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Musica e Psiche: la follia dei grandi musicisti

C’è una componente genetica sottostante al rapporto tra musica e follia? O suonare e comporre sono un lenitivo per personalità predisposte alla sofferenza?

Di Giancarlo Dimaggio

Pubblicato il 11 Apr. 2016

La musica non cura. Eccita, placa, risveglia, ti porta in un mondo che non pensavi, ti spalanca gli occhi a quel tramonto di cui non hai mai davvero visto i colori.  Ma non è una medicina.

Di Giancarlo Dimaggio, parti del seguente articolo sono pubblicate su Il Corriere della Sera

 

La musica non cura. Eccita, placa, risveglia, ti porta in un mondo che non pensavi, ti spalanca gli occhi a quel tramonto di cui non hai mai davvero visto i colori, in un pomeriggio di aprile che non hai mai vissuto dove l’ombra dell’olmo si poggiava su un muro di pietra che era lì da millenni a parlare di ninfe, onde e vigne.

Ravviva, intristisce, sballa, diverte, fa tutte queste cose. Ma non è una medicina. I musicisti non la assumono per guarire e se lo fanno non funziona. Altrimenti Layne Stanley, cantante degli Alice in Chains, non sarebbe morto di speedball, Amy Winehouse terrebbe ancora concerti, Syd Barrett non sarebbe impazzito. E James Hetfield non si sarebbe scolato più vodka di un gruppo di mafiosi russi nell’ora di ricreazione, fino quasi a distruggere se stesso e i Metallica, complice Lars Ulrich. Poi decisero di fare una terapia di gruppo.

Allora i musicisti sono matti di una follia che resiste alla melodia? Matti in un modo speciale, di una malattia che ne alimenta la creatività e li tormenta?

Non lo so. Le loro storie sono interessanti.

Robert Schumann, due anni prima di morire, arrivò a comporre sotto l’influenza degli spiriti che gli parlavano. L’opera è le ‘Variazioni Geister’ (degli spettri), a suo dire dettate dai fantasmi. Tentò il suicidio pochi giorni dopo gettandosi nel Reno. Si salvò, chiese di essere internato in manicomio dove morì in solitudine. Per tutta la vita soffrì di intensa depressione, alternata a fasi di esaltazione. Gli spettri che gli parlavano erano allucinazioni uditive.

Tim e Jeff Buckley. Se il Reno ha rifiutato Schumann, quasi due secoli dopo il Mississipi si è preso Jeff Buckley. In una sera di Maggio si tuffò per nuotare. Non riemerse più, forse risucchiato da un gorgo creato da un battello. Aveva 31 anni. Il padre Tim non era arrivato a quell’età, ne aveva 28 quando eroina e alcool se lo presero. Desiderio inconscio del figlio di ricongiungersi al padre che non aveva praticamente mai conosciuto? Una speculazione possibile, valida quanto l’idea che sia stato semplicemente vittima di un incidente. Se fosse vissuto più a lungo, avrebbe scritto un altro brano bello quanto ‘Grace’?

James Hetfield beveva come un dannato. Vodka a fiumi. Era carico di rabbia. Può avere influito sulla sua personalità che i genitori, a causa della fede nel Cristianesimo scientista, fossero concordi nel fatto che la madre, malata di cancro, rifiutasse le cure? Mise su insieme a Lars Ulrich i Metallica. Insieme li stavano distruggendo per i loro conflitti caratteriali. Nel documentario ‘Some Kind of Monster’, imperdibile, si vede tutto. Bisogno di controllo, due ego potentissimi che si fronteggiano titanicamente. Un terapeuta che li aiuta a sistemare le cose e poi commette degli errori. I Metallica sono ancora sul palco.

Syd Barrett. La storia è nota. Abusa di LSD. Gli acidi possono indurre psicosi. La mente di Syd se ne va. Era predisposto alla follia? C’è chi ha ipotizzato che soffrisse da sempre di sindrome di Asperger, una forma più lieve di autismo. Gli acidi causarono una rottura nella sua mente e l’isolamento, a cui gli Asperger sono predisposti perché non hanno una reale comprensione della vita interiore degli altri, prese il sopravvento. Che sia stato Asperger o psicosi indotta da psicofarmaci, ipotesi che a me comunque appare più plausibile, importa poco. Quello che rimane è il racconto di Nick Mason in ‘Inside Out’, la sua versione della storia dei Pink Floyd: il 5 giugno 1975 un uomo grasso e pelato entrò negli Abbey Road Studios, dove i suoi ex compagni registravano ‘Wish You Were Here’, aveva una borsa da spesa di plastica in mano e un’espressione vacua. Chi soffre di schizofrenia appare così. Gilmour gli chiese cosa facesse nella vita. Syd rispose che aveva da comprare sempre braciole di maiale perché tendevano a finire.

Elliott Smith. Guardate ‘Will Hunting-Genio Ribelle’. La sua ‘Angeles’ accompagna la scena d’amore più toccante del film. Un pezzo che trasmette calma, calore e nostalgia. Mi chiedo quale animo avesse bisogno di scrivere un brano così avvolgente, pacificante. Smith era depresso, abusava di alcool e droghe e nessun tentativo di disintossicazione riuscì. ‘Miss Misery’, da Will Hunting, fu candidata all’Oscar nel 1997, gli fu preferita Céline Dion. Nel 2001 era convinto di essere seguito da un furgone bianco e che i tipi della casa discografica avessero fatto irruzione nella sua casa. Nel 2003 morirà con due pugnalate al petto, evento rubricato come suicidio. Forse spinto dagli stessi spettri che parlavano a Schumann?

