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Psicologia virtuale: il mio terapeuta è un computer! Nuove tecnologie nell’assessment e prospettive future

Insonnia e ansia si possono combattere con un'app? Ci saranno mai programmi di psicologia virtuale in cui il terapeuta verrà sostituito da una macchina? 

Di Andrea Arrigoni

Pubblicato il 10 Feb. 2016

Aggiornato il 03 Set. 2019 15:03

Possiamo sostituire lo psicologo, inteso come un essere umano dotato di strumenti e nozioni, con la sua sola funzione, separandola dall’uomo stesso, attraverso dei servizi di psicologia virtuale?

Andrea Arrigoni – Open school Psicoterapia Clinica e Ricerca 

E’ da poco disponibile Pavlok: un braccialetto elettronico che promette di far scomparire i nostri comportamenti sgraditi e sostituirli con altri più accettabili. Come il nome stesso suggerisce si tratta di una piccola macchina per elettrocuzione portatile. L’apparecchio, che si presenta nero e con una grande saetta gialla sul dorso, è bluetooth, e tramite una app sullo smartphone, è possibile dosare le scosse a seconda di quali sono le abitudini, vizi o dipendenze che vogliamo perdere.

Il fatto che un prodotto come questo possa essere stato concepito fa pensare che vi sia una notevole attenzione alla salute mentale, che questa domanda sia sempre più precisa ed i potenziali pazienti, sempre più (non sempre meglio) informati. Un buona testimonianza di ciò sono il numero e la varietà crescenti di app dedicate alla salute mentale, negli store online di Apple e Android. Se ne possono trovare molte con la funzione di diari emotivi, più o meno affidabili che hanno l’obiettivo di tenere traccia del proprio umore e delle proprie emozioni nel tempo, osservabile poi sotto forma di grafico.

Psicologia Virtuale: le ultime app

Con un altro obiettivo troviamo ‘Self-help Anxiety Management‘ che è stata sviluppata presso la University of the West of England da un team multidisciplinare di psicologi ed informatici e offre servizi di psicologia virtuale (anche detta cyberpsicologia), attraverso psicoeducazione e strumenti pratici, per es. esercizi quotidiani, per aiutare a tenere sotto controllo l’ansia e perfino sostenere al bisogno la persona durante un attacco di panico.

Il Centro Italiano Studi Mindfulness ha recentemente curato l’edizione per il nostro paese di ‘Mindfulness‘, che contiene strumenti per la pratica quotidiana con firme (o meglio ‘voci’) di rilievo come quella dello stesso Jon Kabat-Zinn. Nel negozio online di Apple è possibile trovare anche Sleepio, che si presenta come una app contenente tecniche CBT per la terapia dell’insonnia e che addirittura è in formula di abbonamento.

Proprio come detto poc’anzi, questo ci rimanda alla tendenza, precedentemente sottolineata, all’auto-medicazione psicologica.

Di natura molto diversa, sempre in tema di psicologia virtuale, è ciò che è stato concepito presso l’Institute for Creative Technology di Los Angeles ed è molto più di una app per lo smatphone o di un braccialetto: si chiama Ellie ed è un Virtual Human (o VH). Un sistema in grado di comunicare con una persona in un vero dialogo, e nel contempo rilevare segnali di distress emotivo dalla postura, dalle espressioni facciali e dal parlato della persona, fino a condurre ad una eventule diagnosi.

Essendo stata finanziata dalla ricerca militare, pensando quindi soprattutto ad un’utenza di reduci, le diagnosi cui il sistema è in grado di condurre, sono di disturbi dell’ansia, dell’umore e di disturbo post-traumatico da stress. I suoi creatori hanno pensato di dotare il sistema di un avatar: una rappresentazione grafica animata con la CGI della terapeuta che conduce il colloquio seduta su una poltrona, in modo da offrire alla persona un esperienza vicina a quella reale.

Si tratta anche in questo caso di uno strumento di psicologia virtuale, solo molto più completo avanzato ed autonomo di una app, proprio in quanto apre alla macchina le porte della diagnosi che fino ad ora era compito delle persone, fossero queste professionisti della salute mentale o gli utenti stessi.

