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Il professore sul ring: perchè gli uomini combattono e a noi piace guardarli?

Gottschall nel suo libro racconta i sentimenti contrastanti che si provano nel combattimento estremo: la paura del dolore e il piacere della vittoria.

Di Marco Innamorati

Pubblicato il 10 Nov. 2015

Aggiornato il 29 Dic. 2015 13:27

Gottschall racconta efficacemente i sentimenti contrastanti che si provano nel combattimento estremo: paura del dolore ma anche della brutta figura causata dal sottrarvisi; piacere della vittoria ma anche soltanto della lotta in sé.

Nel corso dell’ultimo secolo innumerevoli testi – da “Essere e tempo” alla “Guida galattica per autostoppisti” – hanno sottolineato che porre le giuste domande è più importante che offrire le giuste risposte. Se una simile impostazione è corretta, probabilmente il libro di Gottschall può esserne un caratteristico esempio. Gli interrogativi che pone, in effetti, sono di estremo interesse, riguardando il significato degli sport di combattimento (e più in generale degli sport, se non addirittura del gioco inteso come game e non come play), dal punto di vista del loro rapporto con la guerra, degli interrogativi etologici che pongono, delle questioni relative al genere ad essi collegate.

Tutte le domande, però, sarebbero riconducibili a quella formulata nel sottotitolo: “Perché gli uomini combattono e a noi piace guardarli?.

Già questa frase, tuttavia, contiene uno sgradevole retrogusto sessista o è il frutto di un singolare atto mancato di pretta marca freudiana (che non è frutto della traduzione, perché l’originale suona altrettanto ambiguamente “Why men fight and why we like to watch”). Le implicazioni di queste parole sembrerebbero: (1) sono i veri uomini che combattono; (2) tutti gli altri (“noi”) possono solo guardare; (3) sia le donne che gli uomini di serie B sono attratti dai combattenti. Certamente una simile impostazione è molto lontana dalla volontà conscia dell’autore, ma per molte ragioni la lettura del libro non fuga del tutto il dubbio iniziale.

Occorre subito rimarcare che l’autore non è uno psicologo (malgrado tenga un blog entro “Psychology Today”): si tratta di un docente di letteratura angloamericana della Pennsylvania che ha impostato questo lavoro su un doppio registro: l’osservazione partecipante e la ricerca bibliografica. In realtà, però, il rimarchevole sforzo di trarre informazioni da fonti estremamente varie (dalla letteratura all’etologia, dalla sociologia ai manuali sportivi, dai fumetti alla pubblicità) non serve a formulare ipotesi da suffragare con la ricerca empirica; né il racconto delle proprie esperienze sul campo, pur letterariamente tornito e perfino appassionante, può in qualche modo confermare tesi tratte dalla letteratura scientifica.

Il progetto nasce in modo certamente originale. Gottschall, secondo quanto egli stesso riferisce, al momento di formularlo è un adjunct professor (l’equivalente, grosso modo, di un ricercatore) in cerca di un’idea abbastanza forte da lanciarlo verso una brillante carriera o farlo definitivamente licenziare. L’apertura di una palestra di mixed martial arts nei pressi del suo dipartimento gli ispira l’idea di mettersi alla prova e contemporaneamente utilizzare la propria esperienza per scrivere qualcosa di nuovo. Gottschall non è a digiuno di arti marziali, avendo praticato il karate al college, ma è curioso di sperimentare cosa significhi allenarsi per un combattimento relativamente privo di limiti e ritualizzazioni.

Le mma sono in effetti una specialità marziale particolarmente violenta, pensata per i cosiddetti combattimenti nella gabbia (il famigerato octagon), nei quali gli avversari si affrontano in incontri letteralmente senza esclusione di colpi. Al punto che i colpi agli occhi o ai genitali, negli incontri di livello professionistico, sono puniti da una multa ma non dalla squalifica. I combattimenti nella gabbia, in effetti, nacquero come una sorta di barbaro esperimento per stabilire quale arte marziale fosse realmente più efficace. Allo scopo si confrontarono tra loro alcuni tra i più illustri esponenti delle più varie forme di lotta. Il risultato fu in generale la cocente sconfitta delle specialità orientali ad opera di tecniche meno coreografiche ma più semplici ed efficaci come streetfighting e kickboxing. Poiché però il dominatore delle prime edizioni del campionato mondiale risultò un praticante del ju-jitsu brasiliano (basato sulla lotta a terra), i candidati iniziarono ad allenarsi sia a colpire (striking) sia a lottare (grappling). Così si è sviluppata, anche su un piano amatoriale, la disciplina eclettica alla quale Gottschall si è allenato per quindici mesi, arrivando fino a combattere un incontro pubblico vero e proprio (oltre che a infortunarsi innumerevoli volte).

Gottschall racconta efficacemente i sentimenti contrastanti che si provano nel combattimento estremo: paura del dolore ma anche della brutta figura causata dal sottrarvisi; piacere della vittoria ma anche soltanto della lotta in sé.

Ciò che meno convince, però, sono le sue tesi di fondo. Il combattimento sarebbe di per sé una prerogativa naturalmente maschile, allo stesso modo in cui lo sono le lotte tra maschi animali della stessa specie per accoppiarsi con le femmine.

Il fatto che il numero dei praticanti di arti marziali di sesso femminile sia in costante aumento non smuove le sue convinzioni: a suo avviso il maschio è naturalmente fighter e la donna naturalmente cheerleader; esattamente come l’uomo sarebbe naturalmente portato ad attribuire maggiore importanza al potere e alle sfide e quindi più interessato alla politica rispetto alle donne. A suo avviso la stessa distinzione tra sesso e genere sarebbe il frutto di una sorta di equivoco politicamente corretto: gli uomini e le donne non attuerebbero comportamenti attesi dalla cultura dominante ma sarebbero geneticamente predisposti ad agirli. Caratteristico della superficialità con la quale spesso Gottschall si muove è la sua modalità di escludere a priori una componente omoerotica nel piacere del combattimento. A suo avviso è sufficiente prova al riguardo considerare il fenomeno della ritrazione istintiva dei genitali durante la lotta (legato alla necessità di proteggerli).

Rimane senza risposta (ma in questo caso giustamente) un’altra delle questioni fondamentali affrontate dal libro. Se non esistono sport di combattimento collettivo vero e proprio, esistono però molti sport popolari di squadra nei quali gli scontri fisici possono essere piuttosto violenti e per diversi ricercatori hanno, con intenti diversi, da tempo sottolineato l’affinità con il conflitto bellico.

Questi sport sono (come pensava Konrad Lorenz) un modo per incanalare una naturale aggressività umana all’interno di un rituale privo di rischi, o sono al contrario un modo per alimentare l’aggressività che alla guerra conduce?

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Gottschall, J. (2015). Il professore sul ring. Bollati Boringhieri: Torino
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