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“Non essere cattivo” di Claudio Caligari (2015) – Cinema & Psicologia

Il film affronta il tema della tossicodipendenza e della difficoltà per molti giovani nel gestire le emozioni negative.

Di Emanuela Calisi

Pubblicato il 02 Nov. 2015

Aggiornato il 08 Mar. 2016 16:21

Non si parla solo di ragazzi con un problema di tossicodipendenza, si parla di ragazzi intrappolati in un mondo dove l’alterazione della coscienza sembra l’unica soluzione alle disgrazie della vita.

“Occhi.” Così ho risposto a chi mi ha chiesto cosa mi è piaciuto di più in questo film.
Lo sguardo dei personaggi del capolavoro di Caligari, così intenso, come esattamente dovrebbe essere; sono occhi fatti, lucidi, malati, tristi, felici, nascosti dietro un paio di occhiali; spesso sono spalancati, ma spenti.
Ci troviamo a Ostia, anni ’90. Non è il solito racconto sulla droga in borgata, ma molto di più.

Non si parla solo di ragazzi con un problema di tossicodipendenza, si parla di ragazzi intrappolati in un mondo dove l’ alterazione della coscienza sembra l’unica soluzione alle disgrazie della vita.

Cesare è un personaggio geniale, un ragazzo come tanti; da Cesare emerge la caratteristica tipica di chi soffre di una tossicodipendenza, ovvero l’impossibilità di gestire le emozioni, soprattutto quelle negative.
E lui, con questi bellissimi occhi chiari, questo bambino intrappolato nel corpo di un uomo, ne ha vissute di situazioni critiche: Cesare non ha un padre, vive con la madre, una donna che dimostra molti più anni di quelli che ha, totalmente distrutta dalla morte della figlia, la sorella del nostro protagonista. Come se non bastasse i due si prendono cura della bambina della sorella defunta, malata gravemente.

Cesare non è mai presente dentro casa, sempre così preso dalla sua vita di pasticche, rapine, alcool, cocaina, risse… ma le poche apparizioni sono sempre commoventi; il suo rapporto con questa bambina è di una dolcezza straziante. E’ talmente diverso quando è in casa con la bambina e la madre, che il pubblico vede due personaggi differenti ma all’interno dello stesso corpo; e Caligari non poteva meglio rappresentarlo, in questo contrasto tra la troppa sofferenza e la troppa alienazione.

Poi c’è Vittorio. Il personaggio già dalla prima inquadratura mi ricorda molto Mark Renton, il protagonista di Trainspotting, una lacerante storia di eroina, capolavoro indiscusso di Danny Boyle.
Vittorio è come Cesare. Anche lui vive a Ostia e frequenta lo stesso giro del suo migliore amico; le giornate passano tra una tirata, una birra e qualche ragazza facilmente disponibile.

L’ARTICOLO PROSEGUE DOPO IL TRAILER DEL FILM:

Vittorio però comincia a guardare fuori e, soprattutto, a guardarsi dentro; questo tipo di vita comincia ad andargli stretta. Conosce una donna che diventerà la sua compagna, trova un lavoro presso un cantiere e si allontana da quel giro dove ormai non si riconosce più. Ma Vittorio vuole salvare Cesare, compagno di pianti e risate, suo fratello; non riesce a vederlo così ed è disposto a giocarsi il suo stesso lavoro per aiutarlo. Anche qui il pubblico può notare un’interessante ambivalenza; l’interesse per se stesso, per la sua vita, il giusto allontanarsi da quel mondo, l’indifferenza, a volte l’odio, verso quella gente; tutto questo in contrasto con l’amore indiscusso verso quel ragazzo che tanto assomiglia a lui fino a poco tempo prima, a cui lui proprio non può rinunciare.

Un film quindi consigliatissimo, per chi vuole avvicinarsi non al mondo della droga inteso come denuncia sociale, ma al mondo della droga inteso da un punto di vista psicologico. Adatto a chi vuole approfondire la psicologia più perversa e nascosta dietro la figura del malato tossicodipendente, di colui che si rifugia; non dagli altri, ma lontano da se stesso.

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Emanuela Calisi
Emanuela Calisi

Laureata in Psicologia Clinica e della Salute presso l'Università G.D'Annunzio in Chieti. Residente a Roma.

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