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Nel Kurdistan iracheno a curare i traumi di guerra, reportage

Nella città di Sulaymaniyah durante la supervisione dei casi dei colleghi psicoterapeuti curdi nel loro lavoro di cura dei traumi di guerra

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 08 Mar. 2016

Aggiornato il 11 Mar. 2016 17:22

Mentre facevo esercitare i colleghi curdi a più non posso in varie tecniche di colloquio psicoterapeutico, ascoltavo storie tremende. Le peggiori erano quelle di doppia violenza, in cui donne o bambini, dopo aver subito la cieca brutalità dell’ISIS, dovevano anche subire il potere assoluto delle costrizioni sociali del clan. 

Sono state le storie di donne violentate dall’ISIS e poi rifiutate dalle loro famiglie e la visita al museo Amna Suraka della città di Sulaymannya a dare senso a questi giorni trascorsi nel Kurdistan iracheno. Invitato dal 3 al 5 marzo 2016 dalla Jiyan Foundation for Human Rights a supervisionare colleghi psicoterapisti curdi impegnati a curare i traumatizzati della guerra in corso –le donne violentate, i Peshmerga morti dentro dopo aver visto la violenza del sangue e i testimoni dei disumani attacchi terroristici che interrompevano nel sangue la tranquilla quotidianità di una giornata al mercato- nei primi giorni avevo provato una sorta di delusione che non confessavo a me stesso, quasi vergognandomene.

Partito ingenuamente con il desiderio di incontrare l’Oriente, mi ero trovato davanti a un paesaggio brullo e anonimo, una pianura sconfinata cosparsa di un’erba debole e rada e minacciata da un terreno già aspro e pietroso di suo e  punteggiato qua e là di macerie e calcinacci che rendevano la scena ancora più straniante, un misto di natura arida e spennacchiata e brani di inferno post-industriale.  In lontananza vedevo le montagne dell’altopiano iraniano, anch’esse impressionanti per la loro nudità povera d’alberi e priva dei paesini abbarbicati sui pendii che punteggiano di umanità i monti italiani. Al posto dei paesini, conurbazioni improvvise e sterminate di geometriche case-cubo separate da stradoni popolati di auto di grossa cilindrata e molti SUV. Case in qualche caso dotate di un velo superficiale di decorazione orientale ma tutte appartenenti all’impersonale esplosione edilizia iniziata negli anni ’50 del secolo scorso e che vediamo anche in Occidente.

L’aspettativa di paesini medievali popolati di fantasie del Saladino o delle Mille e una notte non poteva che andare delusa. La Mesopotamia, a cui appartiene il Kurdistan Iracheno che risiede nel territori degli antichi Assiri che abbiamo studiato a scuola, ha una tradizione millenaria di costruzioni di mattoni d’argilla che non durano niente. O di tende, dove vivono i pastori nomadi beduini. Nulla di paragonabile alle solide case di pietra dei nostri centri storici. Arrivata l’edilizia moderna, il passato è svanito, eccetto il caso naturalmente dei palazzi dei potenti, peraltro piuttosto rari; non mi è capitato di incontrarne nemmeno uno. Mi dicono che ci sia qualcosa del genere nella millenaria città di Erbil, ma non c’è stato tempo di visitarla

Quindi un vero centro storico può esserci solo nelle grandi capitali che ospitavano i governanti dei vari imperi succedutisi nella regione (è il caso di Erbil), mentre i villaggi e le grandi conurbazioni più recenti risultano singolarmente conformati all’architettura popolare contemporanea. A questo si aggiunge la politica terribile di deportazione di Saddam Hussein, che nei tardi anni ’80 rase al suolo circa 4200 piccoli paesini curdi concentrando la popolazione rurale nelle attuali sconfinate conurbazioni, meglio controllabili e bombardabili.