I benefici della psicologia virtuale

Da una meta-analisi della letteratura in merito, Weisband e Kiesler (1996), affermano che comunicare con un computer offra benefici alla raccolta di informazioni in fase di assessment, in quanto le persone che interagiscono con questi sistemi di psicologia virtuale, possono contare sul fatto che chi riceve le loro informazioni non è un essere umano, facendo sì che la persona senta meno pressante il giudizio sociale rispetto a quanto dovrà dire. I creatori della macchina riprendono proprio questa idea, nello sviluppare Ellie come VH da impiegare nella sanità come strumento di assessment.

Per sperimentare l’effetto che la percezione della mera presenza di un osservatore (mere presence) o della convinzione che l’osservatore giudichi direttamente le loro risposte (mere belief), il team ha sottoposto un campione di 239 individui (149 maschi e 90 femmine di età compresa tra i 18 ed i 65 anni) a colloqui con un avatar (SimSensei). Ai partecipanti veniva detto che avrebbero affrontato una seduta di assessment con un avatar su di uno schermo. Per alcuni si trattava di un Virtual Human e dunque avrebbero interagito con una macchina, mentre per i restanti l’avatar era controllato a distanza da un essere umano (condizione chiamata ‘Wizard of Oz’). I soggetti sperimentali potevano così trovarsi davanti ad un pupazzo elettronico, governato quindi da un vero clinico, pensando che fosse tale o meno, oppure interagire con il VH, anche in questo caso, consapevoli o inconsapevoli della sua natura. In tutti i casi i colloqui avvenivano alla sola presenza dell’avatar, per evitare le conseguenze derivanti dalla presenza di una persona nella stanza (mere presence). Confermando quanto previsto nelle ipotesi, i risultati mostrarono una maggiore self-disclosure nel momento in cui i partecipanti pensavano di avere a che fare con un Virtual Human, che fosse realmente così meno.

 

Possibili effetti della psicologia virtuale

Giunti a questo punto, la domanda è: possiamo sostituire lo psicologo, inteso come un essere umano dotato degli strumenti della psicologia, con la sua sola funzione, separandola dall’uomo stesso attraverso una forma di psicologia virtuale? In questo senso, in fondo, le funzioni umane che vengono affidate alle macchine diventano sempre più complesse, a partire dal primo telaio meccanizzato, fino ad arrivare ai giorni nostri, dove assistiamo alla comparsa di camion capaci di guidarsi da soli, trasformando notevolmente il ruolo del conducente in un supervisore del viaggio e lasciando che la macchina si faccia carico di funzioni prima prettamente umane.

Rivolgiamo lo sguardo al futuro e proviamo ad immaginare un ‘iShrink‘. Potrebbe essere incluso un casco per la realtà virtuale, tramite il quale il paziente potrebbe tornare al setting con il suo terapeuta-avatar. In questo senso, la ricerca sull’uso della realtà virtuale in ambito clinico è ricca (Vincelli, Riva e Molinari, 2007) e si potrebbero affrontare disturbi come fobie o attacchi di panico, ad esempio tramite desensibilizzazione in un ambiente controllato che si pone a metà strada tra lo studio del terapeuta, sicuro ma lontano dal reale, ed il mondo di tutti i giorni, dove si sacrifica il senso di protezione in favore del realismo.

Il terapeuta-avatar potrebbe essere generato automaticamente nell’aspetto fisico e nel nome, in modo da far sì che non ci siano due pazienti con lo stesso terapeuta e creare un senso di unicità del proprio percorso terapeutico. Potrebbe trattarsi di un servizio di psicologia virtuale in abbonamento come Sleepio o l’utente potrebbe pagare la seduta virtuale con lo smartphone a prezzi concorrenziali. Come si vede fare a Siri, l’assistente elettronico di Apple, iShrink potrebbe sfruttare le informazioni ottenute dalla totalità dei suoi utenti per creare una sorta di esperienza e diventare sempre più precisa e realistica nell’interazione. Potrebbe aggiornarsi automaticamente e offrire al paziente il trattamento più moderno, con un terapeuta oggettivo, imparziale, che non si ammala mai e che non risente mai di una brutta giornata. Si tratta di un volo pindarico ma possiamo chiederci quanto sia grande la distanza che ci separa da una simile innovazione se ci chiediamo cosa deve fare un terapeuta, o meglio: quali sono le caratteristiche della funzione del terapeuta che la psicologia virtuale dovrebbe sostituire?

