicato il 11 Lug. 2016

Il libro Psicorock di Gaspare Palmieri traccia un filo tra storia della musica e psichiatria. L’intento dell’autore è di imparare qualcosa di più sui disturbi psichiatrici partendo da un insolito e interessante punto di osservazione: capire perché certi musicisti in un determinato periodo storico soffrano di problemi psichiatrici e/o dipendenze.

 

Il firmamento del rock è affollato di stelle sofferenti che hanno dovuto nel corso della loro vita fare i conti con varie forme di disagio psicologico. Le persone che lavorano in ambito artistico, ed in particolare in ambito musicale, infatti, sembrano soffrire di problemi psichiatrici in misura maggiore rispetto ad altre professioni.

Il libro Psicorock di Gaspare Palmieri, nato dalle suggestioni di un articolo dello psicologo inglese Wills (che ripercorre le biografie di diversi grandi jazzisti dell’epoca del bebop dalle vite alquanto tormentate, cercando di formulare ipotesi diagnostiche), traccia un filo tra storia della musica e psichiatria. L’intento dell’autore è di imparare qualcosa di più sui disturbi psichiatrici partendo da un insolito e interessante punto di osservazione: capire perché certi musicisti in un determinato periodo storico soffrano di problemi psichiatrici e/o dipendenze.

Partendo dai grandi compositori classici, passando dai geniali jazzisti del bebop, fino alle stelle del rock e del pop, l’autore prende in esame dal punto di vista clinico le storie, le biografie, le interviste e la produzione artistica di molti musicisti famosi, soffermandosi di volta in volta sui testi delle canzoni, su particolari esperienze di vita e persino sulla composizione e sul rapporto con lo strumento.

In un susseguirsi di capitoli dai titoli ironici ed evocativi (‘L’edipo rock di Jeff Buckley‘, ‘Il DOC’n’Roll dei Ramones’, ‘Brian Wilson e il controtransfert surf-rock‘, ‘Gli ambidestri rock e il corpo calloso di Jimi Hendrix‘, per citarne alcuni) l’autore racconta le storie di vita di diversi musicisti la cui strada per varie ragioni ha incrociato quella della psichiatria. Da Elvis ‘re mammone del rock e delle pillole‘, al disagio esistenziale di Kurt Cobain, alla psicosi di Syd Barrett, emerge un quadro preoccupante, in cui la presenza di sofferenza mentale supera di gran lunga la percentuale riscontrabile nella popolazione “normale”.

Epoche molto creative dal punto di vista artistico (e musicale in particolare) hanno visto vere e proprie epidemie di disturbi psichiatrici, che hanno attirato l’attenzione della comunità scientifica e prodotto interessanti pubblicazioni.

Si pensi al periodo del bebop quando l’America razzista del maccartismo da un lato e l’ignoranza delle conseguenze negative dell’assunzione di certe droghe dall’altro, hanno contribuito allo stile di vita sregolato e clandestino dei musicisti che si è incrociato con la predisposizione individuale al sensation seeking, certamente correlato con la creatività e l’attrazione verso il mondo dell’arte.

Il rapporto tra creatività e disagio psichico è interessante e complesso: numerosi studi hanno individuato un’alta prevalenza di disturbi mentali in persone dotate di talento creativo, anche se nella fase creativa vera e propria il disturbo deve essere sufficientemente controllato per non interferire in maniera negativa con la produzione artistica.

Gli artisti possono soffrire di disturbi psichiatrici anche gravi e nonostante ciò produrre opere eccezionali. In molti casi è proprio la musica a rappresentare una grande risorsa, un modo per esprimere stati d’animo dolorosi ed entrare in contatto con parti di sé altrimenti intollerabili: Jim Morrison scriveva canzoni e poesie per affrontare esperienze angoscianti, esplorando i meandri più oscuri e inaccettabili della mente e la sua band agiva come struttura contenitiva e via per incanalare il suo genio aiutandolo ad astenersi da droghe e alcol nella fase creativa; per Amy Winehouse creare musica era un processo insieme doloroso e terapeutico, l’unico modo per entrare in contatto con le parti più fragili e sofferenti di sé senza anestetizzarsi con le sostanze. Talvolta, come emerge dalle interviste di Emily Maguire e Martin Kolbe, la musica è anche un’occasione per superare lo stigma legato alla malattia mentale, diffondendo informazioni e spezzando l’isolamento che spesso caratterizza le vite di persone affette da disturbi psichiatrici.

