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It’s never over, Jeff! – L’arte di Jeff Buckley

Un artista come Jeff Buckley offre a chi lo ascolta un’importante occasione di conoscenza profonda dei propri stati emotivi.

Di Emanuela Calisi

Pubblicato il 04 Feb. 2016

Aggiornato il 08 Mar. 2016 16:19

Buckley ha qualcosa nella voce e nell’interpretazione dei suoi brani che vi sfido a trovare in altri.

 

Jeff Buckley nasce il 17 novembre, e già questo è un dato curioso: secondo varie credenze popolari, sia il giorno che il mese in questione, non sono proprio di buon auspicio. Se poi pensiamo che questo giovane e misterioso cantautore si è spento a soli 30anni, annegando di sua spontanea volontà lungo un affluente del fiume Mississippi, ci rendiamo conto della presenza di un’anima molto più che fragile.

Se non avete ancora ascoltato ‘Grace’, il suo unico disco completo, vi invito a farlo. Non è un album qualunque: non parla di amore, né di sofferenza, né di nostalgia. E’ un viaggio sensoriale verso la parte più emotiva di voi stessi, quella meno esposta che tenete ben nascosta da tutto il resto, e che non avete nessuna intenzione di mostrare al mondo.

Questo è stato reso possibile grazie all’associazione di molti fattori: Jeff era figlio d’arte (il papà era Tim Buckley), e nonostante la morte prematura del padre, fu indiscutibilmente portato per la carriera musicale; un’infanzia difficile e solitaria che lo resero un ragazzo vulnerabile e fortemente sensibile; l’amore per una donna e la fine di una storia, che portano spesso l’essere umano ad un viaggio introspettivo, alla messa in discussione di sé stessi.

Ma queste sono caratteristiche facilmente trovabili in qualsiasi cantante maledetto, vocalmente dotato, reso ancora più accattivante dall’abuso di alcool e droghe; Buckley figlio però ha qualcosa nella voce e nell’interpretazione dei suoi brani che vi sfido a trovare in altri.

Basta ascoltare il respiro iniziale della sua canzone più nota, la cover di Leonard Cohen ‘Hallelujah‘, quel sussulto prima che le corde della chitarra prendano vita, accompagnando l’immensità della sua vocalità; per non parlare di ‘Lover, you should’ve come over‘ che rappresenta con parole eccezionali l’amore puro.

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Jeff Buckley, Hallelujah

 

Io sostengo la musicoterapia, intesa come quella disciplina che attraverso la musica, permette di comunicare i propri pensieri in maniera alternativa; non occorre essere compositori, ma anche semplicemente ascoltando una singola canzone, possiamo avvertire emozioni, intese proprio come sensazioni fisiche e psicologiche intense. Un artista come Jeff Buckley offre a chi lo ascolta un’importante occasione di conoscenza profonda dei propri stati emotivi.

Non serve essere musicisti o cultori del genere per apprezzare le doti di Jeff Buckley: mi viene in mente Massimo Troisi, nel film ‘Il postino’, quando discutendo con Pablo Neruda sul ciglio della porta, lo accusa di averlo fatto innamorare di Beatrice, che sia tutta colpa delle sue composizioni, esclamando: ‘La poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve‘.

E aveva ragione quel postino impacciato: l’arte tutta ‘è di chi gli serve‘, e siamo in tanti quelli a cui serve ancora la musica e il genio di questo giovane ragazzo, che ha messo fine alla sua vita terrena, ma ha reso immortale quello che portava dentro.

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Emanuela Calisi
Emanuela Calisi

Laureata in Psicologia Clinica e della Salute presso l'Università G.D'Annunzio in Chieti. Residente a Roma.

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