Possiamo provare a identificare queste funzioni con: la capacità di ascoltare in maniera non giudicante, utilizzare queste informazioni inserendole in quadro che permetta di affrontare il disturbo tramite la diagnosi e la conoscenza di tecniche terapeutiche, ed infine la costruzione di una relazione che si ponga come cornice stabile sia in senso supportivo sia come strumento di sperimentazione interpersonale.

Psicologia virtuale e l’ascolto non giudicante

Per ciò che attiene la prima parte di questo abbozzo di definizione, l’ascolto non giudicante, come si è visto in precedenza, la macchina ha di per sé il pregio di essere concepita come tale dalla persona che vi interagisce, favorendo l’apertura (disclosure) e dunque la raccolta delle informazioni (Weisband e Kiesler 1996). Per lo psicoterapeuta che conduce l’assessment o la terapia, il giudizio è sospeso e questo stato di sospensione va segnalato e talora ricordato al paziente mentre per la macchina e per la psicologia virtuale il giudizio è impossibile, proprio in quanto non umana.

Psicologia virtuale e conoscenze

La seconda parte da trattare attiene alla conoscenza della materia, con la diagnosi e le tecniche di trattamento. Suddividendo ulteriormente e soffermandoci sulla diagnosi, Ellie ha già dato prova di essere uno strumento di psicologia virtuale utile, specialmente tenendo conto che riesce ad acquisire informazioni da molti canali contemporaneamente, senza privilegiarne uno in particolare. Un essere umano, d’altro canto, non è in grado di mantenere costantemente ed equamente distribuita l’attenzione su ogni canale, tenendo conto che tra i vari input ci sono anche i suoi stessi pensieri, come ipotesi di diagnosi, aree da approfondire, esperienze pregresse e così via. La macchina può indubbiamente beneficiare di una precisione notevole e di una conoscenza della materia che è completa quanto può esserlo un preciso elenco di istruzioni dato ad un sistema che per sua natura non dimentica ne tralascia mai nulla di quanto sa o quanto vede.

Tuttavia, parte rilevante del bagaglio di informazioni necessarie per accogliere e successivamente rielaborare ciò che un paziente comunica ha a che fare con l’esperienza e, anche conseguentemente, con l’intuizione e queste doti, almeno allo stato attuale, rimangono squisitamente umane. Inoltre dobbiamo tenere presente che è comunque l’uomo a stabilire cosa la macchina debba cercare e cosa ignorare e come mettere insieme le informazioni entro una cornice che abbia senso per il paziente quanto per i professionisti che se ne occupano.

Psicologia virtuale e relazione terapeutica

Infine il terzo elemento del nostro tentativo di definizione ha a che vedere con la sfera interpersonale. Esiste letteratura riguardante la capacità dell’uomo di provare emozioni o empatia verso oggetti non umani. E’ questo il campo di lavoro dell’affective computing: comprendere come si sviluppino legami emotivi con sistemi informatici che vanno oltre il mero utilizzo degli stessi. Sul grande schermo, il film ‘Her‘ ipotizzava proprio la possibilità, invero neppure troppo remota, di provare emozioni complete verso un’entità non umana. La relazione che si instaura tra paziente e terapeuta è però qualcosa che va al di là del semplice sperimentare emozioni verso un oggetto ed ha a che fare con il concetto di alleanza terapeutica.