È anche vero che però l’atmosfera, pur desolata (e lo diventava ancor di più la sera, con questi stradoni amplissimi popolati di SUV, in un buio lugubre rotto dalle luci fioche dei lampioni e dei fanali delle auto) non era degradata. Certo, un’immensa periferia, ricca di aiuole un po’ spelacchiate e cosparsa di qualche calcinaccio proveniente da misteriosi cantieri, che non era però mai sporca e mai diroccata e in fondo nemmeno mai disumana. Sicuramente lontanissima dalle fantasie orientali banalmente disneyane che mi ero concesso: vicoli di città arabe in cui incontrare Aladino e i quaranta ladroni. No, nulla di questo in Kurdistan. Insomma, speravo di incontrare il ladro di Baghdad nei calli e invece percorrevo in auto una sconfinata Quarto Oggiaro con stradoni ampi come quelli di Los Angeles.

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E poi è arrivata la realtà, più interessante e dolorosa di vita delle fantasie e delle aspettative turistiche. E la realtà sono i racconti terribili dei casi clinici che ho supervisionato. I colleghi curdi sono ben preparati anche se, come talvolta accade, bisognosi di pratica invece che di lezioncine teoriche che già conoscono bene e che noi occidentali negligentemente somministriamo; errore che spesso fanno anche americani e nordeuropei quando vengono in Italia, raccontandoci di nuovo una storia che già conosciamo.

Mentre facevo esercitare i colleghi curdi a più non posso in varie tecniche di colloquio psicoterapeutico, ascoltavo storie tremende. Le peggiori erano quelle di doppia violenza, in cui donne o bambini, dopo aver subito la cieca brutalità dell’ISIS, dovevano anche subire il potere assoluto delle costrizioni sociali del clan. Era il caso di vittime provenienti da un ambiente non urbano ma da piccoli villaggi in cui -a quanto pare- vige ancora una società gerarchica e autoritaria organizzata per ordini sociali e tribali e dominata da sceicchi, capifamiglia e boss di vario genere.

La forma più efferata di violenza era il caso in cui una donna, violentata nel corso di un attacco dell’ISIS, si ritrovava poi a essere marchiata di disonore all’interno del clan. Come ho scoperto nel corso delle mie supervisioni, lo scenario peggiore era paradossalmente quello riservato alle donne di condizione più elevata, alle figlie di un capo, di un grande sceicco. In uno schema che diventava quasi marxista, venivo a scoprire che il problema non era propriamente lo stupro ma la classe sociale del violentatore ISIS, spesso bassa.

L’ISIS è ricco di marginali di vario tipo, ex soldati dell’esercito di Saddam rimasti improvvisamente senza lavoro e senza ruolo sociale, giovani che a vario titolo vivono con ostilità e senso di frustrazione il processo di urbanizzazione e modernizzazione e infine figure di esclusi o anche solo di secondo rango nella scala sociale della società tribale, tutta gente che trova nell’egualitarismo millenarista del fondamentalismo islamico un riscatto.

Scoprivo così man mano un canovaccio in cui il fenomeno delle donne che si uniscono ai peshmerga combattendo in prima persona finiva per assumere a sua volta un nuovo significato; non si trattava solo di combattere l’ISIS ma anche -per molte donne e non solo- di uscire fuori da un destino controllato dal clan, in cui non vi era scelta se non attendere il matrimonio già combinato e tra consanguinei all’interno del clan.

Tra tutte le storie ascoltate alcune erano particolarmente dolorose per l’intreccio di tragedia familiare e sciagura militare che raccontavano. Le storie in cui, ad esempio, il clan era così spietato per cui si decideva che la ragazza violentata era ormai irrimediabilmente marchiata e andava uccisa. E il caso più nauseante e traumatico era quando il clan decideva che, per sfuggire un eventuale problema con la legge, a uccidere la donna violentata dove essere un’altra donna del clan, a volte perfino la sorella.

