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Le cattive abitudini e i comportamenti automatici – Ciottoli di psicopatologia generale nr. 6

Perseverare in comportamenti dannosi e cattive abitudini potrebbe essere un modo per evitare i rischi e i costi derivanti dal cessare quel comportamento. 

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 22 Feb. 2016

Per spiegare l’ottuso perseverare in comportamenti dannosi riconosciuti tali dal soggetto stesso devo rifarmi al bias della fallacia dei costi irrecuperabili (sunk cost bias) che ci fa insistere in imprese fallimentari solo perché ormai vi abbiamo investito molto e ritirarsi sarebbe ratificare le dolorosissime perdite.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE (RUBRICA) – LEGGI L’INTRODUZIONE

 

Un primario tra i più bravi del mio dipartimento di salute mentale mi spiegò come fosse riuscito ad attraversare praticamente indenne dalle punizioni dei superiori, costante minaccia alle libere uscite ed alle agognate licenze, il servizio militare di leva con due frasi standard che suonavano pressappoco così “ Abbiamo sempre fatto così” e “non abbiamo le chiavi, che se l’è portate il maresciallo che sta in ferie”. Col tempo pensai che fossero più in generale due passpartout per attraversare indenni la vita stessa.

Le abitudini, quali che siano, meritano una piccola riflessione. Quelle buone normalmente sgradevoli o faticose nell’immediato che cercano di inculcarci sin da piccoli e quelle cattive, piacevoli e scoperte autonomamente, che tentano di estirparci come un molare inguastito chiamandole vizi e disegnando scenari apocalittici a cui ci condurrebbero inevitabilmente. Sono un abitudinario egosintonico. Le abitudini ci consentono un enorme risparmio di energie, riducendo la necessità di dover ogni volta scegliere e la responsabilità connessa. L’abitudine diventa un automatismo irriflesso, come cambiare le marce per chi sia un esperto pilota, che lascia libera la mente per i compiti più nobili facendo persino a meno dell’attenzione, tutto scorre automaticamente liscio come l’olio.

Naturalmente fino a che gli scenari non cambiano e nasce la fatica di cambiare abitudine e con il cambio automatico (pure quello automatico) bisogna smetterla di schiacciare a fondo la frizione prendendo il pedale del freno col rischio di tamponamenti. Le abitudini sono un modo per mandare in vacanza il cervello, nel bene e nel male. Esagerando e con una punta di velenosa polemica mi azzardo a dire che il gran successo che nel nostro campo hanno avuto i protocolli trova radici nello stesso motivo di festività corticale.

Ma ti pare ogni volta cercare di capire il particolare modo di funzionare e di soffrire della persona che ho di fronte e ritagliare una terapia a sua precisa misura? Ma quanto mi costa? Vuoi mettere avere un modello standard, inquadrato grosso modo il tipo (brevilineo, longilineo, alto, basso, secco o grasso) e semmai fare qualche ritocchino. Vi starete spazientendo per il mio girare in tondo senza andare al centro del problema per cui è utile ragionare sulle abitudini. Rimedio subito.

 

Le abitudini e la genesi della sofferenza

Credo che le abitudini abbiano un ruolo decisivo se non nella genesi perlomeno nel mantenimento della sofferenza, ed uno, ancora più nefasto, come causa di quelle che universalmente chiamiamo “resistenze” . Brillante concetto condiviso da tutte le scuole e i diversi orientamenti teorici in quanto ci permette di ribaltare sul paziente la responsabilità dei nostri fallimenti. Ho provato ad ampliarlo per applicarlo anche agli insuccessi esistenziali personali espellendo lontano il cosiddetto “locus of control” e funziona davvero ma purtroppo si chiama paranoia. Ma una cosa per volta.

La genesi di un comportamento problematico va, a mio avviso, distinta dal suo reiterarsi e mantenersi. Si inizia a fumare per sentirsi grandi e conquistare la moretta del primo banco ma poi si continua a farlo anche nei bagni della casa di riposo sfuggendo alla caposala moldava quando si darebbe metà del trattamento di fine rapporto di tutta la vita lavorativa per avere qualche anno di meno. Si inizia a bere per distrarsi dall’ansia di una brutta figura ma si continua a farlo quando essere alcolisti è l’unica brutta figura che ancora riusciamo a fare. E pensate ad un ossessivo. Quando chiude tre volte tutti i cassetti della camera e accende e spegne 77 volte la luce ripetendo mentalmente la canzoncina che la madre gli cantava per addormentarlo non ricorda più perché lo fa. Se glielo chiederete vi dirà come il mio primario “abbiamo sempre fatto così” oppure “perché si! si fa così”. Anche per lui la chiave ce l’ha il maresciallo che è assente. Quel comportamento aveva un significato ben preciso che nel caso dell’ossessivo spesso è di prevenire una possibile colpa che porterebbe al suo ostracismo. Nel tempo è andato arricchendosi, complicandosi, imbarocchendosi, finendo per rendere oscuro il collegamento con lo scopo che lo aveva generato.