L’autore prende anche in considerazione l’allarmante dato di elevata mortalità fra i musicisti: pur essendo stato sfatato il mito del Club dei 27, secondo cui ci sarebbe un picco di mortalità fra i musicisti popolari proprio a 27 anni, emerge un aumentato rischio a partire dall’inizio della fama. Interessante è la riflessione relativa alla correlazione fra esperienze traumatiche avvenute in età infantile (Adverse Childhood Experiences – ACE) e mortalità prematura fra le rockstar: in questo senso la rincorsa del successo musicale potrebbe essere un tentativo di coping per sfuggire alle traumatiche esperienze del passato. In realtà in molti casi sono proprio le conseguenze del successo a diventare insostenibili e a spingere i musicisti lungo una china di autodistruzione, talvolta amplificata e rinforzata dai media, spesso attratti più dagli eccessi comportamentali dell’artista che dalla sua produzione musicale.

Un ruolo da protagoniste sul palcoscenico della vita sregolata delle rockstar è naturalmente riservato alle sostanze: farmaci, droghe varie e alcol sono quasi un fil rouge che attraversa le pagine delle variegate storie di Psicorock.

Ciò in parte a causa dell’ignoranza degli effetti negativi che in alcuni periodi storici ha contribuito all’uso massiccio di certe sostanze (eroina e LSD, per esempio), in parte come comportamento di ribellione e rottura verso il sistema, in parte come tentativo (il più delle volte controproducente, a dire il vero) di stimolare la creatività, in parte, forse soprattutto, come modalità di coping e anestesia emotiva rispetto a vissuti altrimenti intollerabili.

Spesso l’abuso di sostanze rappresenta, infatti, un tentativo terapeutico per l’artista. Tentativo che in realtà amplifica gli aspetti depressivi e autodistruttivi e che spesso ha un esito fatale: Elvis, Janis Joplin, Amy Winehouse sono solo alcuni dei musicisti la cui dipendenza da sostanze (rispettivamente farmaci, eroina, alcol) ha avuto un ruolo diretto del causarne la prematura scomparsa.

Altro grande capitolo del rapporto fra mondo della musica e psichiatria è quello della cura. In molti casi il rifiuto delle cure e la difficoltà a fidarsi ed affidarsi è uno degli elementi che accompagna la discesa agli inferi dell’autodistruzione, come per Jim Morrison, Kurt Cobain e Amy Winehouse.

In altri casi è proprio l’incontro con medici o terapeuti dall’etica discutibile ad esacerbare il problema o far precipitare la situazione: Elvis ha trascorso la sua vita imbottito di ogni sorta di pillole regolarmente prescritte dal suo medico curante; Brian Wilson, leader dei Beach Boys, è stato preso in cura dal discusso dr. Landy per anni in una terapia costante 24 ore su 24 che abbracciava, o meglio controllava rigidamente ogni aspetto della sua vita. In questo caso lo psicologo ha talmente oltrepassato i confini setting terapeutico da farsi sospendere la licenza dalla Corte Federale per circonvenzione di incapace. Tanta è stata l’influenza nella vita di Wilson di questo legame che egli stesso ha definito quel periodo ‘gli anni di Landy‘.

Quale che sia il rapporto con la cura e i curanti, ciò che emerge dalle autobiografie di molte rockstar uscite negli ultimi anni è un crescente spazio dedicato a dettagliate descrizioni di percorsi di riabilitazione. Amy Winehouse ha perfino dedicato una canzone (Rehab, appunto) a questo tema. In contrapposizione all’apologia degli eccessi che ha caratterizzato gli anni 60/70, pare che oggi sia molto più rock occuparsi del processo di guarigione: ‘sex, rehab and rock’n’roll?‘ si chiede l’autore…

Il libro di Gaspare Palmeri non ha l’ambizione né l’intento di delineare nuove teorie sul rapporto tra rock e follia, mettendo anzi in evidenza come ogni storia sia unica e diversa dalle altre. L’autore ripercorre con sguardo clinico attento e curioso le storie di vita di alcuni protagonisti del rock cercando, con prosa scorrevole e nello stesso tempo accurata dal punto di vista clinico, di andare oltre la superficialità che troppo spesso si incontra nei resoconti giornalistici e che mira solo a fare notizia, a discapito della vera comprensione della sofferenza che sta dietro a ogni storia.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Palmieri Gaspare (2016) Psicorock. Storie di menti fuori controllo. Arcana Editore
 
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