Chiaro che, a queste condizioni, molti finiscono per approfittare della guerra per fuggire la presa della tribù. In alcuni casi questo percorso è particolarmente chiaro: nelle file del PKK, il  Partito dei Lavoratori del Kurdistan, è espressamente richiesto che la recluta rinunci a tutti i suoi legami familiari. Quella che può sembrare una pretesa strana e inutilmente settaria, una sorta di adesione monastica forse frutto della storia rivoluzionaria del PKK, assume un senso: la famiglia è il clan, una struttura sociale forte e pervasiva incompatibile con la militanza nel PKK.

Man mano che ascoltavo questi racconti gli eventi assumevano un significato sempre più inquietante e terribile. Qual era dunque il male peggiore? I massacri perpetrati da Saddam e dall’ISIS o l’oppressione arcaica del clan? Era mai possibile che queste donne avessero trovato nella distruzione del tessuto tribale una via di fuga a un destino senza alternative? E chi erano questi uomini così oppressivi e patriarcali?

E anche l’impressione inizialmente negativa del paesaggio urbano curdo si attenuava. Ora quelle immense città, quelle interminabili distese di casette disperse tra stradoni immensi affollati di automobili nutrite di benzina a bassissimo costo (quante pompe di benzina avevo visto lungo le strade? Tantissime, spesso a conduzione familiare; rivenditori di benzina comprata direttamente dalle raffinerie vicine ai pozzi petroliferi come un fruttivendolo di campagna che vende frutta comprata direttamente dal contadino) che mi erano parse così stranianti ora diventavano paradossalmente speranzose. Erano comunque una promessa di vita urbana e di autonomia individuale in cui realizzarsi umanamente per chi era cresciuto nella prigione patriarcale del clan.

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Tutti i precedenti pensieri sui mali della modernizzazione, tra Marx e Pasolini, ora mi parevano il lusso occidentale di qualcuno che, come me, da turista pretendeva l’Apriti Sesamo del racconto di Aladino e invece si trovava di fronte a casette e automobili non diverse da quelle viste a casa propria. Una borghesia ancora in transizione, certo, con strane commistioni strapaesane e stracittadine mescolate assieme.

Il centro di Sulaymaniyah è un enorme mall commerciale all’americana, un luogo a più piani con cinema, negozi e locali che di orientale non hanno nulla se non la musica e i narghilè (che ho molto gradito, specialmente quelli alla mela). Allontanandosi dal centro la periferia diventa più desolata e scalcinata, con locali e bar sempre più radi e spogli che, come spesso accade in queste città dell’oriente, si riducono a stanzoni freddi e disadorni con fredde piastrelle di un bianco sanitario ai muri, un bancone di metallo grigio e sedie di plastica prive di ogni calore e accoglienza. Talvolta trovavo brandelli di decorazioni musive a tasselli di maiolica che danno l’idea di cosa potrebbe essere un bel bar in oriente.

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Però il cibo servito, carne allo spiedo, riso e focacce arabe, è sempre gradevole e igienico. Soprattutto non vi è sporcizia, ma un dignitoso decoro. A Sulaymaniyah la maggior parte delle persone è in jeans, camicia e giacca, e anche questo può deludere: vedere tutti in questo costume da giovani occidentali casual. Però non ho visto scene di miseria e disperazione. A Erbil ho visto più di frequente persone con le larghe brache orientali che possono estendersi in alto fino alle spalle e diventare una tunica fissata al centro da una grande fascia di differente colore intorno alla vita. Non ho mai visto neanche i caffettani degli arabi, a quanto pare non usati dai curdi. Le donne portano tutte vestiti occidentali e il velo, combinazione a mio parere non indovinatissima che le invecchia. Forse è il loro modo di gestire l’inevitabile fastidio di una modernità abbracciata ma non fatta propria, la sensazione di scimmiottare gli americani tenuta a bada da un dettaglio che afferma un’identità locale: appunto il velo. Ma il limite di queste contraddizioni sparisce davanti al doppio trauma della guerra dell’ISIS e dell’oppressione tribale.

