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Mobbing sul lavoro: una guida pratica al riconoscimento del problema

Il mobbing sul lavoro mina la salute delle persone. Nonostante la consapevolezza del problema, è ancora difficile difendersi dagli attacchi vessatori.

Di Valeria Anna Fauci

Pubblicato il 06 Apr. 2016

Aggiornato il 24 Mag. 2017 14:54

Il mobbing sul lavoro è un’aggressione psicologica e morale, reiterata nel tempo da parte di più aggressori, i quali agiscono nei confronti della vittima con l’intento di nuocere alla salute della stessa.

 

Cosa si intende per Mobbing?

Il termine mobbing deriva dal verbo inglese ‘to mob’ che significa assediare, attaccare. In letteratura esistono numerosi riferimenti al mobbing sul lavoro come situazione in cui è presente una vera e propria forma di aggressione psicologica e morale sul lavoro, esercitata e reiterata nel tempo, più o meno intenzionalmente, da uno o più aggressori verso un singolo, per mezzo di azioni negative volte a spingere la persona nella condizione di non potersi difendere e al suo isolamento ed espulsione dal contesto socioproduttivo (Depolo, 2003).

Il mobbing è quindi un’aggressione piscologica e morale, reiterata nel tempo da parte di più aggressori, i quali agiscono nei confronti della vittima con l’intento di nuocere alla salute della stessa; quest’ultima è la definizione più comune che Heinz Leymann, psicologo e psichiatra svedese, che nel 1984 ha deciso di descrivere nel dettaglio, elencando alcune condizioni che non possono mancare per parlare di mobbing:

  1. Un’aggressione
  2. Protratta nel tempo
  3. Che tende ad aumentare d’intensità
  4. Associata alla percezione dell’impossibilità di difendersi
  5. L’effettiva intenzione dell’aggressore di vessare col proprio comportamento e con le proprie azioni la vittima, con il preciso scopo di estrometterla dalla realtà sociale e lavorativa.

 

Mobbing e comportamenti vessatori: come riconoscerli

Una delle ultime indagini sul lavoro in Europa svolta dalla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (EUROFOUND), che risale al 2012, segnala che il 14% dei lavoratori europei è stato vittima di comportamenti vessatorio al lavoro.

Tuttavia, è difficile definire un comportamento vessatorio isolandolo dal contesto lavorativo in cui viene messo in atto, ed è proprio per questo motivo che è importante sottolineare che molti dei comportamenti definiti ‘vessatori‘, sono tali perché fanno parte di un disegno più grande, che ha l’obiettivo di ledere la vittima del mobbing sul lavoro. Il demansionamento, compiti al di sopra o al di sotto delle competenze, l’isolamento sociale, attacchi alla vita privata o un’informazione non pervenuta in tempo, se presi singolarmente, possono infatti essere classificati come comportamenti non eccessivamente allarmanti all’interno di un contesto lavorativo. Il problema sorge nel momento in cui le azioni vanno a costituire un pezzo del puzzle volto al danneggiamento intenzionale di un individuo.

Durata e frequenza inoltre, hanno un ruolo molto importante. Indicativamente, Leymann ha fissato 6 mesi minimi di soglia per potersi riferire al fenomeno. Per quanto riguarda la frequenza delle vessazioni è importante individuarne la sistematicità, nonostante non sia possibile fissare un indice di occorrenza ben preciso. L’esistenza di parametri per la descrizione del mobbing sul lavoro, non basta per la comprensione del fenomeno nella sua interezza. Esistono infatti in letteratura, diversi tipi di condizioni che differiscono per l’intenzionalità del mobbing. La prima tipologia viene descritta come ‘mobbing emotivo‘, ovvero dettato da un conflitto interpersonale non adeguatamente gestito, che degenera fino a diventare mobbing vero e proprio e che si distingue dal ‘mobbing predatorio‘ nel quale invece non vi è la presenza esplicita di un conflitto (Guglielmi, 2015). Ma quanti di noi hanno già sentito parlare di vessazioni messe in atto dal management? La terza categoria infatti viene definita ‘mobbing strategico‘, ovvero la situazione in cui le azioni vessatorie sono attuate intenzionalmente ed in maniera pianificata da parte della direzione aziendale con la precisa intenzione di estromettere una o più persone dal contesto lavorativo (Guglielmi, 2015).

 

Il mobbing sul lavoro: un problema “fantasmatico” per la legge italiana

Il mobbing sul lavoro appartiene ad una categoria di fenomeni, probabilmente esistenti da sempre, ma da poco tempo concettualizzato in maniera concreta.

Non ci sono dubbi che negli ultimi anni si siano moltiplicate le vicende che richiamano la parola mobbing, tuttavia mentre in diversi Pesi d’Europa (Scandinavia e Germania in testa) sono presenti delle leggi per arginarlo e prevenirlo. in Italia non è mai stata fatta alcuna normativa nazionale. I casi concreti di mobbing sul lavoro, quando arrivano in tribunale vengono fatti rientrare nelle leggi contro la discriminazione o in altri articoli, come quelli sul danno biologico o morale o quello che obbliga il datore di lavoro a garantire l’integrità psicofisica dei dipendenti (Decreto Legislativo n. 81/2008).

 

Jobs Act e Demansionamento

Mi piace lavorare‘ (2003) è il titolo di un film italiano nel quale Nicoletta Braschi, interpreta il ruolo di Anna, dipendente di una azienda italiana che ben presto viene rilevata da una grande multinazionale straniera.

Il film racconta di come la giovane donna venga costretta a svolgere mansioni via via più lontane da quello che era il suo ruolo iniziale in azienda. Per cominciare Anna viene demansionata, ovvero passa da segretaria di terzo livello a semplice addetta alle fotocopie, per poi essere trasferita in magazzino insieme agli operai. Il caso di Anna, descritto molto realisticamente nel film di Francesca Comencini, rappresenta dunque un chiaro esempio di mobbing sul lavoro strategico, dove il demansionamento sembra avere un ruolo centrale nel determinare una situazione di disagio per la vittima.

Gli unici casi in cui il lavoratore aveva qualche speranza in più di vincere in tribunale, infatti, erano quelli legati alla violazione dell’articolo 2103 del codice civile, secondo il quale il lavoratore non può essere costretto a svolgere mansioni inferiori a quelle per cui è stato assunto. Tuttavia questo principio è stato appena cambiato nel Jobs Act: adesso il demansionamento è legalizzato, seppur solo di un livello, a parità di salario e in caso di riorganizzazione aziendale. Il lavoratore quindi, può essere spostato a ‘mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime svolte‘, mentre prima si faceva riferimento a ‘mansioni equivalenti‘, mettendo così il lavoratore nelle condizioni di essere spostato da un lavoro che sa fare da anni a qualsiasi altro, purché rientri nello stesso livello di inquadramento contrattuale.

Un’importante azione preventiva però, resta la formazione, attraverso la quale è possibile incrementare la consapevolezza e la conoscenza degli insidiosi problemi nei quali, potrebbero incorrere sia i lavoratori che le organizzazioni.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Galili A., Il mobbing cresce, ma non si dice, L’Espresso, articolo del N°18 anno LXI 7 Maggio 2015
  • Guglielmi D., Mobbing: Quando il lavoro di fa soffrire, Il Mulino 2015
  • Depolo, M. (Ed.). (2003). Mobbing: quando la prevenzione è intervento: aspetti giuridici e psicosociali del fenomeno (Vol. 55). Franco Angeli.
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