E’ questo un altro vasto argomento che potrebbe aprire a lunghe dissertazioni in campo di psicologia virtuale, ma mi limiterò ad avvalermi della definizione proposta da Safran e Muran (2000) per far luce su questa parte della nostra domanda. Per gli autori, l’alleanza si crea nella negoziazione interpersonale tra paziente e terapeuta e comporta una serie di momenti di rottura e di riparazione nella relazione. Queste rotture possono essere più tendenti al ritiro, con un minore investimento ed una minor partecipazione, o possono essere caratterizzate da confronto. Nel colmare queste rotture il paziente verifica anche come una relazione momentaneamente indebolita possa a tutti gli effetti essere migliorata, e così la relazione col terapeuta assume anche la funzione di spazio di sperimentazione di sicurezza nelle relazioni. Detto in altri termini, questa relazione diventa una nuova esperienza di attaccamento.(Schore e Schore, 2008)

Tornando alla macchina e al futuro della psicologia virtuale, sappiamo che è possibile provare emozioni verso di essa, rimanendo tuttavia consapevoli della sua natura, ma viene da chiedersi quanto un sistema complesso come un Virtual Human possa far sperimentare rotture e riparazioni relazionali come esperienza terapeutica per il paziente e, dall’altro lato, quanto un paziente possa essere motivato alla riparazione della relazione se si tratta di una relazione che almeno in una direzione, è frutto di simulazione. Provare emozioni in modo unidirezionale verso una macchina potrà mai essere paragonato ad una relazione di attaccamento?

Come visto in precedenza (Lucas, Gratch, King, Morency 2004) il fatto di pensare di stare interagendo con un essere umano pone tutte quelle questioni (apertura, onestà e desiderabilità sociale) che mettono a rischio la raccolta di informazioni, così importante nel lavoro psicoterapeutico, ma forse è proprio questa una delle qualità più importanti della relazione terapeutica. Il paziente tende a pensare di essere giudicato e può esserci molto che non dice per timore di essere percepito negativamente, e il compito del terapeuta è saperlo e, nel contesto di una relazione sicura, riuscire a superare questa eventuale empasse. Il terapeuta è un essere umano, che può sbagliare e tentare di porre rimedio ai propri errori proprio garantendo quell’imperfezione che crea relazione.

Giunti a questo punto viene da chiedersi non solo quale sarà il futuro di questa macchina e di quelle che verranno dopo di lei, ma anche quale possa essere il futuro dello psicologo in un mondo che si avvale di strumenti sempre più complessi. Anche sotto le pressioni economiche, arriveremo mai a veder sostituito lo psicologo (un essere umano in possesso di competenze) con uno strumento, una mera funzione esecutiva?

Forse un giorno la psicologia virtuale consentirà di fare terapia nel proprio soggiorno, con un casco per realtà virtuale ed un tablet e la terapia ‘vecchia maniera’ verrà apprezzata come oggi si apprezzano i prodotti fatti mano. Prima che quel giorno arrivi converrà tenere d’occhio Ellie, le sue figlie e le sue nipoti.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bazzan, A., & Intelligence, A. (2014). Proceedings of the 2014 international conference on Autonomous agents and multi-agent systems (pp. 85-92). [S.l.]: International Foundation for Autonomous Agents and Multiagent Systems.
  • Lingiardi, V., & Colli, A. (2010). L'alleanza terapeutica nella terapia psicodinamica. PSICOBIETTIVO, 1, 32-58. doi:10.3280/PSOB2010-001003
  • Lucas, G., Gratch, J., King, A., & Morency, L. (2014). It's only a computer: Virtual humans increase willingness to disclose. Computers In Human Behavior, 37, 94-100. doi:10.1016/j.chb.2014.04.043
  • Riva, G. (2004). Psicologia dei nuovi media. Bologna: Il mulino.
  • Rosenthal-von der Pütten, A., & Krämer, N. (2013). Humans feel empathy for robots: fMRI scans show similar brain function when robots are treated the same as humans. ScienceDaily. Retrieved 27 August 2015, from http://www.sciencedaily.com/releases/2013/04/130423091111.htm
  • Schore, J. R., & Schore, A. N. (2008). Modern attachment theory: The central role of affect regulation in development and treatment. Clinical Social Work Journal, 36(1), 9-20.
  • Vincelli, F., Riva, G., & Molinari, E. (2007). La realtaÌ€ virtuale in psicologia clinica. Milano: McGraw-Hill.
  • Weisband, S., & Kiesler, S. (1996). Self disclosure on computer forms. Proceedings Of The SIGCHI Conference On Human Factors In Computing Systems Common Ground - CHI '96. doi:10.1145/238386.238387
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