Anche la vita economica di queste immense conurbazioni curde non mi è parsa povera. Oltre al gran numero di automobili, anch’esse ben tenute e non sgangherate come vorrebbe la retorica della povertà, ho visto molti negozi di tessuti, di narghilè, di utensili vari  e piccoli supermercati che vendevano prodotti alimentari e anche alcolici, nonché numerosi parchetti con aiole e giochi all’aperto per bambini. Accanto a ciò, rimangono poi le abitudini della vita di villaggio in una strana convivenza con la vita urbana. Ad esempio, invece che intrattenersi nei locali la gente preferisce sedersi in cerchio sui marciapiedi su un tappeto steso sorseggiando tè e sfumacchiando. Questo accade non solo in periferia, dove i locali non ci sono, ma anche vicino il centro, magari proprio di fronte a un locale.

Alcuni giorni dopo, però, anche questa visione negativa dei patriarchi curdi era destinata a sua volta a modificarsi. Su insistenza dei miei ospiti, ho visitato il museo Amna Suraka, sempre a Sulaymaniyah. Si tratta di un’ex caserma usata dalla polizia di Saddam Hussein per imprigionare e torturare attivisti e ribelli curdi. Il momento di massima attività di questo luogo di torture è stato dal 1986 al 1991, anno in cui la prima rivolta curda portò alla chiusura del luogo. Oggi è un museo, ed è una visita impressionante. Ho visto stanze buie e lugubri, in qui in poche decine di metri quadrati erano detenute fino a quaranta persone.

In molte di quelle stanze sono stati chiusi importanti leader curdi, non solo comandanti militari di provenienza cittadina e d’avanzata ideologia politica liberale e progressista, ma anche capiclan tribali provenienti dai villaggi rasi al suolo da Saddam. Quegli stessi capiclan che mi erano apparsi ottusi e crudeli nei racconti delle donne da loro oppresse ora qui diventavano coraggiosi condottieri del popolo curdo detenuti per mesi in celle orribili e torturati nelle maniere più raccapriccianti, come il medievale tratto di corda, la tortura che consiste nel appendere e issare il prigioniero con una lunga corda fissata ai polsi dietro la schiena, il peso del corpo venendo così a gravare tutto sulle giunture delle spalle che si slogano. La conseguenza è una storpiatura permanente.

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Dopo la rappresentazione delle torture, la visita al museo continua con una mostra sulla vita di villaggio nelle campagne curde. Ho visto esposti i loro vestiti da cerimonia più lussuosi e una riproduzione della casa di un villaggio, un unico stanzone in cui viveva l’intera famiglia, con tappeti e mobili stavolta ricchi di decorazioni orientali. Un’altra stanza rappresentava il luogo dedicato all’attività di filatura delle donne, unico loro ruolo autonomo e riconosciuto accanto all’allevamento dei figli e unica loro attività economica.

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Il museo dava una rappresentazione idealizzata della vita di villaggio, con fotografie di matrimoni e di feste di villaggio. Comprensibile, anche perché quella vita era stata spazzata via dalla furia di Saddam Hussein; ma ormai il mio occhio era stato disingannato dai racconti dei delitti di onore perpetrati a danni delle donne, e avevo poca voglia di avere pena per un mondo arcaico, anche se al tempo stesso provavo maggiore orrore per i massacri di Saddam.

Se però la modernizzazione di Saddam era orribile, quella spontanea dell’urbanizzazione ora mi pareva forse poco estetica e poco romantica, ma non terribile e sicuramente preferibile alla realtà oppressiva della vita del clan, malgrado l’idealizzazione che ne faceva il museo. E molto migliore poi dell’oppressione politica e totalitaria di Saddam e dell’ISIS. Triste poi apprendere che i torturatori di Saddam erano stati formati da istruttori sovietici.

Insomma, in Kurdistan ho visto congiungersi i fantasmi del ‘900: la goffaggine antiestetica della modernizzazione consumista, l’orrore totalitario, il rigurgito identitario fondamentalista e l’oppressione della vita arcaica. E chi ne usciva meno peggio era la banale modernità consumista.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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