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Chi sono i buoni, i brutti e i cattivi del 2015? La psicologia dove si colloca?

La psicologia non è un sapere cattivo, ma è costituita da saperi parziali e fallibili, oggetto di revisioni e replicazioni. 

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 12 Gen. 2016

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 26/12/2015

 

L’anno finisce, ed è tempo di bilanci e di esami di coscienza. Com’ è andata nel 2015? Chi sono stati i buoni e i cattivi? La strega della psicologia, che ha giurisdizione su questi temi, che ci dice? Googlando “buoni” e “cattivi” e “2015” cosa esce fuori, accostando la parola “psicologia”?

In italiano è saltato fuori il solito dibattito sui videogiochi violenti, non si capisce se innocui, utili o dannosi. No, non è interessante. I cattivi sono quelli che continuano a rimuginare sui videogames invece di raccontare la favola di Pollicino e i suoi fratelli ai loro bambini. Una favola violentissima, leggere per credere. In inglese, dopo strani eventi e pubblicazioni che si intitolano al gioco di parole con il buono, il brutto e il cattivo (Sergio Leone è un meme irresistibile nell’anglofonia) trovo qualcosa di davvero interessante qui, dove si insinua il dubbio che la “cattiva” del 2015 sia proprio la psicologia.

È per caso la psicologia una “bad science”? Un gruppo di ricercatori ha ripetuto una serie di studi sperimentali risalenti al 2008 e solo i risultati di un terzo degli studi sono stati replicati. Risultato desolante, almeno apparentemente. La psicologia è una scienza che continua a essere inaffidabile e poco esatta in un mondo ormai dedito a saperi precisi e inesorabili? Non è così semplice. Il risultato è desolante solo per chi si è nutrito dell’epica di Popper e del metodo scientifico, sempre riproducibile e falsificabile a volontà. La scienza è un metodo, non una mannaia che cala su ogni singolo risultato scientifico. Che solo un terzo dei risultati pubblicati sia poi replicabile, e quindi a rigore “vero”, accade anche in altri rami della scienza con la fama di essere più esatti.

La pubblicazione è frutto di una selezione che tiene conto del rigore metodologico. Di qui a dire che i risultati pubblicati siano già così filtrati da essere tutti replicabili ce ne corre. È il tempo e la comunità scientifica intera che negli anni, anzi nei decenni, seleziona i (pochi) risultati alla lunga davvero significativi. E quindi veri. Ogni ricercatore ha le sue distorsioni e cerca di pubblicare con tutte le sue forze e con tutta l’anima i risultati che confermano le sue idee. Tutta l’epica di Popper dello scienziato che cerca di confutare le proprie stesse idee è un racconto un po’ ingenuo, fatto da un filosofo che non ha mai tirato la carretta del lavoro scientifico, un lavoro molto meno gratificante e divertente di quel che sembra. Occorre pubblicare, pubblicare e pubblicare. O morire: publish or perish.

In altre discipline la situazione non è diversa. Prendi la ricerca biomedica, che influisce sulle vite e sulla salute di milioni di persone. Mica come quell’ancella della psicoterapia, sempre a metà strada tra scienza e suggestione. Ebbene, più della metà dei risultati biomedici non è riproducibile! Per dieci anni C. Glenn Begley e la sua squadra hanno lavorato come responsabili della ricerca sul cancro per la società farmaceutica Amgen e hanno cercato di replicare cinquantatré studi di riferimento pubblicati su riviste e condotti da laboratori rispettati.

Quante volte sono riusciti a replicare i risultati? Solo sette volte. Sette su cinquantatré! E non è finita. A questo punto andiamo a leggerci Scientific American che riporta vari casi storici di risultati alla lunga significativi, ma a loro tempo non replicati e non replicabili. E “a loro tempo” può voler dire secoli, come nel caso del modello di Galilei, la cui definitiva replica arrivò solo nel 1851 (quasi trecento anni dopo) grazie al fisico francese Jean Bernard Léon Foucault con il suo famoso pendolo mentre le prove ideate e “dimostrate” sperimentalmente da Galilei in persona risultarono alla lunga deboli (e alcune sballate).

Insomma, la psicologia è una scienza strana, così come la psicoterapia, ma non è la racchia e brutta del mazzo e nemmeno la cattiva, e di storie da raccontare ne ha tante. È vero che ci sono almeno 400 modelli concorrenti di psicoterapia, roba da mettersi le mani nei capelli e disperarsi. E invece occorre mantenere la calma e lasciare fare al tempo della scienza, che svolgerà il suo crudele lavoro chiarificatore –già in corso- senza indulgere in fumose integrazioni che lasciano il tempo che trovano.

Non ci sono saperi cattivi, dunque, ma solo saperi parziali e fallibili. Sarebbe stato inutile, del resto, far cadere gli antichi dogmi per sostituirli con nuove divinità. E i buoni dove sono? Mah, forse occorre andare a cercare anch’essi in luoghi insospettati e poco usati. Su Psychology Today John Johnson riflette su egoismo buono e cattivo. Il rapporto tra cooperazione ed egoismo è complesso. E sebbene esista certamente un egoismo cattivo in cui il bene di qualcuno trae linfa dal male altrui, come accade nelle azioni criminali, esiste un egoismo buono che è presupposto di ogni possibile altruismo. Non posso dare nulla a nessuno se prima non me lo sono egoisticamente, procurato. È la logica win-win, in cui però c’è anche il mio win, il mio vantaggio personale. Un po’ come ci dicono gli assistenti di volo al decollo quando ci istruiscono sulle operazioni di soccorso: prima di salvare qualcuno salvate voi stessi. Prima di aiutare i bambini a indossare le maschere dell’ossigeno, indossatene una voi per primi. Altrimenti non avrete la forza di aiutare nessuno. Questi sono i buoni del 2015.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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