Forse c’è una componente genetica sottostante al rapporto tra musica e follia, il DNA della creatività ha parentele con quello di schizofrenia e disturbo bipolare, ma c’è tanto da investigare per affermarlo con certezza. I rapporti possono essere di altri tipi. Suonare e comporre possono essere un lenitivo per personalità disposte alla sofferenza. E questo non è specifico della musica e dell’arte. Quanti riescono a trovare sollievo solo nelle loro attività preferite? Cucinare, fare sport, intagliare il legno.

Oppure: lo stile di vita del musicista espone a instabilità, uso di sostanze e stress che anche in presenza di minime vulnerabilità minano l’equilibro psichico? È possibile. Io faccio spesso lezione di psicoterapia, tutto il weekend, in passato anche per tre weekend di fila. Dissi agli amici: ‘Ho scoperto perché i musicisti si drogano! Ho parlato per due giorni a venti persone e sono distrutto. Vi immaginate andare in tour, quattro concerti a settimana, prove, viaggio e tremila, diecimila persone che urlano? Minimo mandi giù sei birre e una tequila!

Altra possibilità: il bisogno di ammirazione che ti porta ad andare sul palco per chiedere al pubblico chi sei. Qui c’è una patologia della personalità, vero, ma… è specifica dei musicisti? O degli attori, dei manager, degli stilisti? O è lo stesso carattere di chi, non importa che lavoro faccia, si rode in silenzio, covando angoscia e rancore perché nessuno va a stanarlo dicendogli che è unico ed eccezionale?

E infine la più classica: soffri, e gli vuoi dare un senso. Hai talento: componi. Gli altri ascolteranno i tuoi tormenti trasformati in arte, non sarai solo. Tutte possibili spiegazioni del legame tra musica e sofferenza psichica, niente di saldamente scientifico che ci dica innanzitutto se tale legame esista davvero.

Eppure in fondo la patografia è un esercizio che non mi interessa, da psicoterapeuta la scanso, mi sembra di guardare in TV l’analisi retrospettiva dell’ultimo killer finito in prima pagina. Mi interessa invece molto la vita degli artisti, quando è scritta in prima persona, soprattutto se con penna felice. James Rhodes ha pubblicato ‘Le Variazioni del dolore’. Non lo avete tra le mani? Avete letto ‘Open’ di Agassi? Non aspettate, sono della stessa categoria, solo che Rhodes condisce con salsa Palahniuk (mister Fight Club). Rhodes colpisce duro, sporco, mira sotto la cintura. La sua vita: oggi un talento mondiale del pianoforte classico. Ieri, un bambino sodomizzato per anni, a partire dai sei, dal suo insegnante di boxe a scuola. Siete disgustati? Io sì, ma succede e l’ultima cosa da fare è girarci intorno. L’ha pagata cara. Si è strafatto di qualsiasi cosa, ha bevuto oltre ogni limite, frequentato gli alcoolisti anonimi, ha amato, torturato chi gli stava accanto, sofferto d’insonnia, non necessariamente in quest’ordine. Si è tagliato con le lamette per provare piacere – pratica cara a molti adolescenti malati: sconsiglio, quando guarite le vostre cicatrici vi faranno schifo, non sono fighe per niente. Trova persone che gli vogliono bene, credono in lui.

A Verona un italiano scopre che da piccolo James ci sapeva fare, gli chiede di suonare. Resta ammirato, lo obbliga a prendere lezioni col miglior maestro che ci sia, Edo: urla, incoraggiamenti, disciplina, il suo talento prende forma. Dà concerti. Piace. Poi riprende a darla vinta ai suoi demoni. Ancora ricoveri, lamette, poi va fuori di testa di brutto, lo ricoverano a forza, tenta maldestramente di impiccarsi. Prende per i fondelli i terapeuti per anni, finché non capisce che non era una genialata. Superato l’abisso, conosce Denis che gli chiede di suonargli la ‘Ciaccona’ di Bach/Busoni. Tu farai un disco, è l’inizio della rinascita. Non sarà un percorso lineare, non lo è a tutt’oggi. Cammina in compagnia degli spiriti affini che omaggia in ogni capitolo. Schumann che sentiva le voci degli spettri e le trasportava in musica. Schubert, bruttino e rancoroso morto giovane, Ravel mammone asessuato.

Io un paziente come Rhodes l’ho visto. Bassista rock, sniffava eroina, cocaina e beveva. Diceva mezza parola a seduta. Dopo mesi mi confessò: sono stato abusato da un pedofilo. Chi lo ha saputo mi ha abbandonato e temo che pensino che diventerò pedofilo anche io. Ci sono voluti anni, ma il dolore è sgorgato fuori, ora non si droga più, tiene concerti, turni su turni in sala d’incisione, la fidanzata lo ama.

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Giancarlo Dimaggio
Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta - Socio Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva-Interpersonale

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