Tale scopo va recuperato e reso consapevole per poterci lavorare ma non meno importante è lavorare direttamente sul sintomo che è diventato una cattiva abitudine, il letto di un torrente pronto a riattivarsi ad ogni piena. Il sintomo da assuefazione. Penso ad esempio che alcuni assassini iniziano ad uccidere per i pesanti carichi genetici ed esperienziali che portano addosso ma poi possono diventare serial killer per le emozioni intense connesse all’uccidere che fungono da rinforzo. A Roma si direbbe “ce prendono gusto!!” Gli ossessivi sicuramente se la godono meno ma cosa sarebbe la loro vita se improvvisamente si liberassero dai rituali 7/8 ore al giorno?

Noi cerchiamo di motivare i pazienti al cambiamento presentandogli la guarigione come un guadagno ma loro sono più attenti per la sproporzione di sensibilità verso perdite e guadagni (doppia per le perdite) alla perdita che l’abbandono del sintomo comporterebbe e all’ignoto in cui li getterebbe. Molto più efficace è fargli costruire il sintomo come una perdita elencando i suoi costi diretti e indiretti. Meglio se in relazione allo stesso scopo o, più frequentemente, antiscopo al servizio del quale il sintomo era iniziato. Per restare sul nostro esempio l’ossessivo può vedere quanto il tempo dedicato ai rituali è sottratto a quella socialità che non vorrebbe perdere e ancora di più che la sintomatologia stessa, nata per essere perfetto e non ostracizzato diventa a sua volta motivo di imperfezione ed esclusione.

 

Sunk cost bias: la fallacia dei costi irrecuperabili

Per spiegare l’ottuso perseverare in comportamenti dannosi riconosciuti tali dal soggetto stesso devo rifarmi al bias della fallacia dei costi irrecuperabili che ci fa insistere in imprese fallimentari solo perché ormai vi abbiamo investito molto e ritirarsi sarebbe ratificare le dolorosissime perdite. Così si continuano a finanziare aziende decotte mettendo soldi buoni nella voragine. Più nel nostro piccolo, si legge un libro brutto solo perché lo si è comprato o si scia nella tormenta perché ormai abbiamo lo sky-pass. Si proseguono terapie che non danno risultati e, peggio, si mantengono relazioni affettive descritte come la causa prima di tutti i nostri mali solo perché ormai sono una infinità di anni che si sta insieme ed allora sarebbe stato tutto vano.

La regola con cui funzioniamo è quella che il piccolo principe descrive poeticamente dicendo che il valore della nostra rosa è dato dal suo valore in sé più tutti i sacrifici che abbiamo fatto per lei. Questo plus-valore cresce continuamente e paradossalmente è maggiore proprio per le imprese difficili e fallimentari che smuovono intense emozioni, per cui da esse è più difficile tirarsi indietro. La fallacia dei costi irrecuperabili è un forte elemento di stabilità utilissimo nelle relazioni parentali. Ogni genitore sa che più ha dovuto spendere per un figlio e più ciò lo rende importante. Se non fosse così molti piccoli rischierebbero il cassonetto.

 

Bandire la parola “ormai” e affrontare il problema per la prima volta

Contemporaneamente è un pesante fattore di mantenimento di dolorosi comportamenti disfunzionali. In questi casi è utile fare con il paziente una valutazione ex novo della partita in cui è impegnato valutando in sé lo scopo per cui si sta dando tanto da fare, depurandolo da quanto ci ha già investito. Personalmente bandisco dal vocabolario del paziente la parola “ormai” e gli chiedo cosa farebbe se si trovasse per la prima volta oggi di fronte al problema. Una volta che ha scelto mi impegno con lui in una discussione su cosa cambi il fatto che non sia la prima volta per evidenziargli l’irrazionalità del suo comportamento. Parallelamente mi impegno a cercare di ridurre il vissuto di colpa per aver sbagliato nel passato e a perdonarsi eventualmente secondo il motto latino per cui “errare è umano ma perseverare è diabolico”.

Per attenuare il senso di colpa è estremamente utile mantenere distinti la correttezza del processo decisionale su cui il soggetto, in genere valuta se stesso, dagli esiti effettivi della scelta che erano imprevedibili al momento in cui è stata compiuta. Posso fare la scelta giusta e cacciarmi nei guai o, al contrario sbagliare completamente scelta e avere successo. Sempre su questa linea di attenuazione del vissuto di colpa si può spiegare come i bisogni e i gusti cambino nel tempo e congruentemente con loro mutino anche le convinzioni sul mondo, su ciò che è bene e ciò che è male. Kahneman da pag 322 e seg. argomenta come con l’avanzare dell’età e il modificarsi della posizione sociale cambino le idee politiche e contemporaneamente le convinzioni sul mondo. Altrettanto avviene a chi diventa vegetariano o vegano o, più banalmente, si innamora.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

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